Mai avrei pensato che si potesse battere Goldin al perverso modus curatoriale dell’artistica ammucchiata. Tecnicamente: orgia espositiva finalizzata all’onanismo dell’organizzatore. Quella del “ci infilo ogni cosa che trovo”, “più siamo meglio stiamo”, “tutti dentro”, “All in”, del “Basta che si guardi”. Chissenestrafrega naturalmente di qualsiasi logica critica e/o direzione scientifica… tutte cose così noiose da pallosissimi studiosi. Dimenticavo però un fattore fondamentale. Vittorio Sgarbi, l’uomo che si definisce “Napoleone”, per aver dato vita a “il Louvre di Expo”, ad una “esposizione senza precedenti”. Già, Vittorio Bonaparte col cappello da Napoleone.
Senza ripetere tutto quello che è già stato fin troppo bene scritto e descritto in proposito (e quanto ne fa anche da maldestro contorno) da Tomaso Montanari su Repubblica e Federico Giannini su Finestre dell’Arte, mi addentro per quel calderone espositivo in un breve tour, annegando volontariamente in tutta quella sbobba autoerotica creativa.
Premessa: 1) Sgarbi supera, a prescindere, sempre tutti; 2) Tra il cardo e il decumano tutto s’incrocia a puntino: le scarse velleità culturali di Farinetti (che però sfrutta “l’arte come accessorio da esibire”), il Luna Park Expo (emblema del consumismo culturale di massa) e la retorica provinciale a palate con cui tutto è condito da queste parti. Il fato ha voluto che si incontrassero tutti quanti al ristorante. Risultato: “Il Tesoro d’Italia” apparecchiato ai Ristoranti di Eataly ad Expo 2015, tra un tartufo norcino e una cinta senese. Gnam.
Lo hanno definito “supermercato dell’arte“. Vero. Anche se l’impatto, la sensazione, all’interno è quella di stare in un macello dell’arte, dove le opere sono appese come fossero prosciutti e salami a seconda della dimensione. Un tot di salami dal Trecento ai giorni nostri, duecento per l’esattezza (che arriveranno a 350), suddivisi per regioni. Manca solo il cartellino: tastare e toccacciare, prego, per sentirne e assaporarne la “biodiversità”. Ah! La biodiversità, che parola stupenda carica di significati…
Qui tutto è in nome della magica biodiversità: la “biodiversità dell’arte” di Sgarbi, quella del “cibo” di Farinetti, quella “umana degli italiani” di Baricco e quella “musicale” che ti accompagna in mostra di Radio Capital per Eataly. Guardare Reni con quelle “bionde trecce gli occhi azzurri e poi“, i “rossi relativi” tizianeschi (Ferro) del Pontormo o quel “frate domenicano” del Lotto “dalla pelle grigia che ti guarda senza gioia” (Finardi). “Tu chiamale se vuoi emozioni”.
Iniziamo confidando, affascinati, di essere illuminati da tutte queste mirabili parabole sulla biodiversità (quasi diodiversità) nostrana, sperando non sia solo spiccia retorica nazional-popolare per vendere (e svendere) “l’eccellenza italiana” con un piatto di trenette al pesto (il primo e unico cartello introduttivo spiega che in mostra sarà esposta la “varietà genetica di alcuni grandi capolavori dell’arte italiana, che indicano la natura dei luoghi, le terre, le acque, i venti che li hanno generati”).
Di certo NON aiuta l’imbarazzante donna-carota di Serafini (che regione e che vento sarà stato a plasmarla? boh!) che accoglie il visitatore, con tanto di margheritine posticce e candidi coniglietti che le fanno da guardia, preceduta dall’ammiccante faccione di Sgarbi con appresso il nuovo libro. Amen, lasciamo stare. Proseguiamo.
Appena salutato il femminil fittone ci attende però di molto peggio: una Madonna col Bambino, firmata Andrea della Robbia, con in testa scolpito il pannello de Il Tesoro d’Italia di Sgarbi, sbattuta per terra, che si specchia tra salami e cannoli dipinti nella discutibile pozza di Gaetano Pesce (by Gobbetto pavimenti in resina): una macchia “biodiversa” (o biodiversificata) d’ingresso dal titolone “Tu sì’na cosa grande”. Che classe.
Va beh, vedrai che sarà molto meglio dentro, lascia perdere questo, sei solo all’inizio mi ripetevo. “Tu chiamale se vuoi illusioni”, speranze mal riposte. Vai con gli improbabili accostamenti nonsense. Frutta piemontese di Francesco Garnier Valletti coronata da pizzi alimentari sardi, perché dovete sapere che qua e là per la mostra, sopra qualche teca o a fianco a qualche opera, compaiono panettoni di pizzo e biscottini impizzettati. No, davvero, ci sono pure dei galletti ricamati.
Ma andiamo avanti.
Ecco dei duetti fantastici: un “arazzo” della Rubelli Design Studio (sponsor della mostra) a fianco de “La verità” di Mancini; un “Leopardo” di Ligabue con una specie di stele senza nome e senza un perché (però prova a nascondere un condizionatore); un “San Bartolomeo” di Nicola di Maestro Antonio (Marche) con una Maria incoronata su tavolino di velluto (non c’è nome e regione ovviamente); e via con altre coppiette improbabili a destra e sinistra.
Poi compaiono alcuni trittici incredibili: numero 1 – la “Bolla del Perdono del 1294” di Papa Celestino V (Abruzzo), “La Scannese” di Costantino Barbella (sempre in quota Abruzzo) e la magica “Aurora boreale comparsa in Napoli la sera del 17 novembre 1848” di Salvatora Fergola (Campania); numero 2 – l’Albero genealogico della stirpe di David di Matteo da Gualdo (Umbria) col “Fiore di cactus” di Riccardo Francalancia (Umbria), sempre con immancabile panettoncino di pizzo sardo in primo piano.
Giri l’angolo e c’è uno povero Perugino solitario relegato senza fortuna e senza colpe a mo’ di anti-incendio. Ma questa è un’altra storia.
Non manca qualche poker strepitoso, come quello della parete emiliana composta da un’incantevole “Vergine” di Guido Reni (Emilia) contemplante sopra un “Interno metafisico” di De Chirico bollato anch’esso “Emilia”. Bah.
Cinquine esilaranti: i seni della Sant’Orsola di Ghizzardi (Lombardia), un gallo ricamato, un panettone di pizzo, la “Analisi di un pavimento” di Ferroni (Lombardia) e due teschi iperrealisti non identificati.
Passata la sezione ligure-lombarda con Wildt e Andrea Solario, a tu per tu come due vecchi amici, ecco la parete dei veneti squadrarsi con quella dei romagnoli (ben staccata dalla rivale emiliana); al centro “San Girolamo” di Donatello (Toscana) fa da moderatore. Sulla parete di fronte, in platea, presenzia la bambina di Libero Andreotti (Toscana) che gioca al sassetto e sembra non fregarsene un granché (e fa bene) dello spettacolo, a fianco un’Adriana di Virgilio Guidi sopita. Appena più sopra un lupo e un teschio non identificati perché (tanto per cambiare) senza alcuna didascalia. Ah già, c’è anche il “Tram di Monza” di Bonzaghi targato Emilia. Due regioni al prezzo di uno e un’altra cinquina strepitosa.
Regioni che si guardano, regioni che si accalcano una con l’altra e una sopra l’altra. Un’orgia della biodiversità. Teorie critiche nemmeno l’ombra, il senso espositivo è un casino, non si capisce niente (se mai ci fosse qualcosa da capire). Non è neanche la già di per sé deprecabile differenziazione per nascita dell’artista o posto in cui ha realizzato l’opera (come se fosse normale ridurre la storia dell’arte a fattori di nascita o altro) ma un caos cosmico cervellotico inspiegabile e in-spiegato, nel senso di non spiegato. Non esiste un cartello, un totem esplicativo che sia uno, se non l’iniziale menata retorica su quanto sia bella la biodiversità e che in Italia abbiamo un milione e mezzo di siti Unesco, bla bla bla. Non esistono le date delle opere e ogni tanto compaiono qua e là quadretti anonimi.
Accoppiate artista-regione? Di tutti i gusti. Il Baciccio se ne va nel Lazio, Stomer in Sicilia, Jacob Hackert in Campania, Vivarini in Puglia, Van Pitloo in Toscana, De Chirico in Emilia (certo son passati e hanno lavorato da queste parti o comunque qualcosa ci hanno fatto, ma un minimo di spiegazione? Niente) e via così. Ah! Donatello è in Toscana. E anche lo “scultore toscano” va per la Toscana perfortuna. Fiuuuuu.
In questo modo, recita il sempiterno cartello iniziale, “anche agli occhi inesperti apparirà evidente la diversità di un piemontese da un lombardo, di un veneto da un toscano, di un marchigiano da un pugliese”, perché “mai, come in questa occasione, il confronto farà riconoscere ogni differenza in un coro che restituisce l’immagine dell’Italia.” Una mostra che pretende di far “mostrare bellezza a chi viene da fuori l’Italia” ammassando opere d’arte a caso pescate in giro per il Paese. No comment.
Meglio uscire. Finalmente fuori. Il cielo azzurro sopra di noi… l’Esibizionista di Athos Ongaro davanti a noi! Impermeabile aperto e pantaloni calati col bigolo in vista.
No, basta.
Biodiversità? Tesori d’Italia? Le terre, i mari, i venti generanti capolavori? Basta cazzate.
Le foto della mostra “I Tesori d’Italia” di Vittorio Sgarbi al Padiglione di Eataly ad Expo 2015
Foto e testo: Luca Zuccala ArtsLife
2 Commenti
ritengo che il museo di Sgarbi ha rappresentato il “cibo” artistico dell’esposizione.
Purtroppo e mi fa molta fatica ammetterlo, e dare ragione a Montanari, ma dopo aver visto questa mostra ritengo di aver visto molto raramente mostre così brutte.
E’ stata fatta un’accozzaglia di opere che anche da un punto di vista estetico gridano vendetta e mi spiace che sia stata proposta questa mostra, al mondo di Expo, come la bellezza dell’arte Italiana. Abbiamo fatto certamente una pessima figura. Non sono abituato ad usare termini come quelli utilizzati da Sgarbi, ma veramente questa volta si tratta di una vera “ciofeca”.