Si è appena conclusa alla Tate Modern di Londra un’esposizione fotografica sviluppata sul tema della guerra e del suo impatto nel tempo sulle cose, sulle persone, sui luoghi, sulla natura. Gli scatti che compongono le dieci stanze non sono disposti in ordine cronologico, ma seguono la quantità di tempo trascorsa tra il momento dello scatto e l’evento.
Si comincia con alcune immagini afferrate pochi istanti dopo una carneficina o l’esplosione di una bomba, per finire con i silenziosi paesaggi che un secolo prima erano stati scenari sanguinari e disumani durante la Prima Guerra Mondiale.
Lo scrittore statunitense Kurt Vonnegut e il suo romanzo Mattatoio n.5 segnano il punto di inizio di questo cammino che ripercorre il passato, fino a ritrovarlo nei giorni nostri. Nel 1943 Vonnegut abbandonò l’America per arruolarsi volontariamente fra le schiere degli Alleati; fatto prigioniero l’anno dopo, venne trasferito in Germania, nella città di Dresda, dove visse in prima persona il bombardamento alleato che nel febbraio del 1945 rase al suolo la città e causò 135.000 vittime. Solo poco più di 20 anni dopo, Vonnegut decise di affrontare i suoi fantasmi dal passato e di raccontarli nella sua opera più famosa, Mattatoio n. 5. Un romanzo quasi fantascientifico che ruota attorno al concetto di slittamento temporale: il passato fiorente di Dresda, il presente negli Stati Uniti e un futuro incerto.
Ed è, appunto, la relazione fra passato e presente, e l’eredità lasciata dall’uno per l’altro, il filo che conduce il visitatore tra gli scatti di quei fotografi che si sono trovati faccia a faccia con il passato e la sua imminente crudeltà, o di quegli altri che, invece, lo hanno affrontato subito dopo, oppure soltanto dopo anni. E’ un percorso, quello curato da Simon Baker, che rende giustizia al ruolo del fotografo come ponte fra passato e presente, fra storia e attualità. Una posizione che, tra l’altro, viene vissuta differentemente a seconda dell’occhio che sta dietro l’obiettivo: la prospettiva cambia, si evolve. Ci sono alcuni scatti tipici del reportage e del documentario, ma non mancano quelli destinati a circostanze specifiche o ludiche, come le fotografie per le guide turistiche.
Ricolme di caotico dolore le immagini della prima sezione, scattate pochi istanti dopo un evento bellico. Impaurito, stremato, sporco e umano; questo è il volto di un soldato americano che Don McCullin ha immortalato nel 1968 durante la Guerra del Vietnam, pochi attimi dopo una carneficina. A ricordarci che la guerra non appartiene solo al passato,gli impressionanti scatti a colori di Simon Norgfolk che nel 2001 ha dato inizio al progetto Chronotopia, una raccolta di fotografie che descrivono un paese, l’Afghanistan, martoriato da un trentennio di guerre di ogni origine e scopo; anche Luc Delahye è stato testimone di questi immensi paesaggi aridi squarciati da nuvole di polvere e detriti che rimbombano in un silenzio disperato. Si torna poi indietro alle esplosioni atomiche in Giappone con Matsumoto Eiichi che, appena dopo qualche settimana dallo scoppio delle bombe su Nagasaki, vi fa ritorno, immortalando un’ombra di un soldato, rimasta impressa sul muro di una casa durante la tragica detonazione.
Sono passati, invece, 7 mesi dalla fine della Prima Guerra del Golfo (1990-1) quando la francese Sophie Ristelhueber fotografò trincee abbandonate, rottami militari e molti altri resti di uno scontro che ha inquinato l’immobile e regale vastità del deserto del Kuwait. Da una parte, ci sono guerre che lasciano tracce visibili, ed altre, invece, che, silenti e costanti, si portano via qualsiasi forma di vita ed entusiasmo. E’ quindi Diana Matar che, nel suo progetto Evidence (2012-13) racconta come dopo soli sette mesi dalla caduta di Gheddafi in Libia, una dittatura che ha portato a oltre un trentennio di guerre civili, il presente e la vita appaiano quasi atrofizzati e apatici; niente parla di quello che è stato, e nessuno sembra davvero credere in una possibile rinascita.
Uno dei grandi errori dell’uomo moderno è quello di credere solo a ciò che può vedere, solo alle cose che i media gli raccontano. Quello di cui non parlano, non esiste. Ed è attorno al concetto di “guerra dimenticata” che ruota il progetto Open See Democratic Republic of Congo (2008) dei fotografi Kim Goldberg e Kamal Kelhifla che punzecchiano l’incoscienza dello spettatore, reo di credere che esistano combattimenti di serie A, ed altri, come nel caso della Guerra Civile in Congo, che non meritano attenzione, come quadri caduti dalla parete, che nessuno si preoccupa di riappendere.
Gli anni passano e la foga brutale dell’uomo non accenna la ritirata; Jo Ractiffe racconta quello che resta 5 anni dalla fine della guerra civile in Angola con la collezione Terreno Ocupado del 2007. A rammentare, poi, che lo sterminio di massa non riguarda solo gli anni ’40 del Novecento e il nome di Adolf Hitler, Taryn Simon che rievoca con la sua A living man declared dead (2011) il genocidio di Srebrenica (1995) con l’uccisione di oltre 8 mila musulmani per mano serba.
Dopo alcuni scatti di McCullin,Harry Shunk e Janos Kendler che riportano il presente al 1961, quando la Germania venne spaccata in due dal Muro di Berlino, il gap temporale si intensifica con Saomei Tomatsu, Hiromi Tsuchidae Kikuji Kawadache, dopo oltre 20 anni, tornano all’agosto del 1945, a Nagasaki e a Hiroshima; i primi due, con le loro fotografie che parlano (1963) – l’orologio che segna l’ora precisa dell’esplosione atomica,un elmetto riverso a terra, la giacca di un militare – raccontano chiaramente la crudeltà del momento. Kawada, invece, con il suo progetto Map(1965), ha voluto lasciare un senso di confusione e smarrimento, come le mura di Hiroshima a tal punto martoriate dalla guerra da assomigliare a carte geografiche che, però, possono soltanto portare a perdersi di nuovo.Particolare anche l’interpretazione di Joao Penaleva che, dopo 52 anni dallo scoppio delle bombe atomiche, nel 1997 ripropone con From weeds of Hiroshima alcune foto solarizzate con protagonisti fiori e foglie; il suo obiettivo è richiamare alla mente l’orribile impronta che l’immensa esplosione delle bombe ha lasciato sulle persone e sulle cose.
Dopo aver rievocato anche la Rivoluzione del Nicaragua con la foto-simbolo firmata da Susan Meiselas che nel 1979 immortalò il Bareta, alias Pablo Araus, uno degli spiriti guida della rivoluzione, nell’atto di lanciare una molotov, l’attenzione torna sul periodo della II Guerra Mondiale; le sorelle Jane e Louise Wilson nel 2006, dopo ben 64 anni, sono tornate nel nord della Francia per testimoniare la solida permanenza dei segni di una guerra nel tempo e nello spazio, immortalando in bianco e nero alcuni forzieri, ancora intatti, costruiti dall’esercito tedesco. Con Stephen Shoree il suo progetto del 2012-13 Ukraine, si viene, invece, proiettati di fronte ad anziani dai sorrisi sdentati, circondati da ceramiche sbeccate ed elettrodomestici datati; sono i volti e i cimeli sopravvissuti all’olocausto ucraino del 1945, in cui vennero uccise oltre 3 milioni di persone.
A distanza di 70 anni dalla Guerra Civile Spagnola, Luc Delahaye ha immortalato Patio Civil (2009, Malaga), un fotogramma di alcuni scheletri di prigionieri, esumati dagli agenti della scientifica. Con Ursula Schulz-Dornburg la distanza temporale aumenta, ritornando alla Prima Guerra Mondiale; nel 2000 la Schulz ha, infatti, percorso a ritroso la ferrovia ottomana che collegava Damasco a Medina, sommersa e distrutta durante i combattimenti.
Nonostante l’unica certezza della vita, lo scorrere del tempo, sia immutabile e incessante, la storia si ripete, ciclica e testarda, perché sembra non capire i suoi errori del passato. Quello che oggi è un posto di quiete e idillio floreale, ieri è stato scenario di crimini aberranti; e anche se, in apparenza, tutt’intorno c’è silenzio, la natura e la vita che va avanti non dimenticano, e, in qualche modo, sapranno sempre ricordare all’uomo quanto crudele è riuscito ad essere – 99 anni dopo la Prima guerra Mondiale, Chloe Dewe Mathews, Time unknow/6.2.1915 (2013), radura dove vennero giustiziati per mano nemica oltre 300 soldati francesi, inglesi e belgi.
26 November 2014 – 15 March 2015