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IL MERCATO DELL’ARTE ALLA FINE DEL PRIMO DECENNIO DEL 2000: MA L’ITALIA DOVE STA ANDANDO?

Annata singolare per il mercato dell’arte “al tempo della crisi”.

In Italia il circuito complessivo stenta a riprendere quota benché in alcuni settori si difenda bene dopo alcuni anni di “stanca” registrata un po’ ovunque e un biennio che accusa lo shock dei mercati finanziari. Alcune case d’asta che costituirono una buona fetta del giro d’affari dell’arte chiudono o stanno per chiudere, confermando (oltre un’estrema disinvoltura finanziaria che evidentemente non fa parte del nostro DNA imprenditoriale legato all’arte) la poca confidenza culturale ed economica dell’homo italicus con il “passaggio di mano” delle opere, antiche o moderne che siano, e con la coscienza piena dell’investimento in cultura.

Il mercato dell’antiquariato, in crisi già da diversi anni, sembra quello più penalizzato fra i diversi generi “merceologici”. Colpa di una clientela sempre meno colta e del fatto che, con il mutare dei costumi, ciò che era di molto appetito (la ceramica settecentesca, il tappeto orientale classico, la ribalta genovese “doppio quadrifoglio”…) lascia il posto ad un modernariato più semplice formalmente e meno costoso (per ora, perché è sempre più in crescita e ci si sorprenderebbe a verificare valori equiparati per item fra arredi del ‘700/’800 e del ‘900). Ciò conduce, coerentemente, i possessori dei veri pezzi da collezione della nostra più pregiata ebanisteria a procrastinare eventuali vendite a tempi più propizi.

Sono rare, quindi, le aste davvero scintillanti; fra queste, le migliori (contro una tendenza “nordista” che durava da decenni) sono presso gli auctioneers di Centro Italia (Pandolfini e Babuino, principalmente), con l’ottima eccezione di Wannenes a Genova, che recentemente ha inaugurato un dipartimento dedicato ai tappeti e ai tessuti antichi.

E mentre l’antiquariato perde qualche colpo in attesa di momenti migliori, non così si comporta il mercato del quadro antico. Questo sembra favorito dalla contingenza che chiede solidi investimenti e dalla serietà con cui, dopo un paziente lavoro di ricostruzione di una facciata lievemente appannata dalla grande profusione di falsi nei primi decenni del secondo dopoguerra, il mercante e il collezionista affrontano il genere. Sarà perché il comparto sembra di per sé foriero di stabilità economica, sarà perché l’arte moderna e contemporanea – dopo una “sbronza” anche italiana da cui ci si riprende ora con qualche mal di testa – non ha retto veramente al colpo della crisi, sarà perché la nostra arte del passato, alla fine, è ancora in cima alla top-list delle coeve consorelle europee, sarà per quest’insieme di fattori che si registrano lusinghiere vendite sia in galleria sia in asta, in particolare da Sotheby’s e Christie’s, Dorotheum ma anche da Porro e Wannenes (specificamente dedicati al “ramo” e provvisti di una clientela di vecchia data e certificata frequentazione).

Emblematico esempio della tendenza all’Antico, in quest’ultimo scorcio di 2010, anche per altre considerazioni che mi stanno a cuore, è il risultato dell’asta della Collezione Alemagna presso Sotheby’s Milano lo scorso 19 ottobre, che sembrerebbe invece smentire quanto poco sopra affermato.

L’asta comprendeva una pregevole collezione di arte orientale che ha letteralmente sbalordito gli astanti nei risultati (100% venduto, con aggiudicazioni che superavano anche dieci volte la stima in catalogo) e un famoso gruppo di opere di artisti veneziani e italiani del ‘700, di cui un solo lotto (coppia di paesaggi di Francesco Zuccarelli, stimato € 150./200.000 e aggiudicato a € 228.750) è inserito nei topten prices dell’incanto.

In questa seconda tornata l’invenduto è stato rilevante, malgrado l’estrema qualità dei lotti con nomi come Zais, Giacomo Guardi, il Solimena e altri, fra cui spiccavano due vedute veneziane di Canaletto entrambi databili entro il 1738 e in perfette condizioni, di nobilissima provenienza e magnifica esecuzione (lotto 219, stima € 3./4.000.000 e lotto 220 stima € 1.5/2.000.000), un’Andata del Bucintoro verso San Nicolò di Francesco Guardi del 1780 ca. (lotto 221, stima € 1.5/2.000.000) e una bellissima Crocefissione datata fra il 1720 e il 1722 di Giambattista Tiepolo (lotto 218, stima € 600./800.000).

Questi quattro capolavori sono rimasti inesitati, benché – è certo – avessero già ricevuto interessanti offerte e la battaglia in sala si attendesse piuttosto accesa.

Per i due Canaletto e per il Bucintoro di Francesco Guardi si è abbattuta come scure la notifica, ossia la certificazione d’interesse dello Stato italiano, il quale, secondo la legge 1089 del 1939, impedisce l’esportazione di opere considerate di grande valore storico-artistico e, soprattutto, impone il diritto di prelazione per lo Stato alla vendita che deve essere nei passaggi successivi sempre esplicitata dalla Proprietà.

Per quanto riguarda i Canaletto – che non formavano coppia – la “punizione” fu ancor più pesante perché, per motivi impossibili da comprendere non essendoci alcuna relazione formale o storica fra le due opere, la notifica è avvenuta nella modalità “in blocco”, rendendo di fatto le due opere indivisibili sia per gli eredi sia per eventuali future vendite (ammesso che ve ne saranno). Sarebbe interessante conoscere le motivazioni scientifiche dell’assurdo provvidemento “coagulatorio”…

L’avviso di notifica è arrivato durante l’esposizione per i due Canaletto e appena prima dell’asta per il Francesco Guardi . Ogni interesse da parte di potenziali acquirenti, come per magia, si è dissolto e i lotti su cui il Venditore e la casa d’Aste contavano maggiormente sono rimasti al palo.

In merito, poi, alla Crocefissione del Tiepolo (un quadro di bellezza abbagliante) sembra facile attribuire la mancata vendita al timore di incorrere (mentre si sta strappando l’assegno, magari) in una più che plausibile, se non certa, notifica.

Eppure come si può pensare che la famosissima Collezione, con particolare riguardo alle opere ora notificate esposte ben più di una volta nel corso degli anni, fosse davvero ignota alle Soprintendenze? Dovremmo forse ritenere che i provvedimenti di tutela fossero, diciamo così, “accidentali”, o, peggio ancora, mirassero al “complotto” cercando deliberatamente di abbattere il mercato dell’arte antica in Italia?

La notifica impone la segnalazione di ogni possibile movimento dell’opera da parte della Proprietà per qualsiasi motivo alla Soprintendenza di riferimento (prestito per mostre e rassegne, restauri, cambio di residenza, ecc.), l’obbligo della conservazione al meglio e al sicuro, l’obbligo di permettere sempre e comunque l’accesso all’opera da parte di studiosi o ispettori delle Soprintendenze, l’obbligo di denunciare i successivi proprietari che avessero l’incauta idea di una futura acquisizione – spirati i termini di prelazione da parte dello Stato, che quasi mai interviene – corredata di prezzo di acquisto (per forza di cose, ben lontano dal valore reale di mercato, data la ristretta possibilità di vendita). Se uno qualsiasi di questi parametri viene a mancare anche parzialmente, la denuncia dello Stato nei confronti della Proprietà è penale.

Una bella rogna per colui il quale ha la “sfortuna” o, piuttosto, la “colpa” di possedere un’opera notificata, come s’intende in maniera poco subliminale nel provvedimento, nato in tempi in cui le Autorità tentavano di arginare la massiccia illegale spoliazione del patrimonio archeologico italiano, e ora chiamata perlopiù a limitare pesantemente e acriticamente la circolazione dell’arte nostrana, aumentata con il benessere più diffuso nei primi decenni della seconda metà del Novecento.

Questo cieco e vessatorio comportamento non solo ha un effetto devastante sul mercato ufficiale dell’arte (considerato irresponsabilmente di poco superiore a quello delle armi) per cui sarà favorita la “sotterraneità” delle trattative quando non l’illegalità delle stesse (e la colpevole perdita di preziosi dati documentali), ma soprattutto, e questo è il lato più grave, distrugge definitivamente il fecondo legame storico-culturale fra Ente Pubblico e grande Collezionismo che da sempre per l’Italia costituì il perno intorno al quale organizzare le strutture culturali e didattiche dei nostri più straordinari Musei. E non a caso, mentre in Italia abbondano i pubblici “contenitori” di arte antica (formatisi statalmente con le antiche collezioni per lo più tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento), latitano in modo preoccupante quelli di arte moderna e contemporanea.

Con l’Asta Alemagna una straordinaria collezione di arte del ‘700 che meritava giusti allori (e magari qualche accorto acquisto pre-vendita, contrattando prezzi di favore, da parte del Ministero, oggi tutto preso in altri sprechi) è stata letteralmente “smontata” da strali giunti, oltretutto, nel modo più spietato, cosicché si rese impossibile un qualsiasi piano B di vendita.

Perché le Soprintendenze si “svegliano” per colpire i privati legittimi proprietari a poche ore dalla gara pubblica, pur avendo avuto tempo a disposizione per trasmettere qualsivoglia loro necessità di verifica?

Comunicati stampa mesi prima dell’evento, cataloghi disponibili da settimane anche su internet, notizie di corridoio filtrate infiniti giorni prima di un incanto pubblico – perché per produrre la comunicazione di un’asta “normale” ci vogliono almeno tre mesi e per organizzarne una dedicata a una Collezione specifica le informazioni e le trattative partono almeno un anno prima della vendita.

Perché, con tutte le opportunità concesse oggi per essere edotti, dal primo addetto ai lavori al semplice curioso, aspettare l’ultimissimo momento per rompere le uova nel paniere?

E tutto ciò mentre, invece, il settore dell’arte antica – e lo ribadisco – si dimostra di buona sostanza e tenuta in momenti duri come questi. Anzi, potrebbe essere considerato un profittevole e lecito “bene rifugio” (questo comparto come in genere tutto il mercato dell’arte) con il conforto dell’indiscutibile hatù culturale e il pregio di favorire la conoscenza e non la cementificazione che, a fronte di una diminuita popolosità nazionale, non accenna ad arrestare la distruzione di abitati e paesaggio nelle nostre città e campagne.

Questo cruciale problema si intreccia con le considerazioni che esporrò relative all’andamento nel 2010 del mercato dell’arte del ‘900 e della contemporaneità, allargate all’interessante ribalta internazionale che funge da specchio (a volte “ustorio”) nei nostri confronti.

E’ un paradosso, difatti, che la nostra arte nelle Italian Sales di Londra e nelle aste newyorkesi abbia un successo come mai prima d’ora. I records si bruciano proprio nel 2010 per i soliti noti, che comunque trascinano anche una piccola parte dei meno famosi (una lieve battuta d’arresto registra, in Italia e all’estero, la Transavanguardia e Castellani, che pur proviene da un biennio scoppiettante). I nomi di punta sono Marino, Burri, Manzoni e naturalmente Fontana (cha fa ancora la parte del leone), ma anche Boetti, Merz, Kounellis, Gnoli (che sta prendendo il volo di anno in anno anche in Italia), Melotti e Paolini.

Il 14 ottobre scorso da Christie’s Londra un Cavaliere del 1951 di Marino Marini ha triplicato la stima iniziale fermandosi a GBP 4.465.250 (€ 6.900.000), nuovo record in asta per il nostro artista. Altri records per l’arte italiana in asta si registrano sempre a Londra da Sotheby’s il 28 giugno scorso: una magnifica Mappa di AlighieroBoetti è arrivata alla notevole cifra di 1.881.250 sterline; mentre Maurizio Cattelan straccia ogni aspettativa da Sotheby’s New York il 12 maggio di quest’anno con un’aggiudicazione mai ottenuta a quasi 8 milioni di dollari per il suo Untitled (l’autoritratto dell’artista che emerge da un buco nel pavimento).

Ma, in genere, sono molto lusinghieri tutti i risultati dei Nostri sulle piazze estere, tanto da far lievitare anche i guadagni complessivi delle Italian Sales rispetto al passato: Christie’s ha totalizzato 18,6 milioni di sterline (€ 29,3 milioni) il 14 ottobre scorso, il più elevato totale di sempre. Sotheby’s, il giorno successivo, 17,2 milioni di sterline (ca. € 19,6 milioni) con pochissimi invenduti; in quest’asta, il buon Due Donne che mangiano un Gelato del 1951 di Massimo Campigli (lotto 6, olio su tela, cm. 92×73, stima GBP 120./180.000) è stato conteso sino a raggiungere vetta 181.250 GBP (ca. € 213.750).

Questo risultato è indicativo di uno squilibrato confronto con la piazza italiana per lo stesso artista a fronte di un quadro assai più importante del testé citato “londinese”.

Da Christie’s Milano, il 23 novembre scorso, il bellissimo Campigli del MOMA del 1938 di simile misura, ma di qualità ben superiore, valutato più che correttamente € 300./400.000, ha raggiunto “solo” quota 290.600.

Si pone lecitamente la domanda: le selezionatissime aste di arte italiana all’estero avrebbero raggiunto in Patria i medesimi brillanti risultati?

La maggior parte dei capolavori in asta “straniera” dei nostri Maestri del ’900 (compresi molti Fontana, molti Burri e quasi tutto Manzoni che scompare nel 1963, per non parlare di quelli del periodo precedente) sarebbe stata oggetto di prevedibile notifica (la quale può essere esercitata per le opere ritenute rilevanti di qualsiasi epoca che hanno raggiunto i 50 anni dalla data di esecuzione).

Scontiamo oggi gli acquisti degli anni ’60/’80 dello scorso secolo. Per timore di veder “congelati” i nostri beni, non potremo più far circolare ufficialmente ed esportare la nostra migliore arte moderna, che già scompare (fateci caso) dalle aste nazionali e internazionali relative alla prima metà del secolo. Rarissimi sono i Morandi, che un tempo costituivano una solida certezza anche per la loro provvida certificazione. Quasi scomparsi i De Chirico importanti (rimane la paccottiglia degli anni ’60, che lasciamo volentieri a circolare senza costrutto). Di Balla e Boccioni si sente parlare solo se si tratta di opere minori (disegni, acquarelli, olii tardi – per Balla) o se provengono dall’estero (e lì restano).

In Italia, sempre più raramente giunge alla ribalta un buon Carrà (che pure è un grande!), un bel De Pisis (che meriterebbe fortuna sempiterna!), non parliamo di Sironi…

Eppure, la voglia d’arte è tanta e lusinghieri (benché ben inferiori a quanto si dovrebbe pretendere) sono i risultati di ciò che rimane pur sempre di qualità. Anzi, ci si scatena, quando si può.

Da Sotheby’s Milano lo scorso 24 Novembre, Morandi, con una tela non certo enorme del 1954, stupisce ancora arrivando a quota € 672.750 (stima € 450/650.000); il futurismo di Baldessarri è sempre più in ascesa, anche i bei fiori di De Pisis del 1930 raggiungono quota € 84.750 partendo da una base di 70/90.000; mentre sale finalmente l’Afro meno conteso degli anni ’40; e un bellissimo, vorticoso Tancredi del 1957, valutato 150/200.000 euro, tocca quota 240.750. Ottimi anche i valori di De Dominicis e Merz.

Ma assai diverso è il trend degli scambi nell’arte del XX secolo internazionale. Il 2010 è stato un anno di impensabili records quasi per ogni settore. E, poiché il volume di affari è notevolmente diverso dal nostro, si intuiscono bene anche le finalità speculative del collezionismo d’alto livello.

Si aprono le danze a febbraio nella sede londinese di Sotheby’s con gli incredibili 65 milioni di sterline che l’ Homme qui Marche I di Giacometti si aggiudica davanti a una platea entusiasta.

E si procede di record in record sino all’eccellente risultato nel Contemporary and Post War di Christie’s New York il 10 novembre scorso con il 93% di venduto e ben 5 records mondiali; mentre dalla concorrente Sotheby’s (sempre NYC), lo stesso giorno e nello stesso settore, il venduto sale al 90% dei lotti e i records investono ben tre artisti contemporanei americani: Cady Noland (1956), signora del ready-made dalle inquiete traversie che combatte con sarcasmo l’american dream e raggiunge con una sua opera quota 1.762.500 dollari; Larry Rivers (1923-2002) che con un bell’olio su tela di gusto Pop (French Money III) passa di mano a 1.142.500 dollari e la straordinaria Julie Mehretu (1970), dalle incredibili capacità “suprematiste/futuriste”, che vende il suo gigantesco The Seven Arts of Mercy (un’opera magnifica) per ben 2.322.500 dollari (ca. € 1.740.000).

Mi soffermo su Julie Mehretu, giovane artista di padre etiope e madre americana, la cui fulminante carriera (costruita anche con viaggi di ricerca in Europa – e si vede!) è stata raccolta e coltivata da gallerie come la White Cube di Londra e la Marian Goodman di New York/Parigi. Una sua personale si è appena chiusa al Guggenheim di New York, mentre alcuni suoi disegni si possono ammirare al British Museum (sino al 25.04.2011) insieme ad altri della British Collection. La sua arte poderosa e “antica” (e rivelatrice di nuove tendenze e corsi artistici!) sta conquistando mezzo mondo, e noi…

Noi staremo alla finestra, perché un Cattelan non fa primavera (anzi, per certi versi, sembra già far parte di primavere passate…) e, per uno che va e che non si può più dire “italiano” se non per l’anagrafe, gli altri – pur bravi – rimangono nella più buia periferia dove la nostra incapacità e la nostra insensatezza porteranno non solo la nostra arte antica, moderna e recente a rischio di naufragare nel sottobosco delle compravendite non ufficiali, ma toglieranno fiato anche a quella contemporanea che nessuno fuor d’Italia sentirà la necessità di scoprire – mancando continuità d’offerta, critica di rango e Musei -, se non per casuali motivi di speculazione e adattamento superficiale al ritmo delle danze altrui.

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