Dal 20 gennaio al 22 giugno 2008
di Daniele Benati
Guido Cagnacci è una delle personalità più affascinanti e misteriose del Seicento italiano. Della sua biografia conosciamo pochi ma significativi episodi, a partire dalla sua nascita a Santarcangelo di Romagna nel 1601 e dai modi della sua formazione, che ci sono noti dall’atto testamentario del 1643, col quale il padre, conciapelli e messo del comune di Casteldurante (l’odierna Urbania), gli detrae dall’eredità le spese sostenute per mantenerlo agli studi di pittore: una decisione assai aspra, che Matteo Cagnacci doveva aver maturato in seguito agli scandali di cui il figlio si era reso protagonista a Rimini. Nel 1628, Guido aveva tentato di fuggire con una nobile riminese, Teodora Stivivi vedova Battaglini, che gli si era promessa, e sarà proprio il padre a denunciarlo all’autorità pontificia, impedendogli di sposarla.
Apprendiamo così che Guido, assecondando una vocazione maturata precocemente, era stato inviato dal padre a Bologna, presso il nobiluomo Girolamo Leoni, in modo da potersi aggiornare su quanto vi si produceva nelle botteghe più in vista, e poi a Roma, dove risulta che egli abbia soggiornato per almeno due volte, la seconda nel 1621-22, in compagnia del Guercino: occasioni che egli mise a frutto nella successiva pittura sacra, segnata da una forte impronta caravaggesca.
Lungo gli anni Venti e Trenta risiede a Rimini, dove lavora per gli altari della città (San Giovanni Battista, il Gesù) e del circondario (Saludecio, Santarcangelo, Urbania). Nel 1640 è sicuramente a Bologna, dove entra in contatto con l’ultimo Guido Reni e con i suoi allievi e accede a una committenza di alto rango, avviando una produzione di quadri “da stanza”.
Nel 1642, anno della morte di Reni, è invece a Forlì, dove prende accordi per due dei “quadroni” destinati a decorare la cappella di Santa Maria del Fuoco nel duomo, posti in loco nel 1644, e per gli affreschi nella cupola, che non terminerà e saranno successivamente assegnati al bolognese Carlo Cignani. I due “quadroni” con la Gloria dei santi Mercuriale e Valeriano sono peraltro l’ultima impresa, insieme al San Giuseppe per l’omonimo oratorio e al Sant’Antonio per il duomo, nel campo della pittura da chiesa. Importanti sono altresì i contatti che egli stringe in questi anni con i nobili forlivesi Albicini, ai quali nel 1647 invia da Faenza alcuni dipinti.
Nel 1649 risulta stabilito a Venezia, dove, secondo i biografi successivi (Costa, 1752), vivrebbe in incognito, con il nuovo cognome di Canlassi e in compagnia di una giovane donna che gli funge da modella e che per passare inosservata si veste da uomo. Nella città lagunare, contrassegnata da un clima molto libero, intraprende un’intensa produzione di quadri “da stanza” in cui prevale un tema, quello del nudo femminile, che, mentre gli procura i favori di una committenza ricca e disinibita, gli aliena il gradimento di qualche letterato: pur senza nominarlo apertamente, è a lui che si riferisce Marco Boschini (1660), stigmatizzando la monotonia dei soggetti da lui praticati.
Dopo una breve presenza a Cesenatico (1658), si sposta a Vienna, dove è documentato con sicurezza dal 1660 e dove lavora con una certa agiatezza per la corte di Leopoldo I d’Asburgo, non senza però che il suo carattere litigioso si manifesti nei confronti di altri pittori italiani attivi per lo stesso committente, come Pietro Liberi, protetto dall’odiato Boschini. Muore nel 1663 e viene sepolto nella Augustinerkirche.