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Osvaldo Licini. Il pastorello, dalla montagna al lago

Osvaldo Licini, Pastorello con la mano sulla guancia, 1925 (particolare) Osvaldo Licini, Pastorello con la mano sulla guancia, 1925 (particolare)
Osvaldo Licini, Pastorello con la mano sulla guancia, 1925 (particolare)
Osvaldo Licini, Pastorello con la mano sulla guancia, 1925 (particolare)

In esclusiva un nuovo studio del nipote del grande artista, Lorenzo Licini, sul rapporto tra il maschile e il femminile nella sua opera

Credo che molte opere di Osvaldo Licini siano nate da una riflessione sul rapporto, in senso spirituale, tra l’elemento maschile (di solito ritenuto razionale) e quello femminile (tradizionalmente considerato intuitivo), elementi che sono presenti in ogni individuo.
Una prima testimonianza di questa riflessione si può trovare, a mio parere, nei cosiddetti Racconti di Bruto. Che Licini scrisse nel 1913 e nei quali, a proposito del rapporto tra il maschile e il femminile, si possono forse cogliere tracce del Manifesto della Donna futurista di Valentine de Saint-Point (1).

Un altro esempio della riflessione su questo tema si può probabilmente trovare nel Bilico, dipinto da Licini negli anni Trenta. Penso che Il bilico sia un’astratta raffigurazione dell’arcangelo Gabriele. Cioè l’arcangelo che, secondo una tradizione, rappresenta l’equilibrio tra gli opposti e, in particolare, tra l’elemento maschile e quello femminile. Un equilibrio angelico, miracoloso, non spiegabile secondo i canoni dell’umana razionalità (2).

 

Osvaldo Licini, Paesaggio fantastico (Il capro), 1927
Osvaldo Licini, Paesaggio fantastico (Il capro), 1927

Anche l’opera Omaggio a Cavalcanti (3), realizzata dall’artista negli anni Cinquanta, allude secondo me al raggiungimento di un equilibrio tra l’elemento maschile (razionalità) e quello femminile (intuizione).
In essa è raffigurato uno strano volto con cinque occhi; la forma della testa ricorda quella di un cuore. Credo che l’artista avesse tratto ispirazione da quel sonetto di Guido Cavalcanti. Che, riferendosi alla visione della donna amata, inizia con “Voi che per li occhi mi passaste ‘l core / e destaste la mente che dormia” (4).

La testa a forma di cuore sembra alludere alla necessità di pensare non soltanto con la testa, con la razionalità, ma anche col cuore, con l’intuizione (5).
In Angeli primo amore, un dipinto del 1955, due angeli (uno di aspetto maschile, l’altro femminile) si tengono per mano nel cielo. Un’unione che sembra realizzarsi anche tra il sole e la luna rappresentati nella parte bassa dell’opera. Forse, in questo caso, una raffigurazione di nozze mistiche (6).

Attis e Cibele

A circa tre chilometri di distanza da Monte Vidon Corrado, il paese marchigiano di origine medievale nel quale nacque Licini, si trovava la città romana di Falerio Picenus (ove sorgeva questa antica città si trova oggi la località di Piane di Falerone).
Soltanto poco tempo fa sono venuto a sapere che a Falerio Picenus era particolarmente radicata la venerazione della dea Cibele e del suo paredro Attis (7). Si tratta di due antichissime divinità il cui culto, proveniente dalla Frigia, era stato introdotto ufficialmente a Roma nel 204 a. C..
La dea Cibele è una rappresentazione della Grande Madre, Attis è una divinità maschile che rappresenta un culto solare.

Ogni anno, il 22 marzo, veniva ricordata la morte di Attis (celebrazione cosiddetta dell’”arbor intrat”); tre giorni dopo si celebrava invece la sua “resurrezione” e, quindi, il ritorno di Attis alla Grande Madre Cibele.
Secondo il mito, Attis era un pastorello frigio che, alla nascita, era stato accudito da un caprone; sembra che il nome Attis derivi da attagus che, in lingua frigia, significa appunto “caprone” (8).
L’idolo di Cibele era rappresentato da una pietra nera caduta dal cielo (un meteorite) di forma conica (una forma che ricorda quella di un monte). Cibele, non a caso, era chiamata la “dea della montagna”.

 

Osvaldo Licini, Pastorello, 1925
Osvaldo Licini, Pastorello, 1925

Il pastorello e la madre, il capro e la montagna

Licini, nelle opere degli anni Venti, raffigurò più volte il tema della “madre” e quello del “pastorello”. Già nel 1922, al Salon d’automne di Parigi, aveva esposto un’opera intitolata Jeune berger (pastorello). Nella retrospettiva che, nel 1958, gli fu dedicata alla Biennale di Venezia, l’artista avrebbe voluto esporre due dipinti dedicati a questi temi (non furono poi esposti per decisione del curatore, Umbro Apollonio) (9); due opere che Licini, probabilmente, considerava rilevanti per la comprensione del suo percorso.
Erano il Pastorello con la mano sulla guancia e il Ritratto della madre con la mano sulla guancia. L’analoga posa potrebbe significare l’esistenza di un legame tra queste due figure.

Sinora non è mai stato chiarito per quale ragione, negli anni Venti, Licini si fosse così tanto soffermato su questi due temi: la soluzione, forse, era da cercare proprio a pochi passi da Monte Vidon Corrado.
La mia ipotesi è infatti che l’artista, sin da giovane, avesse saputo del culto di Attis e Cibele nell’antica città di Falerio Picenus e che ne fosse stato affascinato: i ritratti del pastorello e della madre potrebbero infatti essere messi in relazione con queste due divinità.

Quando Licini ritraeva la madre non intendeva, probabilmente, raffigurare soltanto la propria: raffigurava anche la Grande Madre; mentre i pastorelli dipinti più volte dall’artista non erano semplicemente giovani pastori del luogo, ma forse rappresentavano Attis.
In epoca romana, i cosiddetti “dendrofori” (i membri di una confraternita presente anche a Falerio Picenus) (10) usavano tagliare ogni anno un pino per ricordare la morte di Attis; questo rito, in particolare, avveniva il 22 marzo (lo stesso giorno in cui era nato Licini).
Numerosi partecipanti alle celebrazioni, il 24 marzo, usavano procurarsi delle ferite per ricordare quelle che lo stesso Attis si era procurato e che l’avevano portato alla morte: molto sangue veniva versato in quel giorno che, non a caso, era anche chiamato “dies sanguinis”.

 

Osvaldo Licini, Ritratto della madre con la mano sulla guancia, 1923
Osvaldo Licini, Ritratto della madre con la mano sulla guancia, 1923

Questo particolare potrebbe forse finalmente spiegare l’accentuata presenza del colore rosso (come il sangue appunto) in alcuni pastorelli dipinti dall’artista.
Nel 1927 Licini realizzò il Paesaggio fantastico (noto anche come Il capro), un dipinto nel quale un animale dalle corna lunate fissa immobile una montagna; è un’atmosfera al tempo stesso primordiale e misteriosa (11).
Soltanto adesso credo di averne compreso il significato: il capro (o caprone) rappresenterebbe Attis (è l’animale che, come detto, accudì il pastorello alla nascita); la montagna sarebbe invece Cibele, la Grande Madre.
In questo dipinto il pastorello e la madre (il maschile e il femminile) sarebbero quindi raffigurati insieme, seppur in forma simbolica.

Veltha e Norzia

Il culto frigio di Cibele, la Grande Madre (divinità tellurica), fu poi ufficialmente introdotto a Roma e si fuse con il culto per le altre dee, già venerate nel Lazio, collegate alla terra (12).
In particolare si sarebbe verificato un caso di fusione (sincretismo) tra il culto della dea Cibele e quello dell’antica divinità etrusca Norzia, la dea fortuna; parallelamente, dal punto di vista della divinità maschile, si sarebbe avuto un fenomeno di sincretismo tra Attis (paredro di Cibele) e l’etrusco Veltha (paredro di Norzia) (13).
Sembra che l’area del lago di Bolsena fosse il centro del culto di Norzia e Veltha.
Norzia (chiamata Voltumna dai Romani) era considerata la dea della fertilità, della terra, delle acque, della luna; Veltha (Vertumno in latino) era invece un dio solare, legato al cielo e alla fecondità (14).

Una delle due isole del lago, la Martana, ha la forma di una falce lunare (Norzia, come detto, era anche dea della luna) ed è sempre stata legata alle vicende di importanti figure femminili (come, ad esempio, Santa Cristina e la regina ostrogota Amalasunta).
L’altra isola, la Bisentina, ha la forma di una stella a tre punte e, in epoca etrusca, era forse legata al culto di un dio solare (15).
Credo che Licini fosse venuto a conoscenza degli studi su questo sincretismo tra divinità di origine frigia (Attis e Cibele) e divinità etrusche (Veltha e Norzia).
Forse è proprio questa la chiave per spiegare alcune opere di Licini del secondo dopoguerra; opere che, secondo me, hanno molto a che vedere con il lago di Bolsena.

Mi riferisco, ad esempio, alle opere sul tema dell’Amalassunta che, per Licini, è “la Luna nostra bella” (16).
L’artista disse di essersi ispirato alle vicende della regina ostrogota Amalasunta (17) (in questo caso con una esse soltanto) (18) che morì assassinata sull’isola Martana nel 535.
L’isola ha proprio la forma di una falce lunare e pare che, anche per la sua forma, gli Etruschi la associassero al culto della luna.
D’altra parte Norzia, dea della fertilità, della terra, delle acque, era anche la dea della luna.
Quella che, negli anni Venti, era stata per Licini una rappresentazione di Cibele (attraverso i simboli della madre e della montagna), diveniva adesso una rappresentazione di Norzia (attraverso Amalassunta).
In entrambi i casi si trattava probabilmente della rappresentazione di una stessa entità e cioè di Sophia, la componente femminile divina (19).

L’angelo e il lago di Bolsena

Nel 1957 Licini dipinse l’Angelo di Santa Rosa. Questo angelo assomiglia a una stella a tre punte. E la sua forma ricorda molto quello dell’isola Bisentina (l’altra isola del lago di Bolsena che, per gli Etruschi, era forse dedicata al culto solare).
L’angelo è inserito all’interno di una sorta di ovale che rimanda all’analoga forma del lago del quale Norzia è la dea; sono presenti anche una falce lunare di colore giallo (che fa pensare alla forma dell’isola Martana) e un astro rosso che, probabilmente, rappresenta il sole (20).
Se il culto di Norzia aveva un particolare legame con la Martana, quello di Veltha (divinità solare) lo aveva probabilmente con la Bisentina.

 

Osvaldo Licini, Angelo di Santa Rosa, 1957
Osvaldo Licini, Angelo di Santa Rosa, 1957

Questa opera potrebbe essere, quindi, una raffigurazione delle due divinità etrusche Veltha (in questo caso raffigurato attraverso l’angelo e il sole) e Norzia (rappresentata dal lago e dalla falce lunare).
Licini, nel Paesaggio fantastico (Il capro), aveva raffigurato il pastorello Attis (il capro) e Cibele (la montagna).
Trenta anni dopo, nell’Angelo di Santa Rosa, aveva invece rappresentato Veltha e Norzia. E quindi, ancora una volta, il maschile e il femminile in senso spirituale.
La figura angelica all’interno della forma quasi ovale potrebbe anche ricordare, seppur in modo molto astratto, certe antiche rappresentazioni del Cristo nella mandorla.
Il pastorello, alla fine, è diventato un angelo.

Lorenzo Licini

* Questo studio viene pubblicato in occasione del 127° anniversario della nascita di Osvaldo Licini.

(1) Rimando, sul punto, al mio scritto intitolato Geometria e sentimento pubblicato il 30 novembre 2020 tra le notizie del sito osvaldolicini.it; credo che nei Racconti di Bruto si possa ravvisare anche un’eco della distinzione, evidenziata da Cecco d’Ascoli nel poema l’Acerba, tra la “donna” e la “femmina” (si legga a questo proposito, il mio scritto intitolato Lacerba, L’Acerba, La Cerba. E Bruto pubblicato il 28 febbraio 2021 tra le notizie del sito osvaldolicini.it).

(2) Si veda, sull’argomento, il mio scritto intitolato Arcangeli alla Quadriennale pubblicato il 30 giugno 2020 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.

(3) L’Omaggio a Cavalcanti fu esposto anche nella mostra personale dedicata a Osvaldo Licini che si tenne presso il Centro Culturale Olivetti a Ivrea, nel 1958 (nel relativo catalogo, con prefazione di Giuseppe Marchiori, l’opera era datata 1956). In Giuseppe Marchiori, I cieli segreti di Osvaldo Licini col catalogo generale delle opere, Alfieri, Venezia, 1968, l’opera era invece datata 1954.

(4) Guido Cavalcanti, Rime Con le rime di Iacopo Cavalcanti, a cura di Domenico De Robertis, con una postfazione di Giuseppe Marrani e Natascia Tonelli, ristampa a cura di Paolo Borsa, Ledizioni, Milano, 2012, XIII pag. 46.

(5) Rimando, sull’argomento, al mio scritto intitolato Omaggio a Cavalcanti: gli occhi e il cuore pubblicato l’11 ottobre 2020 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.

(6) Si veda, sul punto, il mio scritto intitolato Angeli primo amore pubblicato l’11 ottobre 2019 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.

(7) Si legga, sull’argomento, Maria Luciana Buseghin, L’ultima Sibilla Antiche divinazioni, viaggiatori curiosi e memorie folcloriche nell’Appennino umbro-marchigiano, Carsa Edizioni, 2013, pag. 125.

(8) Si veda, sulla possibile derivazione del nome Attis da “attagus” che, in lingua frigia, significa caprone, Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia Il racconto del mito, la nascita della civiltà, traduzione di Vanda Tedeschi, Il Saggiatore, Milano, convertito in ebook, 2015, pag. 89.

(9) Si veda, a tale riguardo, la lettera di Umbro Apollonio a Osvaldo Licini del 28 maggio 1958 una copia della quale ho potuto consultare presso l’Archivio Storico della Biennale di Venezia – ASAC.

(10) Si legga Maria Luciana Buseghin, L’ultima Sibilla Antiche divinazioni, viaggiatori curiosi e memorie folcloriche nell’Appennino umbro-marchigiano, cit., pag. 125.

(11) Avevo già esposto alcune mie considerazioni sul Paesaggio fantastico (noto anche come Il capro) nello scritto Una profondità ancora verde pubblicato il 24 agosto 2019 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.

(12) Lucia Morpurgo, Bronzi romani inediti del Museo delle Terme, Roma, Dott. Giovanni Bardi tipografo della R. Accademia Nazionale dei Lincei, 1927, pag. 218.

(13) Per un approfondimento sul sincretismo tra Cibele / Attis e alcune divinità etrusche, rimando alla lettura di Lucia Morpurgo, Bronzi romani inediti del Museo delle Terme, cit..

(14) Si veda, sull’argomento, Giovanni Feo, Il tempio perduto degli Etruschi, Edizioni Effigi, Arcidosso (GR), 2014, pag. 54.

(15) Si legga, a tale riguardo, Giovanni Feo, Miti, segni e simboli etruschi, disegni di David De Carolis, Stampa Alternativa Nuovi Equilibri, Viterbo, 2003, pag. 16.

(16) Parte di una definizione di Amalassunta data da Licini nella sua lettera a Giuseppe Marchiori del 21 maggio 1950.

(17) Si veda, sul punto, Tony P. Spiteris, Un grande artista è morto Il pittore del sogno Osvaldo Licini concede la sua ultima intervista al giornale Elefteria, Elefteria, 2 novembre 1958.

(18) L’aggiunta di una lettera esse al vero nome della regina ostrogota è stata secondo me voluta, da Licini, per rendere possibile un duplice anagramma (la Musa Santa e Malus, Satana). Si veda, a questo riguardo, il mio scritto intitolato Amalassunta, l’anagramma e Baudelaire pubblicato il 26 aprile 2019 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.

(19) Rimando, sull’argomento, al mio scritto intitolato Amalassunta e la parola non detta pubblicato il 21 maggio 2020 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.

(20) Si veda anche il mio scritto intitolato Amalassunta, l’Angelo di Santa Rosa e la “regione delle Madri” pubblicato il 31 dicembre 2019 tra le notizie del sito osvaldolicini.it. Per ulteriori richiami a possibili collegamenti tra opere di Licini e il lago di Bolsena rimando ai miei scritti intitolati Il cielo nel lago e Notturno (sul lago). Rispettivamente pubblicati, tra le notizie del sito osvaldolicini.it, il 29 febbraio 2020 e il 22 marzo 2020.

https://www.osvaldolicini.it/

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