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Intervista a Vlatka Horvat, Lontano dal nulla (Parte 1)

Mi raccontavi di essere croata, ma sei partita per gli Stati Uniti quando eri molto giovane.

Sì, sono nata e cresciuta in una piccola città nel nord della Croazia, ma al liceo sono partita gli Stati Uniti con uno scambio studentesco, avrò avuto 16 o 17 anni. Sono stata fortunata (credo!) perché mi hanno mandata in un sobborgo di Chicago, devo dire che è stato piuttosto surreale approdare lì dal socialismo. Sono partita nel 1991, poco prima della guerra, quando c’era ancora la Jugoslavia. Inizialmente sarei dovuta rimanerci per un anno, ma a metà dello scambio l’inizio della guerra ha cambiato un po’ le cose. Sono tornata in Croazia, ma finché ero ancora negli Stati Uniti avevo fatto domanda per continuare gli studi lì, e quando ho scoperto che c’era la possibilità di tornare a Chicago non ho avuto ovviamente alcun dilemma su cosa fare, ma dovevo riuscire ad aprire uno scenario per cui il mio ritorno diventasse possibile anche economicamente. La famiglia che mi ospitava negli Stati Uniti (siamo ancora molto legati, sono la mia seconda famiglia) mi ha aiutato con le tasse universitarie e con altre cose, è stato un gesto davvero notevole. Sono quindi tornata a Chicago per l’università e dopo quattro anni di corso di laurea è iniziato il gioco del “come estendere il visto studentesco”.

Già, conosco bene il problema dei visti. Il potere dei passaporti è qualcosa a cui non pensiamo molto, ma fa un’enorme differenza.

La questione visto incombe sempre quando si ha un passaporto che non permette grande libertà di movimento. Quando sono andata negli Stati Uniti per il primo anno avevo ancora il passaporto jugoslavo e mi sono trovata in una situazione… strana: la Jugoslavia era crollata e la Croazia era diventata indipendente, tutti avevano cambiato i documenti in gran velocità mentre io ero all’estero con il passaporto di un Paese che non esisteva più. Quando ripenso a quel periodo mi sembra un’esperienza surreale, la sensazione di essere considerati parte di una nazione che non c’è più. Per molti anni ancora, negli anni ’90 e in seguito, molti di noi venivano chiamati “ex Jugoslavia”. È uno strano tipo di categoria identitaria, essere definiti in termini di “ex”.

Come è cambiato? Come ti senti ora a rappresentare il Padiglione Croazia alla Biennale?

Sicuramente i luoghi e le persone che li popolano plasmano noi e in qualche modo anche la comprensione di noi stessi in relazione al mondo, c’è una storia comune ed esperienza condivisa, ma non siamo mai solo un prodotto dei luoghi da cui proveniamo, anche se le istituzioni spesso ci categorizzano in base al nostro passaporto. Con il progetto per la Biennale sto cercando di creare un padiglione che non sia espressione dell’identità nazionale, ma un luogo di incontro di persone provenienti da luoghi diversi, accomunati dal fatto di vivere tutti in Paesi diversi, come stranieri. In un certo senso ho voluto mettere in discussione in senso critico la struttura stessa del padiglione nazionale, che non rinforza l’idea di appartenenza ad una nazione in base al luogo di nascita, ma parla di altre forme di appartenenza, di altri criteri per unirsi o legarsi agli altri, che sia per amicizia, per solidarietà o per sostegno reciproco, sapere su chi si può contare. Queste cose non sono scritte su un documento da tirare fuori per dimostrare la propria vicinanza o appartenenza, sono legami a livello umano che creano i legami più forti: sono tesi forse fragili, ma anche molto solide.

Avete costruito un padiglione dove gli artisti stranieri condividono uno spazio comune, proponendo quindi un’idea diversa di appartenenza.

Esatto, ho invitato artisti che vivono in Paesi in cui non sono nati, quindi il progetto può essere visto come una serie di dialoghi sull’esperienza della migrazione, sulla vita come diaspora. Ci sono sicuramente differenze in questa esperienza comune, diversi livelli di difficoltà e ostacoli da affrontare, ma ci sono anche alcune domande condivise di appartenenza, di relazione con l’essere “a casa”, sebbene le storie di vita e le circostanze delle persone emigrate coinvolte siano molto diverse. Ci si trasferisce per svariate ragioni, a volte per necessità, a volte per scelta; non c’è un fil rouge che unisce sempre e comunque le motivazioni o gli agenti coinvolti in questi processi. Eppure, ci sono cose che condividiamo, cose che possiamo riconoscere e con cui possiamo relazionarci o empatizzare.

Mi capita spesso di pensare alla prospettiva, molto europea, di pensare alla migrazione come a una semplice fuga dalla povertà, mentre ci sono molte ragioni per cui le persone si spostano.

In questo progetto ci sono storie di persone che sono state sfollate e che hanno lasciato le loro terre a causa di guerre o conflitti, ma ci sono anche storie di persone che sono partite per altri motivi: per istruzione, per amore, per avventura, o semplicemente per cercare una vita migliore, o una vita diversa. E per molte persone la questione del ritorno non è un’opzione, perché non tutti possono tornare indietro.

Immagino che sia piuttosto impegnativo per te rispondere alla domanda “da dove vieni?”

Sì, è complicato. Sono nata in Jugoslavia, ora sono croata, ma ho anche trascorso 20 anni negli Stati Uniti e ora vivo nel Regno Unito da 13 anni. Quasi mi sento come se fossi cresciuta negli Stati Uniti, perché ci ho trascorso gli anni formativi della mia vita, quelli in cui si capisce chi si è, cosa si fa, qual è il proprio rapporto con il mondo. Quando ho deciso di trasferirmi nel Regno Unito da New York ho sentito che stavo lasciando “casa”, una sensazione che non ho provato quando sono partita dalla Croazia tanti anni fa, forse perché da adolescenti non si pensa veramente di lasciare un posto, ma solo che si sta andando da qualche parte per un periodo. L’idea di “casa” sicuramente è mutevole per chi di noi che va avanti e indietro. Ovviamente mi sento a casa in Croazia, lo farò sempre: è dove si trova gran parte del mio cuore, la mia infanzia, i miei genitori, le persone che amo… ma quando ci vado ho anche la sensazione di partire per tornare a casa e poi, quando sono lì, di partire per di nuovo tornare a casa, e così via.

Quindi questa mostra rappresenta la tua idea di nazione ideale? È quello che vorresti vedere tra, non so, 100 anni?

Non la vedrei come una nazione, penso che sia più una comunità temporanea, un incontro di persone che condividono certi ideali o prospettive sul mondo delle relazioni. Mi viene da ridere mentre lo dico, perché sembra davvero elementare, ma la realtà è che viviamo in un’epoca in cui sono minacciate quelle che pensavamo fossero certe concezioni essenziali sull’essere aperti, sulla comunità, sulla condivisione dello spazio e delle risorse, cose molto basilari come l’empatia, la connessione umana e la disponibilità ad aiutare chi ha meno o ha una vita più difficile della tua. In quanto esseri empatici, possiamo sostenere o lottare per cose che non vanno necessariamente a nostro vantaggio. È stato davvero molto stimolante lavorare a questo progetto, perché rende evidente che si può contare su altre persone.

VLATKA HORVAT

Vlatka Horvat è un’artista che lavora in un’ampia varietà di forme, dalla scultura, installazione, disegno, collage e fotografia per prestazioni, video, scrittura e pubblicazione. Il suo lavoro è presentato a livello internazionale in diversi contesti tra musei, gallerie, festival di teatro e danza, e in spazi pubblici. Tra le esposizioni più recenti: MSU – Museo d’Arte Contemporanea di Zagabria, PEER (Londra), Kunsthalle Wien, Padiglione Croazia alla 16a Biennale di architettura, Musei Sheffield, Theater Spektakel Zurigo, Renata Fabbri (Milano), Galleria GAEP (Bucarest), CCS – Centro per gli studi curatoriali presso il Bard College (NY), Wilfried Lentz Gallery (Rotterdam), CAPRI (Düsseldorf). Vive a Londra.

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