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Biennale di Berlino 2016. Il post-contemporaneo ha ucciso per sempre lo spirito critico?

Ingresso della Akademie der Künste Ingresso della Akademie der Künste
Ingresso della Akademie der Künste
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Dopo tre mesi di incontri, eventi e workshop, l’interrogativo resta quello iniziale: il post-contemporaneo ha ucciso per sempre lo spirito critico?

Il 18 settembre cala il sipario sulla Biennale di arte contemporanea di Berlino. Questa nona edizione, apertasi a giugno, ha subito diverse stroncature della critica, ma ha visto d’altro canto un afflusso di pubblico enormemente più alto rispetto alle edizioni precedenti. Incremento determinato soprattutto dall’impennata dell’ultimo mese, dopo che Rihanna ha visitato la gigantografia che la ritrae acefala ed in bikini nel cortile del KW Institute for Contemporary Art – Ewaipanoma (Rihanna), dell’artista colombiano Juan Sebastiàn Pelàez – ed ha postato diligentemente le foto sui social network, scatenando il pellegrinaggio di una miriade di fan.

9th Berlin Biennale for Contemporary Art Debora Delmar Corp., MINT, 2016 Foto: Timo Ohler
9th Berlin Biennale for Contemporary Art
Debora Delmar Corp., MINT, 2016
Foto: Timo Ohler

Il fatto è tutt’altro che banale. Nelle sue sculture e nei suoi lavori bidimensionali, Juan Sebastiàn Pelàez esamina la convergenza o la frizione tra resistenza politica, social media e circolazione delle immagini nell’era del capitalismo avanzato. Il flusso di immagini dei piccoli e grandi dispositivi della comunicazione globale conduce verso la loro saturazione e svalutazione. Pelàez adotta un approccio post-post-coloniale alla diffusione dell’immagine digitale, guardando alla circolazione dell’immagine contemporanea come ultimo paradigma di un sistema di mercato globale antico odierno, che perpetua la stessa Storia di sfruttamento e repressione.

Ewaipanoma (Rihanna), dell'artista colombiano Juan Sebastiàn Pelàez. La gigantografia di una Rihanna acefala ed in bikini è esposta nel cortile del KW Institute for Contemporary Art.
Ewaipanoma (Rihanna), dell’artista colombiano Juan Sebastiàn Pelàez. La gigantografia di una Rihanna acefala ed in bikini è esposta nel cortile del KW Institute for Contemporary Art.
Gli scatti postati su twitter da Rihanna, mentre posa davanti all'opera Ewaipanoma (Rihanna) di Juan Sebastiàn Pelàez.
Gli scatti postati su twitter da Rihanna, mentre posa davanti all’opera Ewaipanoma (Rihanna) di Juan Sebastiàn Pelàez.

Ma quando la Rihanna in carne ed ossa arriva alla Biennale, il potere del sistema delle celebrieties e della circolazione delle immagini ritorna come un boomerang nella forma di migliaia di visitatori, che si recano non in una Biennale d’arte, ma in un luogo santo, quello dell’apparizione della celebrity. Forse nulla poteva rendere più evidenti le contraddizioni di questa edizione, aperta nel segno della seguente dichiarazione di intenti: La nostra proposta è semplice: anziché organizzare conferenze sull’ansia, rendiamo la gente ansiosa. Piuttosto che indire simposi sulla privacy, mettiamola a repentaglio. Diamo un corpo ai problemi del presente lì dove si presentano e facciamoli divenire una questione dell’agire (del fare) – e non del subire da spettatori. Invece di smascherare il presente, lo abbiamo reso drag. Questo è il drag-presente.

DIS, team curatoriale della 9th Berlin Biennale for Contemporary Art ( Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro) Foto: Sabine Reitmaier
DIS, team curatoriale della 9th Berlin Biennale for Contemporary Art ( Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro)
Foto: Sabine Reitmaier

Il team curatoriale da New York, DIS Magazine – Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro, fondatori dell’omonima rivista-esperimento di contenitore universale dell’espressività contemporanea online –  “esperti nel non rivendicare alcuna competenza”, sradicati da arte-critica-commercio ed operanti all’intersezione tra pop culture, moda, cinema, arte, web design, critica, copyright e letteratura – ha selezionato per questa edizione un gran numero di artisti del dopo-internet, che come sottolinea Gabriele Horn – direttrice del KW Institute of Contemporary Art – “usano l’estetica della pubblicità e del product design”. Le eccezioni sono rarissime, tra queste Adrian Piper, la quale fin dagl’anni Sessanta esplora con la sua arte concettuale le determinazioni di una soggettività basata sulle regole e la politica e il linguaggio della rappresentazione.

9th Berlin Biennale for Contemporary Art Adrian Piper, Everything #5.1, 2004 Foto: Timo Ohler
9th Berlin Biennale for Contemporary Art
Adrian Piper, Everything #5.1, 2004
Foto: Timo Ohler

Nello scenario del capitalismo tecno-turbo-lifestyle-globale, business, cultura del consumo, trend, benessere e felicità, turismo e marketing, brandizzazione e product design in una società multidimensionale sono i topic meglio affrontati da questa nuova generazione di artisti, in tutte e cinque le sedi della nona Biennale berlinese: l’Akademie der Künste, il KW Institute for Contemporay Art, il piano terra della Feuerle Collection  la European School of Management and Technology, nonché addirittura una delle barconi turistici della compagnia berlinese Reederei Riedel, trasformata per l’occasione in un’opera d’arte mobile, location per eventi e performance.

9th Berlin Biennale for Contemporary Art Courtesy Berlin Biennale für zeitgenössische Kunst
9th Berlin Biennale for Contemporary Art
Courtesy Berlin Biennale für zeitgenössische Kunst

Se il linguaggio è mutuato dal patinato del social-marketing, della moda e della televisione, l’intento, secondo Marco Roso, resta quello dello slittamento straniante e perciò politico:

Penso che tutto quello che si fa nella vita ha un’aspetto politico, e lo stesso vale per l’arte. Il focus politico principale di questa Biennale – e mio malgrado devo dire che anche Marx lo faceva – è mettere in primo piano ed evidenziare i paradossi e le contraddizioni del momento. Tra i lavori più chiaramente politici posso annoverare le opere di Hito Steyerl, di Travor Paglen, di Debora Delmar Corp., e di Christopher Kulendran Thomas, che lavora con certe ambivalenze che possono anche irritare il pubblico per le sue posizioni ambigue, ma che è estremamente politico, e sta davvero “accellerando“ il momento nella sua opera.

Cartellone della seconda edizione della Black Berlin Biennale, che campeggia di fronte al KW Institute for Contemporary Art, ribaltando lo slogan ufficiale della Biennale, “Fear of content”.
Cartellone della seconda edizione della Black Berlin Biennale, che campeggia di fronte al KW Institute for Contemporary Art, ribaltando lo slogan ufficiale della Biennale, “Fear of content”.

La modalità specifica del tentativo di restare critici senza critica, ce la chiarisce Armen Avanessian, filosofo austriaco nonché editore di MERVE VERLAG, presente alla Biennale con una piattaforma di ricerca o para-agenzia semi-pubblica chiamata Discreet, che ha tentato di porre le fondamenta tra giugno e luglio per un servizio segreto a favore dei cittadini, nonché curatore dell’evento che chiude la Biennale, il consueto Young Curators Workshop, quest’anno dedicato all’idea di postcontemporary:

Forse c’è un approccio generale della curatela di questa edizione della Berlin Biennale, e forse si tratta addirittura di una questione generazionale: mettere in dubbio le strategie consuete della critica e dell’opposizione. Non perché non si debba essere critici, non perché le cose stiano andando per il meglio, ma perché i significati e gli strumenti consueti della critica, di cui siamo stati testimoni almeno nelle ultime tre o quattro decadi – vera e propria età della critica –, non hanno funzionato, anzi potrebbero anche aver peggiorato la situazione. Osserviamo e siamo messi di fronte ad un mercato dell’arte gremito di arte critica e oggetti d’arte critica. L’ultima Biennale che ho visto l’anno scorso a Venezia era colma di opere d’arte estremamente critiche. Intendo, per dirla in termini polemici, che non c’era un genocidio che non fosse trattato. E nel frattempo c’erano tre mesi di letture pubbliche dal Capitale di Marx.

Trevor Paglen/Jacob Appelbaum, Autonomy Cube, 2015 Foto photo: Trevor Paglen Studio
Trevor Paglen/Jacob Appelbaum, Autonomy Cube, 2015
Foto photo: Trevor Paglen Studio

Il problema è che la maggior parte degli artisti viene da quelle solite poche gallerie. Chi può permettersi di pagare tanto gli artisti da consentirgli queste enormi installazioni? Il problema è che gli stessi artisti li ritrovi una settimana dopo ad Art Basel, e così via. C’è una certa quantità di critica ed opposizione che semplicemente non funziona, non solo a livello superficiale, ma anche a livello strutturale: quello che i sociologi Luc Boltanski ed Eve Chiapello (Le nouvel esprit du capitalisme, 1999) chiamano lo spirito critico o lo spirito estetico del capitalismo. Tutti noi siamo soggetti critici ed estetici, dobbiamo fare critica, autocritica, per essere permanentemente originali e creativi. Assistiamo al trionfo di questi paradigmi del criticismo, dell’inventare, dell’inventare se stessi e del reinventarsi, e l’arte contemporanea è l’avanguardia di questo processo. Se questo è il caso, se l’ipotesi è fondata, più criticismo potrebbe non essere la soluzione.

DIS, team curatoriale della 9th Berlin Biennale for Contemporary Art ( Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro) Foto: Julia Burlingham
DIS, team curatoriale della 9th Berlin Biennale for Contemporary Art ( Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro)
Foto: Julia Burlingham

Mi è stato chiesto di organizzare, condurre e scrivere il testo fondamentale per il workshop dei giovani curatori che di consueto si tiene durante la Biennale. L’idea è unire 15 curatori relativamente giovani, sotto i 35 anni e molti ancora più giovani, provenienti da tutto il mondo. Ho scelto io stesso l’argomento, e siccome in quel momento stavo scrivendo sul post-contemporaneo (Der Zeitcomplex: Postcontemporary, 2016), ho deciso di dedicare il workshop all’arte postcontemporanea. L’ipotesi che sta alla base del libro è che l’arte contemporanea sia in profonda crisi e grave mancanza di orientamento, non abbia più criteri e non sappia più quale direzione prendere.

9th Berlin Biennale for Contemporary Art The Feuerle Collection Foto: Gilbert McCarragher
9th Berlin Biennale for Contemporary Art
The Feuerle Collection
Foto: Gilbert McCarragher

E’ molto difficile immaginare un’alternativa al capitalismo, ed anche all’arte contemporanea, perché qualsiasi cosa tu faccia sarà sempre di nuovo altra arte contemporanea. Naturalmente il cambiamento non può essere sul piano della forma: non si tratta di qualcosa come “facciamo più video e usiamo solo il colore verde”. Bisogna guardare alla realtà, agli effetti reali e materiali dell’arte, cioè alle pratiche economiche che innesca. Non sono interessato a cosa dicono gli artisti o a cosa mostrano i loro video, ma a come le loro immagini sono distribuite e vendute.

Entrata del KW Institute for Contemporary Art.
Entrata del KW Institute for Contemporary Art.

Ciò su cui cercheremo di lavorare è quello che chiamo un primo tentativo sul terreno del postcontemporaneo. Ragioneremo molto su come queste non so più quante migliaia di biennali che si tengono oggigiorno e i soldi che muovono possano avere effetti più duraturi. Invece di produrre nuove schiere di giovani artisti emergenti e di curatori emergenti giovani, mi interessa come le istituzioni locali possano trarne un profitto. Come si può pensare ad altre organizzazioni economiche fuori dal sistema di gallerie e musei che abbiamo ora?

Una generazione diversa si sta imponendo con sempre più rumore, una generazione che continua a guardare criticamente e magari può nutrire dei dubbi, ma che non usa più i vecchi strumenti e non reagisce più attraverso l’ironia, quanto piuttosto attraverso l’umorismo. Deleuze ha detto una volta  che ci sono due modi per relazionarsi con la Legge: uno è l’ironia e l’altro è l’umorismo, che significa esagerazione, fare la stessa cosa ancora di più.

9th Berlin Biennale for Contemporary Art Christopher Kulendran Thomas, New Eelam, 2016 Foto: Timo Ohler
9th Berlin Biennale for Contemporary Art
Christopher Kulendran Thomas, New Eelam, 2016
Foto: Timo Ohler
9th Berlin Biennale for Contemporary Art Christopher Kulendran Thomas, New Eelam, 2016 Foto: Timo Ohler
9th Berlin Biennale for Contemporary Art
Christopher Kulendran Thomas, New Eelam, 2016
Foto: Timo Ohler

Il riferimento qui è al deleuziano Présentation de Sacher-Masoch. Le froid et le cruel, del 1967: il masochista – secondo un approccio umoristico – adotta una strada opposta a quella del sadico (ironico) per portare la legge al parossismo, rivelandone attraverso la sua completa accettazione l’assurdità.

Armen Avanessian/Alexander Martos DISCREET – An Intelligence Agency for the People, 2016 Logo © Andreas Töpfer, 2016
Armen Avanessian/Alexander Martos
DISCREET – An Intelligence Agency for the People, 2016
Logo
© Andreas Töpfer, 2016

E’ questo il ragionamento da cui nasce l’idea di Discreet: per reagire allo scandalo NSA, si procede non alla critica del sistema di intelligence e delle sue degenerazioni, ma alla fondazione di un nuovo servizio segreto di segno opposto: per il popolo. Un tipo di operazione che lascia spazio a molte ambiguità, espresse ad esempio da Anne Roth, attivista specializzata in net-femminismo e membro per la Linke della commissione parlamentare d’inchiesta che ha cercato di chiarire le relazioni tra servizi segreti tedeschi ed NSA: invitata a partecipare ad una delle tavole rotonde di Discreet, ha espresso la difficoltà di comprendere come si possa agire contro il sistema di intelligence fondandone uno che si basa su un paradigma analogo.

E se, come dice Avanessian, bisogna guardare alla realtà, agli effetti reali e materiali dell’arte, cioè alle pratiche economiche che innesca, allora il caso di Rihanna sarebbe la dimostrazione pratica di un fallimento.

Anche il caso intorno a Jacob Appelbaum investe ed attraversa tutto il corso di questa Biennale: l’influente membro del software Tor per l’anonimia online – presente al KW con Autonomy Cube, una router-scultura realizzata in collaborazione con Trevor Paglen – viene estromesso dal progetto Tor pochi giorni dopo l’inaugurazione della Biennale, a causa delle accuse di molestia sessuale ricevute da più donne, alcune delle quali appartenenti al progetto stesso. A sostituirlo, per decisione del direttore esecutivo di The Tor Project, Shari Steele, è un ex membro affiliato della CIA. Decisione che ha generato la protesta di un gruppo di utenti e membri del progetto, organizzatori di uno sciopero in rete svoltosi il 1 settembre.

C’è quindi davvero bisogno di ambiguità nella produzione artistica, quando l’ambiguità è la cifra costante del reale? Il momento in cui i confini tra realtà e finzione, arte e marketing, guardante e guardato, digitale e corporeo, si fanno sempre più labili ed intricati, forse non è quello migliore per lasciar tramontare lo spirito critico. Piuttosto anzi si sente il bisogno di demarcare le linee e ritrovare le differenze, come sembra sancire la gigantografia della seconda edizione della “Black Berlin Biennale” che campeggia in questi giorni proprio di fronte al KW e, contraddicendo il titolo della piattaforma digitale della Berlin Biennale for Contemporary Art, recita No Fear of Content. Come a dire che la differenza tra bianco e nero esiste eccome, e quando si abbandona il contenuto per il DIS-content, si rischia di restare solo con la content/ezza dei party di chiusura, tanto amati da questa parte del mondo.

Qualsiasi sia la direzione del prossimo futuro, una cosa è certa: passerà attraverso un nuovo modo di guardare alla rete e alle trasformazioni di senso (del social) da essa generata. Di questo sono perfettamente coscienti anche i DIS, a giudicare da ciò che ci dice Marco Roso:

DIS è un prefisso negativo, usato per comporre parole come discorso, discordanza, discrepanza. All’inizio quando abbiamo pensato il magazine, volevamo una piattaforma molto focalizzata su dis/contenuti. Ma abbiamo immediatamente capito che non poteva essere soltanto questo, una piattaforma estremamente critica, per cui ci siamo spostati su posizioni più ambigue, che comprendessero la criticità ma anche la celebrazione e le ambivalenze. Questa è l’idea originaria per utilizzare DIS come nome del magazine. Era il 2009, dopo il collasso di Wall Street, avevamo una grande disponibilità di tempo, eravamo disoccupati, volevamo pubblicizzare nostri amici, e allo stesso tempo mostrare il nostro lavoro ai nostri amici, perciò il sito è nato come una piccola comunità di amici che facevano qualcosa insieme. Ma grazie ai social media, e fuori dalle nostre aspettative, la cosa è cresciuta e si è espansa molto in fretta.

Le cose però cambiano altrettanto in fretta: quello era il momento giusto per usare internet, generando l’opportunità di raggiungere un sacco di persone online; adesso è molto più difficile, la gente è satura. In soli sei anni è cambiato così tanto che bisogna fare una riflessione. Non sappiamo ancora quale sarà il nostro prossimo progetto, ma dobbiamo trovare un nuovo format. Siamo interessati alla televisione come medium, ed abbiamo un progetto a lungo termine: stiamo iniziando a lavorare sull’idea di aprire una scuola d’arte a New York, che coinvolgerà molte persone con cui siamo entrati in contatto attraverso il network, e soprattutto che sarà debt-free. Negli Stati Uniti gli studenti sono costretti ad indebitarsi per portare a termine la loro formazione, e noi ci stiamo interrogando su come costruire una scuola libera dal debito.

http://blog.berlinbiennale.de/en/8th-berlin-biennale

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