22/23 aprile 2013, Milano
A dieci giorni dall’appuntamento con la “Milan Modern and Contemporary Art” di Christie’s a Milano, la redazione di ArtsLife sfoglia con voi il ricco catalogo dell’asta che avrà luogo nei giorni 22 e 23 aprile a Palazzo Clerici. Le aste di Christie’s, assenti nella città meneghina da circa un anno, dopo l’eliminazione delle vendite autunnali, tornano con un’attenta selezione di opere che punta i riflettori sull’arte italiana. Dopo il focus su Lucio Fontana di qualche giorno fa, vi proponiamo anche un approfondimento su Giorgio De Chirico.
Nato in Grecia nell’estate del 1888 da benestanti genitori italiani, Giorgio de Chirico inizia i suoi studi artistici al Politecnico di Atene. Li continuerà all’Accademia di Belle Arti a Firenze, per poi terminarli nel 1906 all’Accademia delle Belle Arti di Monaco di Baviera, dove conosce e resta affascinato dalla pittura di Arnold Bocklin e dei simbolisti tedeschi. Dopo aver dipinto a Firenze la sua prima piazza metafisica, raggiunge nel 1911 il fratello – il pittore Alberto Savinio – a Parigi. Qui incontra i principali artisti dell’epoca e si muove sulla tela con uno stile più sicuro. Prendono così forma le prime rappresentazioni delle piazze d’Italia. Negli anni 1912/13, accresciuta la sua fama, inizia a dipingere manichini e sviluppa il suo stile metafisico. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si arruola come volontario a Ferrara: qui rinnova la sua pittura e popola le sue piazze assolate di simboli geometrici, biscotti e pani. Negli anni ’50 sviluppa l’interesse verso i ritratti in costumi barocchi e le vedute di Venezia.
Di seguito le sei opere in catalogo
Il saluto di Ettore e Andromaca
Due figure appaiono su una sorta di palcoscenico molto inclinato; la dimensione teatrale della scena è ulteriormente sottolineata da elementi laterali che fanno da quinta; qualche elemento (in questo caso una vela) si staglia all’orizzonte, contro un cielo dalla colorazione innaturale. Le figure, sostenute da una specie di impalcatura e da squadre di legno, sono del tutto incongrue. Solitamente definite ‘manichini’, sono in realtà assemblaggi eterogenei di elementi di legno. Prive delle braccia, si reggono su piedi minuscoli che in questa versione appoggiano su una base, interessante variazione che rende ancora più artificiale la rappresentazione. Le ombre lunghe dei manichini, che non sono coerenti con gli oggetti da cui sono proiettate, descrivono un tardo pomeriggio vuoto e silenzioso. Un’altra ombra sulla destra di chi guarda rivela un oggetto o un edificio che incombe sulla scena. Come negli altri dipinti metafisici di Giorgio de Chirico, è assente ogni traccia di presenze umane. Il tempo è immobile e l’epoca in cui si svolge la scena non è chiara.
L’immagine appena descritta è ambigua, il suo significato è misterioso e l’unico indizio che parrebbe darle un senso è il titolo, che si riferisce a un episodio del VI libro dell’Iliade, ed è quindi parte di quel patrimonio culturale classico di cui de Chirico era profondamente intriso. L’artista fa riferimento alla drammatica scena del saluto tra Ettore e Andromaca, quando l’eroe ignorando le preghiere della sposa, decide di affrontare Achille in battaglia, perché non è da eroi restare in disparte, anche se questa scelta porterà alla scomparsa della discendenza di Priamo, e alla perdita per Andromaca di tutti i suoi cari. Il forte sentimentalismo messo in versi da Omero qui è completamente assente: nel mondo dechirichiano infatti gli aspetti narrativi ed emotivi scompaiono perché le vicende personali e la cronaca non hanno posto; gli aspetti fisici e i sentimenti sono trascurati a favore di quelli metafisici; quello che rimane della vicenda mitica è solo il senso di sospensione , di destino incombente e misterioso.
L’enigma
Il vero protagonista, come sostiene lo studioso Maurizio Calvesi, è l’enigma. E se dunque l’immagine pittorica, pur non essendo astratta, puramente formalistica e fine a se stessa, ma ‘rappresentativa’ di qualcosa e quindi dotata di un tema e di un ‘soggetto’, al tempo stesso non riconduce a un senso definibile, ciò che essa esprime è in ultima analisi il ‘non-senso’. In effetti, nell’animo inquieto di de Chirico, doveva albergare il dubbio che il ‘non-senso’ fosse il fondamento stesso della realtà, dell’esistenza”. (M. Calvesi, La Metafisica continua, in cat. mostra Palermo 2008, p. 25). Ettore e Andromaca è un soggetto la cui prima versione risale al 1917, all’originario gruppo di immagini che sono il nucleo principale dell’iconografia metafisica di de Chirico. Questo e altri dei temi figurativi più riusciti riappaiono attraverso tutta la carriera dell’artista.
Piazze d’Italia, un omaggio al Rinascimento
De Chirico scopre molto presto la possibilità di impadronirsi dello stile dei grandi pittori del passato e di immedesimarsi completamente in loro. Fin da giovane passa intere giornate nei musei studiando le opere di Raffaello, Poussin, Rubens e si cala nella loro personalità fino a pensare di poterne condividere non solo i caratteri stilistici, ma anche i processi mentali e creativi. L’artista arriva ben presto a eseguire dipinti che non sono copie, ma vere e proprie ri-produzioni delle opere dei maestri del passato. Influenzato dalla dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno del medesimo, vede la tradizione artistica come un continuum in cui si ripropongono eternamente uguali problemi, valori, situazioni. La storia dell’arte è un confronto ininterrotto tra personalità che accidentalmente hanno vissuto in epoche differenti ma che, attraverso la pittura, dialogano in un eterno presente. Per un grande artista è quindi possibile -anzi, necessario- spostarsi all’indietro nel tempo e calarsi nelle tecniche e nella personalità creativa dei maestri. Tra i grandi artisti -del passato, e quindi del presente- de Chirico conta anche se stesso. Con una straordinaria operazione concettuale comincia quindi, a un certo punto della sua carriera, a ri-produrre le sue stesse opere. Come ossessioni da cui non è possibile liberarsi, le immagini da lui stesso create continuano a riproporsi alla sua mente e al suo pennello. Anche in questi casi non si tratta di copie, ma di rielaborazioni dello stile, della tecnica e delle straordinarie invenzioni del pictor optimus: se stesso.
Nelle Piazze d’Italia, uno dei temi più caratteristici e più richiesti della produzione pittorica dell’artista, si manifesta tutta la sua devozione per la storia dell’arte e per il rinascimento italiano. Qui l’idea di piazza e gli edifici che la circondano rimandano a concetti architettonici e urbanistici tipicamente italiani, ed è chiaro il riferimento alla pittura rinascimentale, in particolare alle vedute prospettiche rappresentanti città ideali. Queste vedute, coerenti con il pragmatismo rinascimentale, erano modelli operativi, indicazioni di obiettivi, fonti di ispirazione per l’architetto. Nel caso di de Chirico le finalità sono completamente diverse: non vuole insegnare, non vuole trasmettere, non vuole condividere. Le sue sono visioni senza finalità pratiche che, anzi, svilirebbero l’opera d’arte. De Chirico è un vate e un visionario che constata la natura enigmatica dell’esistenza senza cercare soluzioni.
Del resto le architetture rappresentate sono spesso inabitabili o inutilizzabili, come quella centrale a pianta circolare (evidentemente debitrice dei templi dipinti da Perugino o Raffaello) i cui accessi, se esistono, non sono visibili e le cui aperture sono inadeguate rispetto alla dimensione dell’edificio. I pomeriggi estivi delle Piazze d’Italia sono spesso deserti. In qualche caso, come in questo, è presente una coppia di uomini che non riesce a turbare l’altissimo silenzio. La statua di Arianna (che nei primi dipinti di de Chirico appariva ornata dalla scritta Malinconia, stato d’animo ritenuto dalla cultura del tempo il più propizio alla creazione) domina il centro della piazza mentre, appena davanti allo spettatore si trova un parallelepipedo abbandonato, uno scatolone o una cassa. Sospensione, mistero, malinconia, silenzio, attesa, inquietudine: tutti questi elementi concorrono a formare i sottili enigmi della pittura metafisica, perfettamente espressi anche da “Le muse inquietanti”.
Il tempo immobile
“Non c’è azione; la piazza è immobile, le figure aspettano. Cosa succederà? Non c’è risposta, dato che questa pittura è l’esatto opposto di quei dipinti di banditi del XVII secolo in cui è prefigurato un finale disastroso. L’immagine di de Chirico -tutta la sua arte – si riferisce direttamente alla contro-logica del subconscio, a quelle zone paludose al margine della mente dove bianche estasi germogliano e le radici della paura sono profonde e scure come cipressi”. (J. Th. Soby, Twentieth Century Italian Art, New York, 1949, pp. 20-21).
De Chirico propone interrogativi senza soluzione e si abbandona all’enigma con un atteggiamento distaccato. I dipinti dell’artista presentano un assurdo palcoscenico su cui si svolge uno spettacolo con personaggi senza volto e senza espressione, uno spettacolo in cui l’espressione del sentimento personale è esclusa. Il tempo della storia e della quotidianità non hanno posto nei dipinti di de Chirico. Nelle sue tele metafisiche il tempo è immobile, immaginario, imprecisabile. Le idee artistiche vivono in eterno e il flusso degli eventi è solo un’illusione. Per questo motivo in un eccezionale dipinto metafisico come quello che presentiamo convivono monumenti rinascimentali (il Castello Estense di Ferrara), statue che potrebbero essere classiche, industrie, ciminiere, e solidi geometrici che potrebbero appartenere a qualsiasi epoca.
La mancanza di un orizzonte temporale preciso è una delle principali cause del senso di inquietudine e spaesamento che si prova di fronte ai dipinti di de Chirico. Oltre a questo, l’ambiguità delle coordinate spaziali, le fughe prospettiche vertiginose e soprattutto la natura delle figure (verrebbe da parlare di ‘personaggi’, ma il mondo delle Muse Inquietanti è disabitato e inanimato) e le relazioni che le legano tra loro contribuiscono al mistero di scene che restano enigmatiche.
Per il pittore metafisico il tempo della storia, assente all’interno del dipinto, è irrilevante per il processo creativo: solo le immagini contano, non l’ordine in cui si presentano alla mente degli artisti. Si chiarisce dunque il motivo per cui in de Chirico gli stessi temi si ripetano quasi ossessivamente. L’artista continua infatti a riflettere sulle sue intuizioni e nessuna contraddizione esiste nel riproporre gli stessi soggetti lungo tutto il corso della carriera.
Le Muse Inquietanti rientrano in questo filone autoreferenziale; de Chirico impersona in tutta la sua carriera una delle figure più emblematiche del suo immaginario, il ‘ritornante’, tornando a dipingere le stesse immagini e a meditare sui medesimi processi creativi. “Il procedimento della replica è ciò che rivela in modo più evidente il fondamentale non-espressionismo di tutto il suo lavoro: in una dimensione espressionista, in cui ogni dipinto è legato a un singolo e irripetibile momento della storia personale, la replica sarebbe non solo impossibile ma anche eticamente riprovevole, mentre nella prospettiva di una pittura che pone i suoi segni al di fuori della corrente del tempo (altrimenti non avrebbe neppure senso parlare di metafisica) ogni ripresa diviene assolutamente lecita e assolutamente necessaria” (V. Rivosecchi, La riscoperta di se stesso. Il mito dell’Eterno ritorno, in de Chirico. Gli anni Trenta, Milano 1998, p. 111)
Per de Chirico le mode e le tendenze rappresentavano lusinghe fallaci; d’altra parte egli non avrebbe mai accettato di scartare un soggetto che gli appariva interessante perché ‘sorpassato’. La pratica stessa di retrodatare alcuni dipinti, riutilizzata da altri a fini grettamente commerciali, per de Chirico rappresenta -per utilizzare un’espressione di Nietzsche, uno dei filosofi da lui più amati- una delle manifestazioni dell’eterno ritorno del medesimo.
In catalogo anche una veduta veneziana degli anni ’60, Venezia – Isola di San Giorgio, stimata €50.000-70.000. Stesso prezzo per Cavalieri in Battaglia, opera risalente alla seconda metà degli anni ’40.