E’ vero. La mostra romana in corso al Palazzo delle Esposizioni su Mark Rothko è importante. Non solo per lo spazio e la divulgazione di un artista sino all’altro ieri ancora poco conosciuto in Italia. Ma forse proprio per l’intrinseca capacità di mettere a nudo la distanza abissale tra il fare arte contemporanea nel nostro Paese rispetto -per esempio- agli Stati Uniti. La parabola di Rothko è illuminante. Così come quella di Jackson Pollock o Willem de Kooning. Rothko ha lavorato sperimentando sulla sua pelle il concetto dell’astrazione. Sino a oltre 50 anni continuava a vivere grazie allo stipendio di insegnante. Sin qui nulla di strano. O di inedito. La storia dell’arte, dal Quattrocento ai nostri giorni, è zeppa di artisti cocciuti e interessati soltanto al proprio lavoro. Ma l’aspetto più straordinario di questi autori giustamente o ingiustamente considerati esponenti dell’espressionismo astratto consiste nell’humus culturale che essi hanno incontrato lungo la solitaria strada sperimentale percorsa. Sin dagli anni successivi alla grande crisi del 1929 il governo statunitense concretizzò un piano per incentivare e promuovere la giovane arte contemporanea. Sia all’interno degli Stati Uniti che nei confronti dell’esterno. L’immagine di un Paese in declino doveva essere ribaltata. Nei decenni successivi, credo forse grazie a questo tipo di intervento, la classe più raffinata e colta dei collezionisti statunitensi prese il posto dei politici di un tempo. Non è casuale se il Rothko battuto alla cifra stellare di 72,8 milioni di dollari la scorsa primavera a New York venga dalla collezione di Rockefeller. David Rockefeller lo aveva acquistato nel 1960. Per una cifra corrispondente a diecimila dollari di allora. Una bella cifretta per i tempi. Ma imparagonabile alla milionaria moltiplicazione del valore attuale. Il circolo dei collezionisti americani degli anni Cinquanta e Sessanta, così come l’entourage dei galleristi statunitensi degli anni Sessanta e Settanta ha amato veramente l’arte. Per questo sapeva riconoscere sul serio il valore di un’opera. A nessuno interessava di chi fosse. Se l’artista avesse venti o cinquant’anni. Se fosse catalogabile nel concettualismo o nella figurazione. Ciò che importava era l’aspetto della ricerca. La risoluzione pittorica. Insomma se esteticamente l’opera funzionasse o meno. Al centro dei dibattiti stava il rapporto tra il peso dei colori e gli spazi. E tra il risultato finale e la poeticità raggiunta. In Europa questo tipo di atteggiamento è stato assorbito, più tardi, da alcune istituzioni britanniche. Guardate l’esempio del Bacon in asta da Christie’s il 14 ottobre. Era stato accettato dal Royal College of Arts in cambio dell’affitto per uno studio. Ora ha una stima tra i 10 e i 13 milioni di euro. Non voglio sottolineare la -pur divertente e istruttiva- questione economica. Voglio solo dire che i responsabili di allora del College sapevano distinguere il talento e la ricerca vera. Tanto che oggi grazie all’affitto di un locale saranno probabilmente in grado di costruire un’intera nuova palazzina. Per gli studenti. Allora è inutile prendersela con chi in Italia – tra il pubblico e il privato non ha fatto e non fa nulla per l’arte. Sono lacrime inutili. Il problema è che quand’anche ne avessero la volontà non sarebbero in grado. Almeno allo stato attuale. Prima di intervenire su una questione, qualsiasi, è necessario avere gli strumenti intellettuali per farlo. Da noi quelle poche persone in grado di comprendere o di “iniziare a imparare e insegnare a vedere” come avrebbe detto il grande ciritico Matteo Marangoni, semplicemente si occupano d’altro. Di polemiche, di pregiudizi, di politica, di soldi. Nessuno o quasi parla del colore, della sua stesura, dei campi cromatici, del segno. O del rapporto tra disegno e spazio, tra spazio e campiture. Insomma dell’arte. Le pochissime persone che ho incontrato e incontro, interessate a studiare e guardare i lavori -senza giudicare chi sta dietro, davanti o di fianco- mi sorridono dicendomi “ma perchè lei insiste nel fare questi discorsi sull’Italia e l’arte contemporanea? Qua non ci cava un ragno dal buco. Continuerà soltanto a sentire parlare di interessi. Venga a New York, a Londra, a Parigi, ma guardi le dirò anche in India, e comincerà a trovare le occasioni per parlare anche di estetica e poesia”. Nel mio intimo so perfettamente che hanno ragione. Ma anch’io sono cocciuto. Anche per queste ragioni la mostra di Rothko è da vedere.