La recensione di Luca Beatrice, comparsa su Libero del 2 gennaio, del libro di Salvador Dalì “I cornuti della vecchia arte moderna”, edizioni Abscondita (peraltro già pubblicato da il Melangolo nel 1991), mi fornisce l’occasione per buttar giù qualche riflessione circa la genesi e l’evoluzione dell’estetica moderno-contemporanea anche al fine, se mi riesce, di gettare qualche seme in vista della prossima Biennale veneziana, ed il tanto atteso “Padiglione Italia”. Lontano da noi il desiderio di esercitarsi in un totonomi (come fa il direttore) che sembra essere lo sport preferito dagli addetti ai “livori”. Cercherò di essere sintetico e chiaro, con le inevitabili semplificazioni di cui chiedo preventivamente scusa, senza tralasciare i nodi, a mio avviso cruciali, che agli inizi del secolo scorso hanno determinato un così radicale sovvertimento dei parametri estetici.
LA FRANTUMAZIONE DELLA CLASSICITA’ La crisi del concetto classico di bellezza, evidenziatasi ai primi del ‘900, ha determinato lo squassamento della grammatica e della sintassi dell’arte spostando sempre più in là il concetto di “bello” fino a svuotarlo totalmente di significato. Cercherò di spiegarmi meglio, facendo un piccolo passo indietro nel tempo. È il secolo dei lumi a dettare i nuovi codici del sapere: egualitarismo, secolarizzazione, razionalismo positivistico, frantumazione del sapere in branche specialistiche, rapporti con culture altre. Già Kant stabilisce notevoli limiti alla conoscenza, postulando che in realtà conosciamo solo quello per cui la nostra mente è predisposta attraverso le categorie a priori, ponendo così seri interrogativi epistemologici e aprendo, da un lato, il vaso di Pandora dell’interiorità e dell’indagine sull’Io che sfocerà nell’idealismo e nel freudianesimo psicoanalitico e, dall’altro, evidenziando il problema della rappresentabilità, ovvero della riproducibilità del vero.
Gli Impressionisti si erano posti la questione, pressati dalla concorrenza della fotografia, usando la tavolozza per far sì che i colori si ricomponessero nella nostra retina in modo da riprodurre la realtà in maniera più aderente al vero. Cézanne, che è il vero padre dell’arte moderna, cerca di colmare con sforzo titanico l’antinomia interno-esterno, non su i presupposti ottico-scientifici degli Impressionisti, ma tentando mirabilmente di coniugare la visione della mente (in senso kantiano) con quella del mondo. Da qui parte l’avventura dell’arte moderna, che andrà più radicalizzandosi, proprio perché moderna e quindi sempre tesa al superamento, fino a giungere alla impossibilità totale della rappresentazione esemplificata dall’invenzione del ready-made di Duchamp che anziché dipingere un oggetto se ne appropria e lo espone direttamente. L’arte diviene così più simile alla filosofia ed alla linguistica che diventano i veri campi di indagine e riflessione. Cosa altro è il quadro di Magritte Ceci n’est pas une pipe se non la manifesta antinomia tra cosa vista e parola che la definisce? Per questo penso che in realtà Duchamp sia un punto di arrivo e non di partenza come comunemente si crede. Con lui arriva al termine un lungo percorso di decostruzione del concetto di bello: partendo da Gauguin, à la recherce nelle isole esotiche della purezza del buon selvaggio che la civiltà borghese non poteva dargli, fino alle cariatidi di Modigliani e ai quadri primitivisti di Picasso che adottano stilemi estetici di civiltà altre, tutte radicalmente aclassiche.
Il definitivo affermarsi della borghesia come classe dominante, e il conseguente affacciarsi del proletariato come classe alternativa, supportata dalla dottrina marxista che teorizza il superamento del capitalismo attraverso la palingenesi socialista, andrà vieppiù affermandosi confluendo nel malessere che attraversa la società a cavallo della metà dell’800 e contribuendo alla nascita di quella schiera di intellettuali bohemien déraciné che tanta influenza avrà nelle formazione delle coscienze delle generazioni future.
L’ESTETICA MODERNISTA Questo l’humus culturale che informa l’arte visiva -e non solo questa- del ‘900, fondata su valori alternativi e spesso in odio alla tradizione classica e al mondo borghese nei quali non si riconosce più. Il confluire dell’affermazione egoica disgiunta da qualsivoglia ancoraggio metafisico, la concezione storicistico-idealistica della realtà che vede nella dinamica tesi-antitesi un continuo superamento progressivo delle fasi storiche e, infine, l’innestarsi della dottrina marxista su questi fondamenti concettuali, hanno determinato il formarsi dei principi guida che hanno informato di sé, a parte qualche rara e non sufficientemente valutata eccezione, tutto il ‘900. Dal Gauguin “primitivo” al cinico Picasso su fino ai Surrealisti ed al secondo dopoguerra, tutta la creazione figurativa è costituita da questi postulati culturali. Naturalmente non sono mancate voci dissonanti riguardo all’imperante modernismo, prima fra tutte quella del geniale De Chirico la cui atemporalità metafisica è quanto di più antimoderno si possa immaginare. “Ritorno all’ordine” contro i furori futuristico-avanguardistici, per la riaffermazione di una concezione dell’arte come esperienza dell’Italia e della sua tradizione, sono le parole d’ordine di “Valori Plastici”, la rivista che raccoglie intorno a sé, tra il ‘18 e il ‘22, un nucleo di intellettuali e pittori di primaria grandezza, da Morandi a Savinio a Carrà; Sironi e il gruppo di Novecento alimentano la loro ricerca dello stesso sentimento. Tutto questo ricco patrimonio supererà con difficoltà le anse della guerra: il Novecento, bollato di fascismo, sconterà un lungo ostracismo mentre De Chirico, in splendida solitudine, darà bizzarre testimonianze di sé ma non fornirà linfa vitale alle generazioni successive che, prese come per incantamento da avanguardistico slancio, snobberanno quel mondo.
Simile sorte toccherà a Salvador Dalì “costretto” ad enfatizzare l’aspetto circense del suo carattere per mantenere vivo un cono di luce sul suo lavoro, altrimenti stritolato dal quel geniaccio di Picasso, cinico cannibale di tutti gli avanguardismi, strafottente cubo-ritrattista delle damazze dell’epoca e padre nobile dell’engagement, esemplificato da quel murales di Guernica che diverrà l’archetipo di tutto il cubismo di seconda generazione.
IL DOPOGUERRA ITALIANO Solo alla fine del secondo conflitto mondiale, si manifesta con tutta la sua forza dirompente il Nuovo Mondo e la sua cultura, germinata tra le due guerre, sulle ceneri delle nostre avanguardie.
E’ ora, tra la metà degli anni ‘50 ed i primi ‘60, che avviene la radicale trasformazione, nell’accezione pasolinianamente antropologica, della cultura tutta, nel senso più esteso ed ampio con l’irruzione sul palcoscenico del “giovanilismo” e dei “giovani”, come fruitori, produttori e consumatori di cultura. È’ appunto tra gli anni ‘60 e ‘70 che va affermandosi un international-style che si sovrappone -fino a sostituire definitivamente- qualsiasi residuo di tradizione precedente. Sono gli anni in cui le masse irrompono sulla scena divenendo le protagoniste delle moderne democrazie, l’epoca della dittatura della comunicazione che diviene essa stessa cultura, il trionfo della Pop-Art e del suo geniale vate Andy Warhol e dei suoi profetici 5 minuti di fama, gli anni in cui Cassius Clay diviene Mohamed Ali, prima icona dell’islamo-marxismo rivoluzionario. A Roma, nel dicembre del ‘68, alla galleria L’Attico anzi, genialmente Garage, si consuma il “delitto”, il taglio netto di tutti i consumati fili che ancora tenuemente univano il nostro passato e l’oggi, storia e tradizione con il presente. Kounellis, con i suoi cavalli vivi, radicalizza il portato avanguardista negando tutta la tradizione figurativa precedente, passando dall’engagement al terrorismo culturale. Peccato che la sua più recente produzione non sia altro che un formalistico assemblage, combine painting, di ferraglie tese a ricostruire con materiali altri una tavolozza pittorica. Ma si sa, si nasce incendiari e si finisce pompier.
Questi gli ingredienti dello shaker che darà luogo a quell’avvelenato cocktail chiamato post-moderno che, ponendo orizzontalmente le culture tutte sullo stesso piano, finisce per equiparare un tamburo africano ad una sinfonia di Mozart piuttosto che un OM tibetano al canto gregoriano o a un fuga di Bach.
IL CONTEMPORANEO NON-SENSE Eccoci arrivati all’oggi, all’estetica fondata sui detriti filosofici-ideologici del millennio scorso in salsa pop post-moderna che originano opere fondate su un non-sense tardissimo dadaista, piuttosto che una sorta di progressista engagement patinato e glamour. Che noia, è tutto così prevedibile e scontato questo minuetto di cicisbei del XXI secolo perfettamente aderente alle maschere incipriate di questa sorta di jet-set international così autocentrato, uso a riflettersi nei suoi confortanti news-paper e magazine, ignari e incuranti del mondo là fuori e delle sfide epocali che incombono sul nostro disastrato Occidente.
Ora che le lancette dell’orologio della storia sembrano riposizionarsi al punto di partenza e la vecchia Europa, scossa da tensioni che non sa metabolizzare, non riesce a far pace con la propria storia, divisa com’è da tensioni e contrapposizioni non più ideologiche bensì culturali e religiose, ora che multiculturalismo e sentimento identitario, forze centrifughe e centripete, particolarismo ed universalismo tornano a bussare, ora credo sia il momento di raccogliere la sfida e tentare un progetto culturale che riconcili le ragioni dell’io slegate da ogni riferimento ricomprendendole nella trama dell’eredità storica. Siamo passati dalla Venere di Botticelli a quella degli stracci. Basta, il re è nudo. Il linguaggio delle avanguardie si è esaurito, ha raggiunto il suo intento azzeratore, ora è tempo di ricostruire.
Buon viaggio!
in punta di pennino il Vostro LdR