Nonostante la continua tensione in Nagorno-Karabakh e gli scontri con la minoranza armena, il Paese transcaucasico si presenta in Laguna per convincere il mondo del clima di libertà e armonia che vi si respira. A un quarto di secolo dalla caduta del Comunismo, a Baku ne sopravvivono i metodi.
Palazzo Lezze, Campo S. Stefano, San Marco 2949
Venezia. Paese assai controverso, l’Azerbaijan, che ancora non è riuscito ad affrancarsi dalla mentalità totalitaria lasciata in eredità dall’Unione Sovietica. Era la “terra dei grandi fuochi”, a causa del sottosuolo ricco di petrolio che nell’antichità sgorgava in superficie producendo altissime, impressionanti fiamme, che gli azeri, zoroastriani fino all’inizio dell’VIII Secolo, consideravano divinità. Oggi, una realtà complessa, che in meno di due secoli ha subita la conquista zarista (1806) e quella sovietica (1920), fino all’indipendenza del 1991, con l’eredità del “problema armeno” legato alla non risolta questione del Nagorno-Karabakh. A questa, si è aggiunto una gestione politica fortemente nazionalista, di stampo autoritario.
Da un punto di vista artistico, però, il Padiglione curato da Martin Roth ed Emin Mammadov possiede una notevole bellezza, soprattutto in forza delle installazioni di Elvin Nabizade, costruite utilizzando strumenti musicali, in particolare il saz, strumento a corde tipico del Paese; e la musica è sempre stato un fattore di unità fra i popoli, in Azerbaijan come nel resto del mondo. L’arco e la sfera realizzate da Nabizade sono simboli di unità e armonia, e dialogano piacevolmente con le sale di Palazzo Lezze. Tecnicamente suggestive, ma più asettiche, le installazioni video del collettivo Hypnotica, fra cui Unity, che raccoglie le testimonianze di circa venti azeri, artisti e non, ognuno dei quali racconta la propria storia personale, le sue radici etniche, le sue tradizioni culturali; una sintesi dell’eterogeneo panorama azero. L’intento è quello di far conoscere al mondo l’unità interna che regna nel Paese, la concordia fra le varie etnie. Eppure, la realtà che il visitatore si trova davanti, ha un sapore troppo patinato per essere del tutto credibile, è troppo simile ai vecchi musei “patriottici” dell’Unione Sovietica, scenograficamente perfetti, suadenti nell’accuratezza di una riproduzione storica “adattata” agli scopi di regime. Si deve poi considerare un dettaglio: il Padiglione è organizzato dalla Heydar Aliyev Foundation, che, per quelle strane coincidenze della vita, fa capo all’ex presidente della Repubblica, nonché padre del presidente attuale. Per capire meglio questa Padiglione, è necessaria una parentesi sulla storia recente dell’Azerbaijan.
A fianco della maggioranza azera (91% della popolazione totale), si trovano nel Paese numerose minoranze, dagli ebrei ai russi, dagli ucraini ai turchi, passando per georgiani, curdi e armeni. Ma è proprio con questi ultimi che la convivenza appare assai difficile, a causa dell’irrisolta questione del Nagorno-Karabakh, compresa nei confini azeri, ma a maggioranza armena, appunto. Questa situazione è diretta eredità della politica staliniana del divide et impera, che vide nel 1921 l’assegnazione di questa regione, storicamente armena e cristiana, all’Azerbaigian musulmano; e fomentare l’odio etnico era un modo per far sembrare necessario il pugno di ferro di Mosca, fino ai massacri di Sumgait del 1988 (con oltre trecento armeni assassinati a sangue freddo dagli azeri). Ancora oggi la situazione nel Nagorno-Karabakh (che ha dichiarata l’indipendenza da Baku), è molto tesa, con una guerra civile sfiorata nel 2016 e con il governo azero che non intende rinunciare alla sovranità sulla regione. Il conflitto politico permane, assieme all’odio etnico fra i due popoli. E per qualsiasi evenienza, l’Azerbaijan ha aumentate le spese militari (Greg Botelho e Gul Tuysuz 3 Aprile 2016: “18 Armenian, 12 Azerbaijani troops killed in fighting”, CNN).
L’impressione è quella, spiacevole, di trovarsi davanti a un Padiglione di carattere politico, utile a creare l’illusione di una democrazia che latita, ostaggio di governi illiberali di stampo semi-feudale: l’attuale presidente della Repubblica, Ilham Aliyev (ex vicepresidente della SOCAR, la compagnia petrolifera statale), è succeduto al padre Heydar Aliyev nel 2003, con elezioni molto contestate. Dall’inizio del suo mandato, centinaia di giornalisti, avvocati, opinionisti, attivisti per i diritti umani, critici verso l’operato presidenziale, sono stati arrestati e detenuti senza regolare processo, come denunciò il Washington Post nel marzo del 2015. E ancora, da un rapporto di Amnesty International dell’ottobre 2015, emerge il continuo deteriorarsi del rispetto dei diritti umani (Natali Nozadze, Azerbaijan closes its doors. News. Amnesty International, 8 ottobre 2015), in relazione ai continui arresti e detenzioni dei dissidenti politici, così come è pressoché inesistente la libertà di stampa; l’Azerbaijan occupa la 177a posizione (su 196), secondo il rapporto Freedom of the press del 2013 (e nonostante questi dettagli, l’Unione Europea mantiene buoni rapporti con il governo di Baku, e mai nessuno ha ipotizzato di applicare sanzioni verso questa Repubblica democratica solo nelle apparenze. Anzi, dal novembre 2016 il Consiglio d’Europa sta lavorando per stringere un accordo più ampio con l’Azerbaijan).
Per cui, alla luce di questa situazione, il titolo “L’arte di vivere insieme”, non è credibile. Resta, al fondo, una strana impressione, non di fastidio ma di mestizia, per come artisti anche dalle buone capacità, vengano usati dal potere politico come strumenti di propaganda. E come la bellezza di una cultura antica di secoli, caratterizzata da splendidi colori e forme armoniche (i tappeti, gli strumenti musicali, i gioielli e i metalli lavorati), espressione di un popolo fondamentalmente cordiale e pacifico, sia sfregiata e avvilita dalle logiche del potere. L’aspetto positivo, però c’è: anche la peggiore politica, ha comunque bisogno dell’arte, e questa rimane quindi viva anche nell’ombra, pronta a splendere in tutto il suo fulgore una volta che il sole torna a rischiarare la strada.