Ogni volta che l’arte va in boom o in sboom… ecco spuntar fuori inediti esperti. Gente che si è sempre e solo preoccupata di ben coltivare il proprio giardino, improvvisamente si sveglia nel palingenetico ruolo di salvatore della Patria e dell’Onore in grazia d’esser loro esperti in pompa magna. Se non delle tendenze almeno di quello che è più giusto o ingiusto dire. Di questi improvvisati signori il top management del mercato d’arte internazionale ha un’idea molto chiara. Meglio farebbero a starsene zitti. Perché oltre a far ridere (assai) montano i nervi già tesi dei protagonisti. La serietà esige che i numeri siano forniti per quel che sono. Se sul mercato si vende e i prezzi salgono i numeri sono in blu. Se non si vende e scendono in rosso. Tant’é. Le società e le persone per bene (nel mondo ce ne sono molte in Italia anche) non hanno paura della verità e della sua cronaca. Sarà bene ricordare che le due major mondiali dell’arte di cadute e risalite ne hanno viste a bizzeffe. Sotheby’s è nata nel 1744 e Christie’s nel 1766. Ma anche la stessa italianissima Finarte risale agli anni Cinquanta del secolo scorso. Ciò che distingue un esperto da un tamburante è che il primo si sforza di aderire ai fatti cercando di interpretare il futuro. Ora la prima via è molto semplice, la seconda ardita. Di questi tempi più che mai. Inutile nascondersi dietro a un dito. Io stesso seguo l’economia dell’arte ogni giorno dal 1983 e non saprei con certezza che dire. Posso soltanto azzardare delle ipotetiche ipotesi, se mi è concessa una salvifica cacofonia. Negli ultimi anni il mercato dell’arte si è addobbato come una soubrette sui palcoscenici dei nuovi ricchi e degli squali che nuotavano nella finanza (sia privata che pubblica). Che cosa abbiamo fatto noi per contrastare questo tipo di visione del mondo? Quanto e come abbiamo cercato di promuovere un’arte o una ricerca artistica consolidata sulla sperimentazione e lo studio piuttosto che sulla sua spettacolarizzazione? Non pongo tali quesiti per attaccare qualcuno o polemizzare ad alta voce (che poi è ancora un modo per dare spettacolo e pensare poco). Ma semplicemente per fertilizzare un dibattito intorno all’argomento. Il mercato dell’arte attuale è senza alcun dubbio lo specchio del “capitalismo tossico” che sta tirando le cuoia. Mentre solo negli anni Sessanta e Settanta era ben altra cosa. Io credo che si dovrebbe riuscire a coniugare l’aspetto più culturalmente sofisticato del collezionismo di quegli anni con l’orientamento massificato e popolare di oggi. In fondo, come scriveva con suoi soliti lampi Oscar Wilde “Non è l’arte che deve farsi popolare. E’ il popolo che deve diventare artistico”. I risultati delle aste newyorchesi dietro l’angolo (dagli Impressionist ai Modern sino alla Contemporary Art) sono una vera e propria incognita (al ribasso). Ma l’attitudine a esasperare gli animi nel registrare un fatto (o nel nasconderlo) fa pienamente parte di quest’epoca che è al suo declino. In futuro potrebbe inizialmente esserci lo spazio per due livelli differenti di mercato. Uno, alto, che si rivolgerà in prevalenza ai capolavori antichi o alle opere moderne e contemporanee ma fortemente storicizzate (con valori tutti da ridelineare). L’altro molto più popolare e scanzonato. Composto da allegre famiglie e brigate a caccia di artistiche decorazioni e opere di neo-talenti. Entrambi i livelli saranno fenomeni da seguire attentamente. Non tanto e solo per l’aspetto economico, quanto per i risvolti sociologici che produrranno. A proposito di questo secondo livello, devo fare personale autocritica sul giudizio fortemente negativo che in passato ho espresso su ArtVerona, appena svoltasi. Anni fa incontrai personalmente Danilo Vignati (patron di questa fiera) e l’impressione che ho avuto è stata quello di un venditore di pubblicità. Interessato solo al suo business. Logico che chi organizza una fiera lo debba essere. Ma se si occupa d’arte non devo avere soltanto il profilo di chi specula. Altrimenti potrebbe fare un mercatino di scarpe. Devo sentirmi libero di queste affermazioni poiché in passato mi sono beccato una querela per aver scritto che l’arte non è solo business e che oggi il vero business sembrerebbe quello di vendere gli stand. Ebbene, senza dir nulla a nessuno (senza avvisare l’ufficio stampa o chichessia) sono andato a mischiarmi tra i visitatori di ArtVerona. E qui confermo la mia autocritica. L’organizzazione era buona. Gli spazi facilmente comprensibili e vivibili. I mercanti che ho interrogato soddisfatti. Dunque sono costretto -con piacere- a cambiare la mia opinione sul lavoro di Vignati. ArtVerona è riuscita meglio delle scorse edizioni. Quello che manca è un innesto a sei marce con il cambio differenziale sul lato degli eventi collaterali. C’é bisogno di spazi per dare ossigeno alle ricerche e sperimentazioni di nuovi talenti, artisti, curatori, esperti, storici e critici dell’arte. In un periodo come quello attuale mille volte più di ieri. Il vero rischio per le fiere italiane, anche per quelle che vanno bene, è di trasformarsi in un mediocre “mercatino dei polli”. Come diceva ancora Wilde “dove c’è un’opera d’arte c’è un pubblico e dove c’è un pubblico c’è un mercato”. In tutti questi anni ci siamo occupati sempre del pubblico (e della pubblicità). Ci siamo super-eccitati all’idea di un mercato. Oggi è venuto il tempo di concentrarsi sull’opera. Senza la quale gli altri due aspetti non esistono. Il che -se permettete- non è certo un dettaglio. Anzi, uno straordinario piacere. N’est-ce pas?