La performance inglese dell’artista svizzero lo scorso 3 febbraio da Sotheby’s stimola considerazioni lontane dalla critica d’arte. Non che Giacometti sia mai stato artista da piccolo collezionismo, ma la straordinaria battuta d’asta farà ricordare, dell’opera, solo un nome – al più, se soverchiati da pruderie filologica, un titolo – affiancato da una cifra con troppi numeri ante virgola centesimale. C’è da meditare sul perché un’evidente speculazione giunga proprio in questo momento di globale vacca magrissima. L’esemplare esitato da Sotheby’s è uno dei sei prodotti nel 1961, oltre quattro prove d’artista. Le altre fusioni – presso la Fondazione Maeght a St. Paul-de-Vence, il Carnegie Institute Museum of Art a Pittsburgh e l’Albright-Knox Art Gallery a Buffalo, per citarne alcune – hanno, quale prima piana conseguenza di questo exploit, quadruplicato il valore e accresciuto il patrimonio delle relative sedi. E il rettificato valore de L’Homme qui marche I è in realtà 390 milioni di sterline (milione più, milione meno).
Non sono per il facile moralismo e m’incuriosisce osservare sino a che punto una determinata facies umana sia disposta ad arrivare per ottenere un simbolo di potere. Ma è inevitabile: salutiamo per sempre l’opera d’arte, accogliamo al suo posto una gelida cassaforte.