I concorsi artistici che nascono col fine assistenziale di promuovere la “giovane arte” indicano in “giovane” chi non abbia quarant’anni, ovvero, nel Rinascimento, la soglia all’età della canizie. Del resto, poco dopo la cinquantina sino a non molti lustri fa si passava a miglior vita.
Mentre in me mi felicito di sapere che per i galanti organizzatori sono poco più che post-adolescente (per Guicciardini, però, una tarda madonna), sottolineo quanto fuorviante sia il termine “giovane” per un artista. La “giovane arte” non esiste. Un artista dà il meglio di sé in prima età creativa -la storia lo urla- e, salvo qualche eclatante outsider, dopo la trenta-quarantina insegue mete già raggiunte per cercare un’evoluzione poetica che ne stia al passo.
Da questo assunto generico, ma realistico e perlomeno antidemagogico, si evince che “promuovere i giovani artisti” è contraddizione in termini e sta esattamente al paternalismo offensivo e semplicistico dei “trentenni bamboccioni”, congelati in perenne, colpevole gioventù. I premi si affannerebbero, pertanto, ad aiutare coloro che già raggiunsero il gradino più alto della loro parabola performativa. I quali, in genere, non hanno alcun bisogno di essere aiutati e, se ne hanno bisogno, significa che non valgono granché. Deinde, cui prodest certamen?