Nella mostra dedicata a David Claerbout, lo spazio è costruito tenendo conto di tutti gli elementi: l’architettura, la specificità delle opere di Claerbout, il ragionamento che esse instaurano tra di loro e con lo spettatore, il punto di vista dell’artista, del curatore, del direttore, dell’architetto a cui è stato affidato l’allestimento. Una coralità che restituisce un’esperienza, una mostra consacrata al video come non l’avete mai vista, un progetto globale che richiede partecipazione.
DAVID CLAERBOUT Mart Rovereto, 26 ottobre 2012 – 13 gennaio 2013
Il Mart, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto presenta dal 26 ottobre 2012 al 13 gennaio 2013 la prima personale italiana dedicata a David Claerbout (Kortrijk, Belgio, 1969). La mostra, a cura di Saretto Cincinelli, propone al pubblico italiano uno degli artisti più innovativi tra coloro che, nel panorama internazionale, lavorano con le immagini in movimento, e la cui ricerca negli ultimi anni è stata al centro di importanti personali (Centre Pompidou, Parigi, 2007; De Pont Museum for Contemporary Art, Paesi Bassi, 2009; Wiells, Bruxelles; San Francisco Museum of Art, 2011; Secession, Vienna; Parasol unit foundation for contemporary Art, Londra, 2012) e di mostre internazionali che hanno tematizzato l’interesse degli artisti contemporanei per la dimensione temporale di cinema e video. Realizzata in stretta collaborazione con l’artista, la mostra offre, per la prima volta nel nostro paese, un’importante panoramica delle videoinstallazioni di Claerbout, opere che indagano lo statuto dell’immagine nella sua duplice natura di immagine-tempo e immagine-movimento. L’intento del Mart è quello di introdurre il pubblico italiano ad una ricerca che permetta di capire come l’utilizzo del digitale, in chiave non meramente spettacolare, abbia aperto nuovi orizzonti percettivi, estetici e concettuali alla visione contemporanea. Claerbout mette in mostra non il tempo nell’immagine, ma piuttosto il “tempo dell’immagine”. L’artista ci mette letteralmente di fronte alla materia della percezione, e ciò genera una pluralità di paradossi che turbano la normale visione dello spettatore, invitandolo ad “aprire lo sguardo”. L’allestimento, affidato all’architetto Pedro Sousa, rimuovendo completamente la naturale gerarchia degli spazi del primo piano del museo, crea un ambiente totale, in cui opere e architettura appaiono completante integrate, al punto che risulta arduo stabilire se sia l’opera a modulare la spazialità preliminare o lo spazio ad essere predisposto per accoglierla. Tra le opere proposte, “Bordeaux Piece”, 2004 che mostra – calando un’azione che si replica in maniera quasi identica in un tempo che invece si trasforma silenziosamente dell’alba alla notte nel suo monumentale perdurare – più che la decostruzione di una situazione narrativa una sorta di incantamento temporale che sposta insensibilmente l’accento dalla durata dell’evento all’evento della durata; “Sections of Happy Moment”, 2007, che fissa la molteplicità dei punti di vista impliciti in un istante dischiuso, dilatando interminabilmente il tempo della sua durata e facendoci percepire la simultaneità spaziale come progressione temporale; “Riverside”, 2009, che, come molte delle opere dell’artista, giocando con le aspettative precostituite dello spettatore, mostra come contemporanei due eventi che si svolgono in uno stesso luogo ma evidentemente in tempi radicalmente diversi; “The American Room”, 2009, in cui interventi impercettibili ed estremamente sofisticati tendono a mettere in dubbio l’autorità della fissità fotografica, del movimento filmico e della distanza spaziale, producendo nello spettatore la sensazione di potersi muovere liberamente nel tempo congelato di una foto, o infine “The Quiet Shore”, 2011, che, con il suo incantamento di un istante, testimonia l’interesse dell’artista per quel che potremmo definire la soglia della visione, una soglia che sembra far retrocedere l’immagine e il racconto sino allo stadio del suo annunciarsi, quando pare ancora capace di mantenere intatte tutte le sue potenzialità.
Il lavoro di Claerbout si rivela così come una continua rimessa in discussione degli schemi mentali con cui percepiamo il binomio spazio/tempo. In ciascuna opera l’artista ci aiuta a comprendere come una certa cultura delle immagini tecniche sia definitivamente mutata con lo sviluppo del trattamento digitale, che ha aperto nuovi orizzonti percettivi, estetici e concettuali, permettendo al video di affermarsi come spazio di infinite ibridazioni e sovrapposizioni in cui il cinematico e il fotografico incontrano nuove complicità e possibilità di dialogo. Attraverso i suoi lavori possiamo comprendere sino a che punto le più recenti tecnologie abbiano permesso di superare le categorie visive del secolo scorso, liberando il fotografico dalla fotografia e il filmico dal cinematografico.
Catalogo della mostra edito da Electa, Milano