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Un Capolavoro per Milano: Filippo Lippi

Filippo Lippi e Fra’ Diamante. Natività (Adorazione del Bambino) tra san Giorgio e san Vincenzo Ferrer (particolare) 1456-1457 circa. Tempera su tavola, 158 × 168 cm. Prato, Museo Civico

AMORE SACRO AMOR PROFANO

La Natività, Filippo Lippi
Filippo Lippi e Fra’ Diamante. Natività (Adorazione del Bambino) tra san Giorgio e san Vincenzo Ferrer, 1456-1457 circa. Tempera su tavola, 158 × 168 cm. Prato, Museo Civico
 

dal 16 novembre 2010 al 30 gennaio 2011, Museo Diocesano – Milano

 

Suonano corno e cornamusa. Cantano in coro schiere di angeli in cielo.
Il silenzio abita una terra arida, scavata da rocce a gradoni, di giottesca memoria.
La scena è immobile, come fermata nel tempo e resa innaturale da un silenzio profondo.
È il silenzio di Maria che prega, contempla e adora quel Bimbo, che è anche il suo Dio.
E il silenzio di Maria pare assorbire ogni cosa, anche il suono di corno e cornamusa, il Gloria degli angeli, la preghiera di Giuseppe, quella dei pastori e dei santi a lato.
A tale muta intensità corrisponde lo splendore di una luce speciale, che dal volto stupendo della Vergine discende al candore del Bambino e lì pare sostare come giunta alla sua meta. (*)

Filippo Lippi e Fra’ Diamante. Natività (Adorazione del Bambino) tra san Giorgio e san Vincenzo Ferrer (particolare) 1456-1457 circa. Tempera su tavola, 158 × 168 cm. Prato, Museo Civico
 

La Natività di Filippo Lippi, la profonda contemplazione mistica del Cristo. San Giorgio ammantato di rosa senza Drago a mani giunte, la Vergine in tutto il suo splendore in adorazione, il Bimbo che giace a terra sul manto di Lei che chiama con un gesto il calore della Madre, San Giuseppe seduto a terra raccolto in preghiera avvolto d’arancio e San Vincenzo Ferrer, monaco domenicano, unico a volger lo sguardo altrove, verso la mandorla fluttuante in cui Cristo è risorto, ad annunciare in silenziosa armonia il monito apocalittico Timete Deum quia venit hora iudicii eius, l’imminente fine del mondo.

Tutta la scena raccolta in una virtuale V che ha come fulcro l’Adorazione della Vergine nella candida e intensa luce dell’Amore. Il meraviglioso profilo di Maria, inginocchiata verso ciò a cui ha appena dato la vita, ci accompagna verso il Bambino a coglierne la passione, l’occhio segue la dolce linea luminosa che dal viso accarezza le spalle, passando per le delicatissime mani fino a giungere al gesto del Bimbo appena nato fasciato nel lino e protetto dagli angeli in cielo.

Filippo Lippi e Fra’ Diamante. Natività (Adorazione del Bambino) tra san Giorgio e san Vincenzo Ferrer (particolare) 1456-1457 circa. Tempera su tavola, 158 × 168 cm. Prato, Museo Civico

Filippo Lippi, frate domenicano pittore, scelse la sua amante Lucrezia Buti, suora del Monastero di Prato dove fu nominato cappellano nel 1456, e il suo primogenito, Filippino Lippi, come modelli della Natività conservata al Museo Civico di Prato ed esposta ora presso il Museo Diocesano fino al 30 gennaio 2011.

Un capolavoro di assoluta bellezza, dipinto con l’aiuto di Fra’ Diamante e Domenico Zanobi nel 1456, di commitenza domenicana simboleggiata dalla presenza sullo sfondo dal cane – i Domini canes, che osa mescolare sacro e profano di una vicenda meravigliosa in cui il miracolo dell’amore vero e profondissimo di una madre verso il figlio è sopra tutto.

 

Le precedenti opere esposte:

nel 2002, l’Ecce Homo di Antonello da Messina, prestito del Collegio Alberoni di Piacenza;
nel 2003, l’Annunciazione di Domenico Beccafumi, proveniente dalla chiesa di San Martino e Santa Vittoria di Sarteano (Siena);
nel 2004, la Cattura di Cristo del Caravaggio, proveniente dalla National Gallery of Ireland di Dublino;
nel 2006, la Sacra Famiglia con Sant’Elisabetta e San Giovannino di Andrea Mantegna, proveniente dal Kimbell Art Museum di Fort Worth in Texas;
nel 2007, L’Annunciata di Antonello da Messina proveniente dalla Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis a Palermo;
nel 2008, la Giuditta del Botticelli, proveniente dagli Uffizi di Firenze;
nel 2009, la Natività di Lorenzo Lotto, proveniente dalla Civica Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.
Milano, giugno 2010
 

Il Museo Diocesano di Milano

Il Museo Diocesano di Milano risponde primariamente alla necessità di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio artistico della Diocesi ambrosiana. Aperto al pubblico dal 5 novembre 2001, il Museo sorge nei chiostri di Sant’Eustorgio, parte integrante di uno dei più prestigiosi complessi monumentali di Milano, costituito dall’insieme unitario della basilica e dell’antico convento domenicano. Posto nel Parco delle Basiliche, Sant’Eustorgio confina con la Basilica palatina di San Lorenzo, contribuendo a valorizzare una zona di singolare importanza nella storia della Città.
La Collezione permanente del Museo, costituita da più di settecento opere comprese tra il IV ed il XXI secolo e giunte sottoforma di lasciti, depositi o donazioni, costituisce viva testimonianza della produzione artistica ambrosiana ed offre un interessante panorama del gusto collezionistico arcivescovile e privato.
Il percorso espositivo, ordinato secondo un criterio che incrocia l’asse cronologico con quello della provenienza, è articolato secondo alcuni nuclei: il primo è composto da opere strettamente connesse alla figura di Sant’Ambrogio, fondatore della Diocesi. Oltre a dipinti provenienti dalle chiese della Diocesi, il Museo conserva opere un tempo appartenenti alle prestigiose collezioni degli arcivescovi di Milano, come il Cardinale Monti e il Cardinale Pozzobonelli. Una sezione a parte è dedicata agli oggetti liturgici, la cui esposizione nelle suggestive vetrine dell’ipogeo offre la possibilità di apprezzare il primato degli argentieri lombardi in età antica e moderna.
Completano la Collezione permanente la donazione Alberto Crespi, nucleo di dipinti a “fondo oro” realizzati da artisti italiani del XIV e del XV secolo, e la sezione dedicata alla Collezione Marcenaro, depositata al Museo dalla Fondazione Cariplo, composta da sculture e dipinti databili dal XIV al XVII secolo.
Inoltre, intorno ad un primo nucleo di opere di Lucio Fontana, si sono accostate numerose opere del XX e XXI secolo, a testimonianza di un crescente interesse per la contemporaneità.
L’acquisizione di nuove opere, i restauri, l’organizzazione di mostre, la promozione di studi, convegni e conferenze rendono il Museo Diocesano un luogo di intenso e crescente interesse.
Ma il Museo non si ferma qui e molti sono i progetti per un futuro ormai prossimo.
Tra questi il più importante, proprio per il suo significato di apertura verso la Città, riguarda la ricostruzione del quarto lato del chiostro interamente distrutto dai bombardamenti del ’43. Un Concorso Internazionale di Progettazione Architettonica, conclusosi nell’ottobre 2007, ha portato alla definizione del progetto di ampliamento, grazie al quale il Museo avrà finalmente uno spazio da dedicare completamente all’arte contemporanea e che, oltre a completarne il circuito espositivo lo adeguerà a istanze innovative, derivanti dal senso di quella cultura dell’oggi che sta trasformando la Città, i giovani e il nostro stesso modo di vivere.
Il Museo è gestito dalla Fondazione Sant’Ambrogio; attualmente è Presidente l’Ing. Mario Brianza, Vicepresidente Francesco Baggi Sisini, mentre i Consiglieri sono Roberto Ruozi e don Domenico Sguaitamatti; del Consiglio della Fondazione è inoltre membro di diritto il Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, rappresentato in Consiglio da Mons. Marco Navoni. Il Direttore del Museo è il Prof. Paolo Biscottini.
 

Note storico critiche

Maria Pia Mannini
Conservatrice del Museo Civico di Prato

La tavola è frutto di una lunga elaborazione creativa; non nasce così come noi la vediamo: era più piccola e allungata, con la parte superiore terminante in una cornice centinata mistilinea. Il nucleo principale costitutivo era focalizzato sulla Madonna, sul Bambino e su san Giuseppe a guisa di tabernacolo. Strutturalmente il dipinto originale corrispondeva alle due assi centrali con le due traverse di sostegno soprastanti. L’aggiunta dei due santi laterali ha cambiato la sua impostazione da tabernacolo a pala d’altare, per cui sono state assemblate ai lati due assi uguali tra loro. La committenza domenicana aveva imposto un aggiornamento sul nuovo culto dedicato a Vincenzo Ferrer e gli aveva affiancato la giovanile figura del santo cavaliere di Cristo. Già al suo arrivo in galleria, nel 1867, era evidente lo stato precario della superficie, come se fosse stata sottoposta a un calore eccessivo, provocato non solo da cause organiche ma da un evento traumatico. Partendo dalla testimonianza del Vasari che vide l’opera in San Domenico a Prato, sappiamo che nel 1647 ci fu uno spettacolare incendio provocato da un fulmine che danneggiò il tetto ligneo a capriate e distrusse gli altari. In seguito la tavola venne trafugata dalle truppe napoleoniche (1810) e restituita ai frati nel 1817 senza clamore, infatti nel commento di Ferdinando Baldanzi alle opere del Lippi (1835) viene data per dispersa.
Il critico ottocentesco Cesare Guasti, su sollecitazione del padre domenicano Vincenzo Marchese, svolse delle accurate ricerche nel convento di San Domenico e questo è documentato da un carteggio dove annota che nel 1846 aveva ritrovato casualmente la tavola, aggiungendo che “fu male restaurato questo quadro, ma non però guasto, da un inetto del paese, e sta di presente nel refettorio. Ho pregato spesso questi Padri a levarlo di lì, e riporlo in chiesa, e spero che alla fine sarò esaudito”.
Nel 1867, dopo l’ultima soppressione dei monasteri, passò nella pinacoteca comunale dove venne esposta, nello stato originale, molto velata da colle e ossidazioni (Foto Alinari 10447), con un pesante intervento manutentivo di Domenico Fiscali (Brogi 14276; S.G.F. 95895 e 107516). Il Guasti descrive accuratamente anche le misure della tavola “larga braccia 2 e soldi 14 e mezzo e alta braccia 2 e soldi 11 e mezzo” che però non coincide con le misure attuali perché probabilmente era racchiusa da una cornice più larga. Secondo le indagini radiografiche, eseguite in occasione del restauro effettuato nel 1995 da Daniele Piacenti, nell’elaborazione della tavola inizialmente il Lippi aveva pensato di limitare l’opera al solo gruppo centrale, con un’elaborata cornice tricuspidale, ma successivamente aggiunse alla composizione le figure dei due santi, probabilmente per un mutamento nella richiesta dei committenti, e scelse per la tavola la dimensione quadrata della pala d’altare. Il soggetto del presepio tra san Giorgio e san Vincenzo Ferrer, scelto dai padri domenicani, si collega al culto con temporaneo legato al santo spagnolo, canonizzato solo a partire dal 1455 che presuppone una forte partecipazione popolare.
La tavola, ricordata dal Vasari (1568, ed. Milanesi 1906, II, p. 621, nota 2) nella chiesa di San Domenico, fu considerata tra le migliori opere dell’artista da Crowe e Cavalcaselle (Storia della pittura in Italia 1892, V, p. 178). Il van Marle ipotizzò una larga partecipazione di Fra’ Diamante, mentre il Berenson riconobbe di sicura autografia lippesca solo il disegno della testa della Madonna, del Bambino e delle mani di san Vincenzo. La testa della Vergine, nella sua elegante tornitura, ricorda il profilo della celebre Lippina degli Uffizi, con un’esecuzione più rigida e sommaria rispetto al disegno preparatorio del maestro. Già lo stesso Berenson (1938) pubblicò un disegno degli Uffizi (n. 152 E) raffigurante una testa di Madonna colta di profilo che metteva in collegamento con la nostra tavola, attribuendola a Fra’ Diamante. Il modello scultoreo e ben disegnato della testa della Madonna, ben più leggibile nella radiografia del dipinto, comunque lasciò un segno sulla generazione post-lippesca (Biagio d’Antonio).
Per Mary Pittaluga (1941) l’idea generale dell’opera è del Lippi, ma l’esecuzione e da ascriversi alla bottega e soprattutto a Fra’ Diamante, nel periodo in cui questi lavorava agli affreschi di Spoleto (1467-1469), sebbene appartengano al Lippi stesso le figure della Vergine e del Bambino che si ispirano alle celebri versioni della Natività affrescata nel duomo di Spoleto e alle Adorazioni, provenienti dal convento di Annalena e da Camaldoli, oggi conservate agli Uffizi e a Berlino, commesse dalla famiglia Medici. La tesi del Middeldorf (1957) che vedeva nella testa del san Giuseppe l’intervento del giovane Filippino è stata respinta per ragioni cronologiche, più coinvolgente supporre come il Ruda (1993) la collaborazione con il giovane Sandro Botticelli.
L’analisi delle opere dipinte nel periodo pratese del Lippi è indispensabile per chiarire questo metodo di lavoro allargato. Un apprendistato al disegno veniva riservato, in bottega, agli stessi allievi che sui supporti delle tavole disegnavano, a carboncino, dei volti e delle figure direttamente sulla preparazione di colla e gesso. Nel verso della tavola sono vergati in fretta studi di un nudo maschile, appena abbozzati a carboncino dagli allievi, secondo una consuetudine tipica della bottega per esercitare la mano.

 

Filippo Lippi. Note biografiche

Alessia Devitini
Conservatrice del Museo Diocesano di Milano

Nato a Firenze intorno al 1406 da una famiglia di modesta estrazione (il padre, Tomaso di Lippo, è un beccaio), Filippo Lippi rimane orfano in tenera età: allevato da una zia in condizioni di estrema povertà, già nel 1421 entra nel convento di Santa Maria del Carmine a Firenze, dove manifesta fin dall’inizio la sua vocazione artistica. Riporta infatti il Vasari che il giovane Lippi “ogni giorno su i libri de’ frati che studiavano, si dilettava a imbrattare le carte”, finché riceve dal priore il permesso di dedicarsi alla pittura. Già nel 1430- 1431 è ricordato dai documenti del convento quale pittore iscritto alla Compagnia di Santa Maria delle Laudi, la stessa a cui appartiene anche Masolino. Risale al 1431 l’affresco raffigurante la Celebrazione della regola carmelitana, originariamente nel chiostro del convento, che rivela chiaramente la formazione di Lippi, avvenuta secondo la tradizione nel cantiere della cappella Brancacci, proprio al Carmine, all’ombra di Masaccio, a contatto con le straordinarie novità pittoriche elaborate in quel momento dal geniale artista toscano. La sintesi nella resa dei volumi, la plasticità delle figure e il rigore prospettico caratterizzano infatti tutta la prima produzione dell’artista, come evidente in un’opera come la Madonna dell’Umiltà con angeli e santi carmelitani (Milano, Civiche Raccolte d’Arte). Oltre alla lezione di Masaccio, Lippi appare attento a tutte le novità della sua epoca, in particolare alla pittura di Paolo Uccello e alle inedite soluzioni formali elaborate da Donatello e Luca della Robbia.
Lippi lascia il convento fiorentino nel 1432: nel 1434 è documentato a Padova, dove risulta impegnato a dipingere il Tabernacolo delle Reliquie nella Basilica del Santo e altre opere, purtroppo non identificabili. Durante il soggiorno padovano l’artista viene a contatto, tramite la vicina Venezia, con la pittura fiamminga, di cui si rivela profondo conoscitore. Rientrato a Firenze, nel 1437 realizza su commissione di Giovanni Vitelleschi, arcivescovo di Firenze, la Madonna di Tarquinia (Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini), uno dei punti fermi del suo catalogo, in cui echi donatelliani e masacceschi si fondono con una minuzia descrittiva di derivazione fiamminga.
Già nel 1438, poco più che trentenne, Filippo Lippi è un artista affermato e molto richiesto sia a Firenze che fuori, come attesta la celebre lettera in cui Domenico Veneziano scrive da Perugia a Piero di Cosimo, definendo il Lippi un “bonmaestro”. Fra la fine del terzo decennio del Quattrocento e l’inizio del quarto, Lippi imprime una svolta alla sua arte, mettendo a punto una fortunata formula pittorica che durerà fino agli anni cinquanta, in cui attenua progressivamente il plasticismo di derivazione masaccesca in favore di forme più addolcite e lineari, non più sbalzate ma quasi avvolte da una luce trasparente e vibrante. Nasce così una serie di capolavori, a partire dalla Pala Barbadori realizzata per Santo Spirito a Firenze (1437-1439, ora a Parigi, Louvre) e dalla grande Incoronazione della Vergine originariamente in Sant’Ambrogio, sempre a Firenze (1439-1447, ora agli Uffizi), fino ad arrivare alla Pala del Noviziato (1445-1450, Firenze, Uffizi), in cui il pittore rivela una nuova attenzione ai modi dell’Angelico, in particolare per quanto riguarda le scelte cromatiche e luministiche.
Determinante per la carriera artistica di Lippi sono il costante favore e la protezione da parte famiglia Medici, dalla quale riceve anche una serie di importanti commissioni: fra queste, l’innovativa Adorazione del Bambino per l’altare della cappella dei Magi in palazzo Medici Riccardi (ora a Berlino, Gemäldegalerie), intenso e incantato punto di arrivo della Cavalcata dei magi dipinta da Benozzo Gozzoli sulle pareti della cappella stessa.
A partire dal 1452, in seguito al rifiuto da parte dell’Angelico, Filippo Lippi si accinge alla decorazione ad affresco del coro della pieve di Santo Stefano a Prato con le Storie di santo Stefano e di san Giovanni Battista, che lo terrà impegnato fino al 1465. In quell’anno riceve il saldo dei lavori insieme al collaboratore Fra’ Diamante dopo avere completato, con numerose interruzioni, l’ultima scena del ciclo, unanimemente riconosciuto dalla critica come apice della sua carriera. Proprio a Prato, dove nel 1456 Fra’ Filippo è nominato cappellano del convento femminile di Santa Margherita, avviene l’incontro con la bellissima monaca Lucrezia Buti, che poserà per lui prima nella Madonna della Cintola (Prato, Museo Civico) e poi, con ogni probabilità, per la celeberrima Madonna con il Bambino e angeli degli Uffizi. La scandalosa storia d’amore fra i due, che provoca grande scalpore fra i contemporanei, porta la giovane Lucrezia a lasciare il convento per trasferirsi nella casa del pittore, da cui avrà due figli, Filippino (1457) e Alessandra (1465). Solamente nel 1461 Filippo e Lucrezia sono sciolti dai voti monastici grazie all’intercessione di Cosimo de’ Medici presso papa Pio II.
Conclusa la grande impresa di Prato, nel 1466, Filippo Lippi è a Spoleto, dove lavora al ciclo con Storie della Vergine per la tribuna della cattedrale, affiancato dal figlio Filippino, allora undicenne, come apprendista. Qui Lippi, da tempo malato, muore nel 1469 e viene sepolto proprio nel duomo: sul suo sepolcro, disegnato dallo stesso Filippino, è inciso un commuovente epitaffio di Poliziano, che lo tramanda ai posteri come “gloria della pittura”.

 

 

INFORMAZIONI UTILI

UN CAPOLAVORO PER MILANO
La Natività con San Giorgio e San Vincenzo Ferrer di Filippo Lippi
Milano, Museo Diocesano (Corso di Porta Ticinese, 95)
16 novembre 2010 – 30 gennaio 2011
Orari: dal martedì alla domenica, 10.00 – 18.00. Lunedì chiuso
Biglietti: € 8,00 intero; € 6,00 gruppi; € 5,00 ridotto; € 2,00 scolaresche; € 5,00 possessori AmaMI card.
Martedì: ingresso € 4,00

Catalogo: Silvana Editoriale

 

*(P. Biscottini – Direttore del Museo Diocesano di Milano, Il tema dell’adorazione nella Natività di Filippo Lippi)

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