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Gabriele Perretta. L’occhio cigliato del “sensore che non vede”

Gabriele Perretta, Il Sensore che non vede - Sulla perdita dell’immediatezza percettiva (2) Gabriele Perretta, Il Sensore che non vede - Sulla perdita dell’immediatezza percettiva
Gabriele Perretta, Il Sensore che non vede - Sulla perdita dell’immediatezza percettiva (2)
Gabriele Perretta, Il Sensore che non vede – Sulla perdita dell’immediatezza percettiva

Gabriele Perretta raccoglie in un saggio delle edizioni Paginauno scritti realizzati lungo vari anni presentati in forma rielaborata

L’ultima fatica di Gabriele Perretta, “Il Sensore che non vede – Sulla perdita dell’immediatezza percettiva”, edito recentemente dalle edizioni Paginauno, è una raccolta di scritti realizzati lungo vari anni e qui presentati in forma rielaborata. Si tratta di un libro complesso e intricato, ricco e denso, che tocca vari argomenti: ogni capitolo fa storia a sé, per la varietà delle questioni e dei riferimenti, e addirittura per lo stile adottato. È una scrittura che non fa concessioni, non siamo dalla parte della divulgazione: chi c’è c’è. La struttura a palinsesto, l’accumulo e la rete di riferimenti, gli scarti improvvisi, i trapassi dal ragionamento al flusso di pensiero, sembrano mettere a dura prova l’ossatura della coerenza argomentativa.

Eppure si ha da subito l’impressione che discorsi e capitoli sembrino in effetti vorticare a cerchi concentrici attorno ad alcuni caposaldi. Già il titolo del libro: “Il sensore che non vede” è un ossimoro che ci indirizza verso una fondamentale chiave di lettura: non è qualcosa di contraddittorio un “sensore” che non vede?

Per rispondere al dispiegamento di nozioni e citazioni, fitte ma incardinate in sequenza e mai gratuite, di Perretta non resistiamo alla tentazione di provare a dare un primo sunto schematico del suo lavoro proponendo a nostra volta una citazione. In uno dei suoi scritti giovanili Antonin Artaud si riferisce alla biografia romanzata che Marcel Schwob, nelle sue “Vite immaginarie”, dedicò a Paolo Uccello. Artaud parte dal noto aneddoto riguardante Selvaggia, la compagna del pittore che, secondo Schwob “stava accoccolata tutto il giorno davanti alla parete sulla quale Uccello tracciava le sue forme universali. Non riuscì mai a capire perché egli preferisse considerare delle linee diritte e delle linee curve e non il tenero viso alzato verso di lui (…) Intanto non c’era da mangiare nella casa dell’Uccello. Selvaggia non osava dirlo a Donatello e agli altri. Tacque e si lasciò morire”.

Artaud riprende questa storia e nell’ossessione di Paolo Uccello per la prospettiva vede l’opus alchimistico che trasfigura la realtà fino a far dimenticare la vita reale (Selvaggia). Il pittore non sarebbe il maestro della prospettiva monoculare quanto l’operatore del suo stravolgimento e della sua frantumazione. Per Artaud il grande pittore “strangola” il mondo non accontentandosi di duplicarlo, lo “delira” per farne saltare l’apparenza. In una di quelle antitesi in cui è mae-stro, Artaud contrappone le figure di Brunelleschi e di Paolo Uccello. L’occhio rinascimentale di Brunelleschi è senza ciglia e accede al mondo in modo diretto, in piena luce diurna, nell’assoluta chiarezza delle forme; l’occhio antirinascimentale di Paolo Uccello è invece cigliato e notturno, è una griglia geroglifica che si frappone al mondo esterno, diga esoterica tra ester-no ed interno.

La parentela dell’“occhio cigliato” con il “sensore che non vede“ di Perretta appare stretta, almeno nel senso che in gioco è la medesima questione, quella della rappresentazione mediata, o per riecheggiare il sottotitolo del volume, della “perdita dell’immediatezza percettiva”. È una questione che ha uno spessore indubbiamente filosofico: qua non si fa solo o semplicemente della critica d’arte. Diremo subito che la questione si affaccia qui in questo modo e che senz’altro oltre ad Artaud potremmo trovare altri precedenti , ma quel che pure preme dire è che nel caso specifico le strade si dividono immediatamente.

Artaud procede per una sua propria, che è quella della ricerca, secondo varie fasi, di un’autenticità (che come si sa passerà da disparate esasperazioni esoteriche al materialismo mitico degli ultimi anni ) in un succedersi di irrealismi. Mentre Perretta persiste in quest’incrocio che è il diaframma dello sguardo cigliato, con il disincanto del pensatore smaliziato consapevole dello iato, ma in fondo affezionato ad un principio immanente di realtà, per quanto complesso e labirintico esso possa essere.

Spesso le riflessioni inaugurate da Perretta già nella seconda parte degli anni ’80 e poi sfociate nei primi novanta nell’elaborazione del concetto di Medialismo sono state interpretate in modo riduttivo come un semplice aggiornamento dei vari media artistici al contesto rinnovato del mondo della comunicazione e della sua veicolazione tecnologica.

Anche se questo è certamente un portato della sua più generale riflessione c’è ben altro: il Medialismo non si riferisce soltanto all’avvenuta diversificazione del supporto, secondo i modi di Marshall McLuhan, ma al discorso sull’intera catena semiotica, quindi non solo al “medium” ma a tutte le altre componenti, dall’emissione alla ricezione, dalla codificazione al contesto, dall’implicazione all’intenzionalità.

 

Gabriele Perretta, Il Sensore che non vede - Sulla perdita dell’immediatezza percettiva (2)
Gabriele Perretta, Il Sensore che non vede – Sulla perdita dell’immediatezza percettiva

Quindi certamente non tecnofobia ma nemmeno tecnofilia o feticismo del mezzo. La nota sentenza “Il mezzo è il messaggio” dello studioso canadese è decisamente scavalcata. La rappresentazione mediata, in quanto inevitabilmente interconnessa con il “mezzo”, inteso in senso esteso, si oppone da un lato alle riprese nostalgiche della trascendenza e dall’altro alla superstizione dell’esperienza e della visione dirette. Ma a differenza del riduzionismo di McLuhan il medium non è del tutto vincolante ed ha a che fare con un universo di senso e di vita che lo eccede.

Il profluvio mediatico, l’inflazione artistica e pseudo-artistica che ci sommergono preludono all’eclissi di una scala di valori che pretendeva di essere, dall’alto, persuasivamente dirimente. Da questo punto di vista nella de – gerarchizzazione si possono intravedere degli afflati positivi. Tutta questa produzione è però pure sovralimentata, oltre che dai nuovi dispositivi tecnologici (in un mondo che già è, per una parte importante, tecnicizzato e artificializzato), dai meccani-smi di commercializzazione della cultura dell’economia Neoliberale, con tutte le conseguenze che questo comporta. Le mostre sono spesso dei gusci vuoti, delle confezioni che interrompo-no o troncano la multidimensionalità semiotica. I curatori diventano dei manager e adottano motivazioni, pretesti e riferimenti come dei prêt- a- porter convenzionali. La melassa onniper-vasiva sembra fagocitare e neutralizzare tutto e tutti promettendo qualche secondo d’attenzione anche all’ultimo dei guitti.

In questo coacervo inestricabile, dove in realtà a non essere assimilata è proprio la facoltà di fare delle scelte e delle opzioni, la posizione dell’artista e dell’intellettuale non ha più la solidità e l’indipendenza, da borghesia illuminata, dei pensatori della Scuola di Francoforte che denunciavano la Società dei Consumi: oggi siamo a sconquasso avanzato e non c’è la possibilità di una posizione per così dire “esterna”. Il lavoro intellettuale ed artistico è esso stesso mobilitato ed irregimentato. Le pagine di Perretta richiamano piuttosto catastrofismi e apocalissi alla Virilio e alla Philip Dick.

In una condizione che si è fatta enormemente più complessa, il ripristino di un’attitudine critica non può più basarsi sulla, oggi semplicistica, differenza tra Avanguardia e consumo, al modo di Adorno, e nemmeno può più accontentarsi della denuncia di Debord della Società dello Spettacolo , denuncia in definitiva basata sulla dicotomia rigida tra realtà e finzione e quindi poggiante su un concetto “purista” come quello di Alienazione. In alternativa a questi illustri esempi Perretta suggerisce un’atto critico all’altezza dell’intrico, una sorta di attitudine interpretativa sfaccettata, al modo dell’entanglement quantistico.

Traendo un esempio tra i vari proposti segnaliamo le pagine dedicate al famoso film di Orson Welles “F for Fake”, caso di prototipo saggistico – narrativo, costruito attorno al problema del Falso e di alcune sue manifestazioni esemplificative, dove lo svolgimento non arriva ad una soluzione che interrompa il continuo riaffiorare di incertezze: la vita del falsario Elmyr de Hory è dubbia e dubbi sono pure i dati utilizzati dal suo biografo, come dubbia è naturalmente l’autenticità dei dipinti che è riuscito a vendere. Welles alla fine non ci consegna una ricetta ingenua per stabilire la verità autentica, ma solleva il problema, la domanda, e li lascia insoluti: “Negli ultimi 17 minuti vi ho mentito”, pregiudicando l’attendibilità del film stesso.

Oltretutto Welles ha utilizzato quasi tutto materiale di repertorio non girato da sé e l’opera è incompiuta ma rimontata successivamente da Oja Kodar. Ad ogni modo il film – farsa, versione in celluloide del detto di Epimenide, dice delle cose che in un senso meno banale colgono comunque aspetti nevragici di una realtà concreta. Welles quindi come pungolo usato da Perretta contro l’accademismo magrittiano: “L’acriticismo , che ha usato strategicamente il risultato della rivoluzione Magrittiana, dopo aver diffuso la fine dell’idea di somiglianza ha imposto il regime del nulla, per affermare il nulla”. Per quanto embricata e differita la posta in gioco, al di là e al fondo del vedere ed esporre superficiali, è nella messa in RAPPRESENTAZIONE di istanze che si dibattono nella vita reale e concreta: il contenuto.

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