IL SEME DEGLI AVI
“ARTE NATURA E POESIA A MORTERONE”
(ovvero: la passione del vero ideale)
Da tempo so dell’appuntamento di Morterone in provincia di Lecco: sin dall’estate ho avvertito la mia famiglia di tenersi pronta. La domenica precedente l’apertura dell’anno scolastico (lombardo) andremo tutti a imparare una lezione che i più ci invidieranno.
Ma prima dobbiamo arrivare.
La strada provinciale di 16 km che parte da Ballabio e porta a Morterone mette a dura prova il cuore dei deboli, soprattutto se non la si conosce e se, percorrendola di mattina e in salita, sei alle prese con i molti ciclisti (tutti piuttosto attempati, con mio enorme stupore!) che, digrignando i denti e tendendo i muscoli anche dell’anima, cercano di guadagnare la vetta. Ma, per chi non guida, è una straordinaria sorpresa. Lo sguardo arriva altissimo sul lago di Lecco e spazia sulle rocce di granito bianco a strapiombo fra le betulle e le faggete. Più in là ci sono le cime del Resegone. L’abitato in basso sembra lontanissimo e, per tutto il tragitto, davvero ci si sperde nella natura, nell’assenza di manufatto umano. Ma il percorso, la cui angustia ricorda che il premio è alla fine del viaggio e bisogna meritarselo, è ben tenuto e privo di difficoltà.
All’arrivo, alcuni bimbi ci indicano dove tutti sono raccolti in attesa delle parole di rito, che – sentiremo – di rito non sono. Parlano i maggiorenti della politica locale, per la verità con un accento nuovo, con un tono di convinta partecipazione. Parla poi Epicarmo Invernizzi il quale, sotto l’impulso del padre, con l’aiuto del fratello e di tutta la sua famiglia, che ha radici profonde nel paesino meno popoloso d’Italia, raggiunge oggi un traguardo frutto di ben 25 anni di lavoro. Ma dirà solo due battute, travolto da un’incontenibile emozione. Lo sostituirà nel saluto Massimo Donà, il filosofo scrittore di un notevole saggio in catalogo, che enumererà le difficoltà del padre di Epicarmo, il poeta Carlo Invernizzi. Questi dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso tenta, secondo il dettato del movimento poetico della “Natura naturans” che in Morterone ha i suoi natali, di preservare quel paradiso domestico dalla speculazione della modernità (e di alcune cieche amministrazioni passate) con tutte le sue forze, convinto assertore che l’arte salva l’uomo e illumina di ricchezza ulteriore la Natura, la quale, grata e contraccambiante, informa il luogo del più puro senso del Sublime.
Intento della famiglia Invernizzi è quello di fare di Morterone il “centro del mondo” (dirà Carlo: «…Se dove si crea è il centro del mondo, allora Morterone è il centro del mondo…»), ospitando, con immensa fatica e dispendio di mezzi e energie, opere d’arte contemporanea che dialoghino con la natura circostante, inserite all’interno di proprietà private, negli spiazzi erbosi e nei declivi, nei siti pubblici e lungo la passeggiata che collega le diverse località del piccolissimo Paese.
E’ più importante la Storia collettiva rispetto alle persone singole (anche se la Storia è costruita da persone singole), è più importante l’Arte dell’effimera contingenza che determinerebbe ben altri destini per quel sito. E’ più rilevante un progetto del cuore del fatto che per vederlo compiuto ci vorranno 5 lustri…
La qualità di questo gesto assomma le caratteristiche del più alto senso civile e dell’infaticabile impegno intellettuale. L’omaggio al luogo è omaggio alla comunità, senza finte modestie e con emozione, “passione”, ovvero ciò che si è patito su di sé – come dice Donà – per raggiungere l’obiettivo, che indica che un uomo (un gruppo d’uomini) motivato da scopi puri avrà comunque successo. L’Arte è quell’ “incidente” (incalza il cattedratico) che ci pone di fronte a ciò che non trova giustificazione se non in se stessa; l’Arte è provvidenziale (nel senso squisitamente dantesco del termine) perché ci ricorda che, per trovare risposte al perché della nostra esistenza, non è necessario che vi sia un senso così come quotidianamente inteso, un’utilità. L’Artista è colui che agisce gratuitamente, senza scopo, senza che vi sia un motivo evidente al proprio fare per indicare agli altri (al pubblico) la radice dei moti umani e delle azioni singole e collettive.
L’iniziativa ha già dato i primi frutti diversi anni fa con l’installazione all’aperto di alcune opere fra cui tre grandi Tondi del 2006 di Mauro Staccioli, una magnifica scultura del 1989 di Grazia Varisco (Duetto – Tensioni sfalsate), un totem vibrante del 2005 di Carlo Ciussi, la selva svettante di snelli cilindri fra le case del “centro” di Gianni Colombo (Architettura cacogoniometrica del 1984-88 già esposta alla Biennale di venezia del 1984 e poi qui trasferita definitivamente – ma sembra che qui e solo qui sia nata!) e altre ancora. Oggi si completa il progetto con l’aggiunta di altre opere en plein air e di una mostra bellissima, ancorché in una piccola sede, all’interno del Municipio di Morterone.
Nell’aria tersa e leggera, mentre qualche ciclista continua a spedalare sotto la ringhiera della balconata del Municipio battuta dal sole, siamo avvisati che dovremo procedere per una gita collettiva – la medesima indicata nella pianta della dislocazione delle opere dei circa trenta artisti (quasi quanto sono i residenti), mappa che si trova anche all’interno del sito riportato in calce insieme a ogni altra informazione -, non prima però di aver ammirato i lavori già collocati in piazza. Un affresco di David Tremlett, Disegno per le montagne, eseguito quest’anno per la volta a crociera del piccolo portico della chiesa che si apre come quinta sulle montagne lontane; il grande Ricostruttivo in acciaio inossidabile di Nicola Carrino che occupa quasi tutta l’area del sagrato, incombendo come Misura estrema e universale attraverso cui organizzare lo spazio.
Dentro il Municipio in pietra, una sala a pianta quadrata ospita pochi, sceltissimi, capolavori: un Volume a modulo sfalsato di un nero profondo e grandi dimensioni di Dadamaino determina, secondo il mio modo di vedere, il ritmo della sala, come fosse il la su cui gli altri strumenti si devono accordare. E così entra in partitura, sulle stesse corde della collega, il delicato intervento di Niele Toroni (Impronte di pennello – per Morterone, i suoi colori) ai quattro cantonali della sala, mentre un imponente pannello argentato di Riccardo De Marchi fa da contrappunto intellettuale (almeno quarant’anni dopo) alla maestra nella parete affrontata. Bello anche il trittico di Alan Charlton, sembra un omaggio all’imponenza delle rocce di Morterone.
Il tocco da solista, per me, è di Rodolfo Aricò con un abitualmente elegantissimo – anche se per una volta concedente a una lieve, inattesa, benvenuta scompostezza – Irregolare del 1986.
Ma tutte le opere, ben concepite e ben disposte, concertano in un armonioso tributo al padre dell’astrattismo italiano, lo Spazialismo. Non c’è neanche una caduta di stile.
Nell’ingresso del palazzo – che inizialmente avevo ignorato, nella smania della visita o forse per la calca – mi colpisce l’installazione, calzante e opportuna, di Michel Verjux che proietta un cono di luce, deformatosi in poliedro mistilineo dai bordi blu klein, lungo le scale che recano al piano superiore, un’illuminazione allusiva, delicata e reverente verso la storia del Paese. Al secondo livello troverò, difatti, le lapidi commemorative di altri due componenti la famiglia Invernizzi cui la comunità montana è grata. Mi colpisce inevitabilmente Mistica Invernizzi, negli anni ’60 “sindaca alta e magra” (come recitano le cronache di Morterone). Il nome e il ruolo hanno, per chi è a digiuno delle storie di quest’angolo di mondo, quasi del surreale.
Ma ancor più fantastico, per noi cittadini di pianura che arrampichiamo un poco scomposti i gentili declivi erbosi che congiungono le diverse località del Paese, è ciò che ci attende all’aperto, secondo una scenografia naturale che non finirà mai di stupire per le infinite opportunità offerte agli artisti invitati. I quali artisti – come bimbi in gita scolastica, finalmente sciolti dal giogo dei genitori – sembrano a propria volta meravigliati dell’effetto dirompente di quell’insieme calibratissimo di bellezze naturali e artificiali. Anche i non più giovani sgambettano occhiuti senza più cercare i propri accompagnatori (smemori della strada impervia che li portò sin qui e che li aveva fatti stragiurare solo pochi minuti prima che mai vi sarebbero tornati, da sobri). Gli artisti, come noi del pubblico, sono ammaliati dalla Poesia.
Poi ci dirigiamo verso il “centro”: un piccolo agglomerato di case, dove è anche l’abitazione di famiglia degli Invernizzi, che, benché deserto rispetto al XIX secolo, interpreta in chiave contemporanea la propria energia vitale in attesa di un futuro nuovo. Fra due dimore s’interpone il boschetto artificiale di Gianni Colombo, di cui ho già parlato, quasi l’emblema sia del progetto che della manifestazione di oggi. Il luogo è magico e il silenzio sospeso.
Ma dobbiamo ancora scendere sull’erba verso un pianoro che sembra ospitare le vestigia di un abitato più antico. E come un tempio arcaico qui si trova l’opera del giovane veneziano Francesco Candoloro, cimentatosi con lo scenario bellissimo dei monti a 360° e riuscito, per me, qui vincitore. Candeloro ha ricostruito una rovina, ripristinando gli angoli opposti del rudere di una casa in pietra. Quattro angoli, quattro cantoni come quelli indicati da Niele Toroni nella sala municipale, di cui due costituiti da lame di plexiglass colorato tagliate al laser seguendo l’andamento dei crinali montani. L’artista, che personalmente trovo di solida coerenza e di forte personalità, benché a volte dotato di un gusto decorativo troppo ridondante, qui stana nella materia una cifra congeniale. Mi complimento sinceramente con lui, che appare più emozionato dei colleghi più maturi, e mentre converso non mi accorgo che, nella mia consueta goffaggine, ho abbadonato armi e bagagli sul ciglio dell’opera, con il muto ma severo disappunto dei fotografi autorizzati alla riproduzione e degli amici dell’artista.
Sullo sfondo del teatro naturale, a lato della passeggiata che conduce a Località Prà de L’Ort, si stagliano i tre grandi tondi di Staccioli (le monete del salvadanaio portabuono, il portafortuna di quest’impresa) e, a chiudere la passeggiata artistica, la cima pietrosa e decline di Ulrich Rückreim, che quasi si confonde nello scenario dei monti (e che infatti suggerirei di non mantenere così isolata, se non fosse che un consiglio del genere potrebbe rendere insonne le notti degli organizzatori, se mai seguito).
La festa prosegue nella Pro Loco attrezzata per accogliere gli artisti e gli amici.
La Signora Invernizzi, moglie di Carlo, con l’aiuto di figli e nuore, ha approntato un pranzo magnifico in perfetto stile montano, i cui profumi e sapori condiscono la giornata perfetta.
Il Paese, che ha già un Ristorante dei Cacciatori per gli escursionisti soprattutto estivi, si sta attrezzando per ospitare numerosi gli amanti dell’arte. E poiché sarebbe troppa fatica il trasporto delle vettovaglie dal piano, va da sé che tutto ciò che qui si gusta non ha compiuto più dei tre-quattro chilometri di tragitto dalla Piazza del Municipio agli alpeggi.
Scendendo senza aver toccato un goccio di vino, se non quello per un necessario e sentito brindisi, mentre un amico particolarmente timoroso e memore dell’andata decide di coprirsi con la giacca il volto per timore di guardare in basso nell’orrido, e gli altri con me quasi tacciono per concentrarsi sulla strada, mi sovviene un recente e un poco stantio dibattito su come risollevare le sorti dell’arte contemporanea in alcune città dello Stivale che, invece di seguire una vocazione culturale ormai difficile a riconoscere, ostentano volgarità e confuse iniziative mediatiche.
Non c’è scampo: senza un forte motivo propulsore non c’è alcun successo per un’impresa di uomini “pubblici” o “privati”. Senza passione (e mestiere) non c’è possibilità di riscatto. Non ci si inventa assessori alla cultura o direttori di uffici mostre, non ci si incolla curatori di avvenimenti estemporanei e avulsi dal luogo dove si sta operando.
A costo di sembrare banale – qualcuno dei miei amici direbbe, orribilmente banale – senza l’osservazione attenta del passato, per attingerne energie, non c’è davvero futuro.
OPERE ALL’APERTO: Francesco Candeloro, Nicola Carrino, Igino Legnaghi, François Morellet, Bruno Querci, Ulrich Rückriem, Nelio Sonego, Mauro Staccioli, Niele Toroni, David Tremlett, Michel Verjux
OPERE SALA MUNICIPALE: Rodolfo Aricò, Alan Charlton, Carlo Ciussi, Dadamaino, Riccardo De Marchi, Lesley Foxcroft, Mario Nigro, Pino Pinelli, Günter Umberg, Niele Toroni, Elisabeth Vary, Michel Verjux
PROGETTO A CURA DI: Epicarmo Invernizzi
CATALOGO (bilingue a colori) CON SAGGI DI: Massimo Donà, Francesca Pola, Antonella Soldaini. Poesie di Carlo Invernizzi
ORGANIZZAZIONE: Comune di Morterone, Associazione Culturale Amici di Morterone
Dove:
Paese di Morterone (Municipio, Piazza della Chiesa, Morterone Centro, Località Pradello, Località Prà de l’Ort, Località Medalunga, Località Foppo)
Da Lecco seguire la strada per VALSASSINA e a BALLABIO girare a destra su Strada Prov. 63; proseguire seguendo le indicazioni per MORTERONE, PIAZZA DELLA CHIESA. Da Milano circa 1h e 45 min.
La strada per Morterone (l’unica: 16 km. a due sensi di marcia) è assai stretta e tortuosa, l’andatura non può superare i 20-30 km all’ora: munirsi di pazienza e di un guidatore attento, mentre i passeggeri possono godere di un paesaggio assolutamente fuori dal comune. Consigliabile non andare con un SUV (anche per la sosta all’arrivo) meglio una sana Panda, ancor meglio se 4×4.
Apertura e Orari:
12 settembre – 5 dicembre 2010
Orario: l’arco della giornata, ma meglio verificare l’eventuale chiusura della sala del Municipio
Biglietti:
Ingresso gratuito
INFORMAZIONI
www.comune.morterone.lc.it
Associazione Culturale Amici di Morterone
Tel. 338 1226110 0341 530461 acammorterone@virgilio.it
Tempo medio di visita secondo Arslife : 2 h ca. (poi vale la pena di rimanere, naturalmente)