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Il Novecento a Milano – Parte II

Giorgio De Chirico, Bagni Misteriosi (i due nuotatori e il pesce) progetto del 1934 eseguito per i giardini della Triennale nel 1973 da Giorgio Macchi. Al Museo del ‘900 di Milano sono trasferiti gli originali del sito di Parco Sempione, ove sono sostituiti da copie insieme agli altri elementi del noto gruppo scultoreo
“TRILOGIA MILANESE”
IL NOVECENTO A MILANO

 Parte II – Legittimo Impedimento
(Visita al Museo del ‘900)
Giorgio De Chirico, Bagni Misteriosi (i due nuotatori e il pesce) progetto del 1934 eseguito per i giardini della Triennale nel 1973 da Giorgio Macchi. Al Museo del ‘900 di Milano sono trasferiti gli originali del sito di Parco Sempione, ove sono sostituiti da copie insieme agli altri elementi del noto gruppo scultoreo
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Quando, nel 1986, Teresita Fontana scrisse a una desolata Mercedes Garberi che il previsto lascito del grande Spazialista, defunto marito, non sarebbe stato più concesso alla Città di Milano, perché il CIMAC a Palazzo Reale era vessato da persistente inopia e non v’era più garanzia per conservazione e esposizione delle opere, la grande Direttrice riferì al sordo Comune: “Risulta alla Direzione che troppo spesso si penalizzano vistosamente le collezioni permanenti del Museo d’Arte Contemporanea nei confronti delle mostre e ciò è ancor più evidente essendo il Museo collocato nel medesimo edificio (e con le stesse entrate) dove avvengono le manifestazioni temporanee. Giustamente si rileva che il rapporto temporaneo/permanente dovrebbe mutuarsi con reciproco vantaggio… Come si pensa di rafforzare il potere contrattuale di un museo, gli scambi culturali con l’estero in una libera e paritaria circolazione della cultura, se il museo resta chiuso? E come si pensa di colmare le lacune delle collezioni pubbliche – che proprio dal mecenatismo privato traggono origine e vita, se collezionisti e artisti […] vengono clamorosamente indotti alla sfiducia verso un’istituzione che, appena nata, non può esprimere il proprio ruolo in una città che di museo d’arte contemporanea ne ha solo uno, quello di Palazzo Reale appunto, che resta chiuso?…” (Atti del Comune, DRA 16, faldone 111, 13.01.1986, Archivio Direzione Civiche Raccolte d’Arte, Raccolte Artistiche, Castello Sforzesco, Milano; brano riportato a pp. 33-34 del catalogo Museo del ‘900 – La Collezione, AA.VV., Electa, 2010).

Mercedes Garberi va in pensione nel1991. Alei succede, come si disse, Maria Teresa Fiorio, ma i problemi connessi alla vita del CIMAC, invece di essere risolti, si eliminano con brutale colpo di spugna, chiudendolo “per restauri” nel 1998 e mai più riaprendolo a una collezione permanente d’arte.

Il colpo di grazia è dato dall’assunzione da parte dell’Amministrazione Comunale di Alessandra Mottola Molfino (esperta di storia del costume e della moda, già direttrice del Museo Poldi Pezzoli, dove sarebbe dovuta rimanere per l’ottimo lavoro – solo là – effettuato) come Direttrice Centrale Cultura e Musei, Sport e Tempo Libero dal 1998 al 2006, la quale parcellizzerà in modo capillare e incosciente le competenze museali e sotto il segno di divide et impera condizionerà ogni movimento e circolazione delle idee e delle opere a Milano.

La Molfino, poco sensibile alla necessità primaria di costituire un museo espressione della milanesità colta e produttiva, non si distingue neppure per promuovere lo sviluppo del circuito civico museale nel suo insieme e inibirà di fatto i residui legami con la cultura privata cittadina e con i collezionisti, avversandoli fortemente in un’ottica da burocrate arroccata e diffidente verso l’ “esterno” (qualsiasi esso sia).

Alle difficoltà di ripresa post-Mani Pulite, si somma un atteggiamento di parte pubblica a volte addirittura ostile nei confronti del cittadino. Milano perde così – in modo sino ad oggi irreversibile – quel legame fondante fra forze pubbliche e private che costituiva la prima caratteristica di appartenenza ad una delle comunità culturali più vivaci d’Europa e del mondo.

A Maria Teresa Fiorio non resta che individuare una nuova sede per il Museo-che-non-si-fa, anche perché durante i restauri di Palazzo Reale la scoperta di “decorazioni originali” in un’ala del complesso permette ai già agguerriti fautori del “temporaneo” di opporre che il Contemporaneo non potrà mai essere dislocato in una sede di tali caratteristiche, in ciò contraddicendo la realtà della stragrandissima maggioranza degli italici siti d’arte (e poi: dove collocare la moltitudine moltiplicata a dismisura di burocrati della cultura, ormai stabilmente insediati nelle auliche stanze del Piermarini?).

Palazzo Reale in Piazza del Duomo diventa, contro ogni buon senso, il tempio dell’ “appalto”, perché, se non si possono concedere studiosi e curatori per costituire un forte pool d’intelletti sotto l’impetuosa guida di Mercedes Garberi, come potrebbero essere assoldati per operazioni così effimere (ma così “fruttuose”) come le mostre temporanee? Meglio, quindi, considerare il grande complesso come una poco nobile cassa per far quadrare i magri bilanci. Vedremo nella III parte di quest’amara trilogia come verrà istruito questo particolare fattore amministrativo che determinerà la squalifica della cultura pubblica milanese delle rassegne d’arte (fatti salvi alcuni rari, luminosi esempi).

Ancor oggi cantiere permanente, assimilabile per contiguità e destini alla fabbrica del Duomo, Palazzo Reale dovrà, comunque, essere “affettato” di un buon pezzo per ampliare gli spazi muziani del Museo del ‘900 di Italo Rota, del tutto insufficienti per l’esposizione dei cospicui donativi di cui già trattai.

E si parli, allora, del Museo del ‘900.

Legittimo è pretendere un Museo d’Arte Moderna a Milano, ma impedimento al progetto sembra proprio la scelta della grandiosa struttura (due piani altissimi tutti vetrate e luce diretta) dell’Arengario, quanto di più lontano per rispettare i criteri di base per esposizione e conservazione di opere del XX secolo, tele e sculture, bisognose di tante pareti, spazi non angusti e luce calibratissima perlopiù artificiale.

Legittimo è finalmente godere delle opere straordinarie (sono solo una parte!) delle collezioni milanesi, ma impedimento all’osservazione corretta è l’oggettiva impossibilità logistica di formulare un facile percorso, benché di tutto sia stato fatto per costruire una direttrice intellettuale che guidi il visitatore: è talmente raffinata da non essere a volte percepibile, e questo, ogni tanto, esaspera e confonde. Ma la linea “rossa” – grazie al cielo – c’è, e ben presente.

Il Comitato Scientifico mi piace e mi conforta. Non conosco Marina Pugliese,la Direttrice, ma ho letto alcuni suoi scritti anche su questioni di restauro e conservazione – ottimi -; conosco invece Flavio Fergonzi, per me, in assoluto, il più grande esperto del ‘900 italiano (e più), raro esempio di come il cervello, se eccezionale, non può non emergere, malgrado l’innata ritrosia del Nostro e la tiepida sensibilità delle Istituzioni nei confronti dell’eccellenza. Confido immensamente nella sua scelta attenta e coltissima. Le premesse scientifiche sono buone e, anche se qualche nome è di obbligata circostanza, non desidero far torto a nessuno dei non nominati del gruppo.

Attendo quindi pazientemente che l’orgia di visitatori (complice l’ingresso gratuito sino al 28 febbraio 2011) scemi almeno un poco e mi reco in Piazza del Duomo un tiepido lunedi pomeriggio di febbraio non senza munirmi di amica architetto, giusto per avere un punto di vista tecnico sull’impresa di quell’Italo Rota famoso per l’amicizia di lungo corso con lo stilista Roberto Cavalli, per cui progetta alcuni show-room e un’avveniristica residenza dai colori fluò sulle colline di Firenze (della quale è scritto che “non cedette a tentazioni mimetiche”…) e per allestimenti non proprio sobri di alcuni alberghi di lusso della linea Boscolo. L’amica architetto mi dice che, da qualche tempo, egli è molto in voga anche fra la borghesia milanese, di cui – non c’è dubbio –la Signora Morattiè Prima Rappresentante. In ambito di progettazione museale si ricorda la sua collaborazione, ad inizio carriera, per la ristrutturazione del Musée D’Orsay con Gae Aulenti negli anni ’80, progetto che non amo particolarmente.

Ma l’Arengario è l’Arengario, per Diana. Come dire: saranno anche andati a dama, ma come si può cavar sangue da una rapa (con il massimo rispetto, anzi proprio in virtù di quello, per il Muzio)? Così rimuginando, mi metto in coda alle 14.35 (apertura il lunedi: 14.30). Perché la coda c’è anche oggi… e non posso che esserne contenta.

Mentre mi avvicino all’ingresso, noto che la famosa salita a spirale, che appare sinuosa nei renderings dei siti di presentazione del progetto del Museo, è ingabbiata all’esterno da una sorta di maglia romboidale di acciaio e vetro lievemente a éntasi. Mi ricorda l’infame suppostone (la “Gherkin” Swiss Re Tower) che Norman Foster ha eretto dileggiando lo sky-line di Londra.

Cancello subito l’immagine infausta. Anche perché, qui, la supposta “supposta” non svetta libera nell’aere ma si innesta nella volta in marmette del portico muziano, che fu tagliato per l’inserimento, e la metafora si fa troppo ardita.

Dietro ai vetri a rombo, a quota piano terra, è la porta di un ascensore che immaginiamo per disabili o funzionari. Ma ne escono, in gruppetti di due o tre a corsa, arzilli giovanotti – o sedicenti tali – ben pettinati, cachemirmente sciarpati, occhialati alla moda, con cappotti cammelluti, abbronzature al minimo sainktmoritziane, in uno sfavillar d’IWC dal polsino. Non sembrano essere dell’etnia “direttori di Museo” o affini, né, tantomeno, disabili. Non capisco. Ma capirò.

Entriamo. A Foster è abbinato un Wright de’ noantri che non mi convince, anche se tutti si affannano a fotografare gli scorci che piacciono tanto alle riviste di settore (e anche a me, dato che anch’io eseguo il rito…).

La luce azzurro-verdina da acquario ci accompagna lungo la piacevole salita verso l’alto. Incontriamo l’elegante book-shop e la sede per la didattica (assai ben concepita). Guardando in basso, ammiriamo, al livello sotterraneo che congiunge la linea della metropolitana al Museo, l’installazione di parte dei Bagni Misteriosi di De Chirico che effettivamente ben si sposa con l’insieme.

A metà elicame, dove pensiamo sia l’ingresso alle sale espositive, ci fermiamo in un piazzuolino piccolo-piccolo, fortemente strombato, al cui fondo è incastrato il povero Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (carpito alla GAM), che qui – davvero – non ha senso di essere, non solo perché è illegittimamente costretto e illegittimamente solingo, ma anche perché è illegittimamente posto ad apertura del XX secolo, cui non appartiene. Non si vede bene ed è estraneo al contesto naturale, perché l’elicona non si collega al Museo.

Difatti, la mistica ascesa porta a nulla. O, meglio, conduce solo al ristorante, non proprio popolare, quindi non “da” Museo, Giacomo Arengario (ecco svelato il mistero dei gruppi di giovani dandies al piano terra: transumanza post-lunch…). La salita è al servizio del risto-club arredato (in ulteriore scarto stilistico) con gusto pessimo da Roberto Peregalli che, malamente mongiardineggiando, ha accatastato un’improbabile visione del déco mittel-europeo a un geometrismo pseudo-orientale dei vetri serigrafati e delle pannellature laccate nippon-china (che fanno tanto club coloniali a Shanghai…) condito in salsa italica: colonne diroccate come neanche Andlovitz sui piatti Lavenia, tessuti bronzei in tramatura a fili lanciati, echi della Murano di Zecchin e Martinuzzi…

L’amica architetto mi conferma che anche il Peregalli è assai amato dalla Milano-bene. E tanti appartamenti privati meneghini sono acconciati in tal guisa. Alla faccia del minimalismo di cui si dice chela Cittàè condottiera. 

Le simil-colonne “ruinate” in plexiglass all’interno del ristorante Giacomo Arengario, Museo del ‘900, Milano (progetto e arredi di Roberto Peregalli e Laura Sartori Rimini)

Lo ammetto, la vista è notevolissima. Anche se della Piazza, vista da quassù, amerei per una volta espungere il Duomo, il quale – senza offesa per la tradizione e l’affetto dei più – è davvero una delle cattedrali più brutte della storia dell’arte e dell’architettura. Però, poiché non posso cavarlo come fece Robert Gligorov in un suo famoso scatto (che, infatti, rivela la bellezza dell’area e delle palazzate libere da quell’ingombro), questo ben volentieri mi tengo. Perché l’insieme è bello.

Legittimo sarebbe pretendere che quella salita fosse funzionale al Museo, impedimento è la pacchiana grandeur a cui certi milanesi non rinunciano, sfruttando l’unico salotto buono a disposizione, ma limitandone la possibilità d’accesso: se vuoi restare, mangia (e te lo scrivono anche)! Poiché una spremuta d’arancia costa 5 euro, comprendiamo che tutto quell’inopportuno decorume non è lì per gli studenti, né per gli studiosi, né per le famiglie, né per i turisti…

Legittimo sarebbe attendersi che un nuovo, importante, attesissimo Museo d’arte nella seconda Città d’Italia contempli anche un punto di ristoro a prezzi adeguati al turismo culturale (e non al manager a inizio o fine carriera…), come ovunque in Italia e Europa e nel mondo si fa; impedimento a questo servizio, indispensabile per la buona conduzione di un centro di cultura, è l’incolta cecità di una classe dirigente che predilige l’apparire all’essere e che non capisce che questa è un’occasione per il riscatto di una metropoli che toglie molto a chi vi abita e dà poco in cambio (un’occasione per i giovani, per gli studiosi di tutte le età, per la didattica di scuole pubbliche e private, per l’educazione dei cittadini e per la loro aggregazione), preferendo appaltare un sito prezioso, nato per la collettività, al consueto glamour trito e bolso che connota esizialmente il volto di una Milano stanchissima di se stessa. Con buona pace del ristoratore del Giacomo Arengario (terzo della catena “giacomesca”) contro cui nulla ho. E dove, un giorno, sempre che riesca a costringere i miei piedoni alle vertigini di un tacco 12 (o almeno 8) e superare l’acciottolìo del sagrato del Duomo e dell’antingresso a Palazzo Reale senza srotularmi, passerò a gustarne le specialità i cui nomi in menu spero vivamente non mi irritino. Oppure preferirò servirmi del confortevole car valet che il ristorante offre alla sua aulica clientela, acciocché, comodamente giunta alla méta in automobile, altri si occupi del mezzo per impedire il rovinìo delle signore, instabili altrimenti, nelle loro (magnifiche) Louboutin.

Ma l’ingresso al Museo dov’è?

Dobbiamo tornare al piano terra e imboccare il lato opposto rispetto a quello che a noi sembrò più logico. E mentre ripercorriamo le nostre peste, ci accorgiamo che in certi punti il “fusillo” è un po’ compresso, bassino, talché la mia amica (non certo watussa, ma architetto implacabile) riesce a toccare con la mano la rampa superiore. Non dovunque, ogni tanto; ma ciò basta a farci dire che c’è anche qualche sbilencume di troppo.

Però siamo invelenite e quindi – forse – non facciamo testo.

Bene, si comincia. Al primo livello entriamo nella Sala, lunga e altissima, delle Colonne, dove all’inizio del budello riposano i capolavori delle avanguardie internazionali della Collezione Jucker, ma riposano affastellati, in una nicchia lilla smortissimo, ricavata a bow-window nell’impossibile planimetria dell’area, altissima, algida, con le colonnone in mezzo che impediscono il movimento per osservare da giusta distanza le opere.

L’incredibile “selvadego” Picasso, Les rue des bois del 1908, appartenuto a Leo e Gertrude Stein, è schiacciato in una paretina fra altri capolavori di Braque, Kandinskij, tre ritratti di Modigliani da brivido (di cui la Rosa Porporina passò fra le mani di Vittorio Emanuele Barbaroux), la strafamosa Natura Morta con la Palla di Morandi del 1918: chi si accorgerà di lui (e degli altri) e della sua cézanniana ma più tenebrosa bellezza?

Il colore alle pareti nel corridoione colonnuto (un bégiolino-pappetta-di-semolino che declina in un lato verso un tortora-spappolata) è orrendo, incompatibile con la sala monumentale, incompatibile con la lunga straordinaria teoria di opere di Boccioni e della storia gloriosissima del Futurismo nei suoi più magnifici e ruggenti esordi. Tutto si perde…

Il pubblico compìto si spintona mormorando pardòn, ma non riesce a vedere le opere infaustamente illuminate, talché il vetro riflette sempre, obliquo, l’opacità del proprio sembiante.

Il Rota (o chi per lui) concepisce l’apparato didattico dei quadri quasi fosse un gioco da – come diavolo si chiamano? – negozi monomarca che appaiono per poche settimane poi svaniscono nel nulla; ah!, certo: temporary stores. I cartellini in corian (si fa per dire, sono enormi, ma non servono a nulla) recano due/tre dati essenzialissimi: autore, titolo, data, collezione di provenienza (se va bene, sennò: ciccia…); tecniche, dimensioni e dettagli sono lasciati all’inventiva del visitatore. In qualche caso importante, c’è fortunatamente l’intervento dello studioso con una breve ma sempre ben fatta nota. I cartel-corian sono incistati in una feritoia bassina (bisogna chinarsi anche dall’altezza non esagerata del mio metroesettantadue) che segna a marcapiano le pareti, le poche notiziole sono scritte chiare chiare: saranno anche eleganti, ma le diotrie in difficoltà si perdono nel biancore. Tanto, comunque, c’è poco da leggere.

Ed ecco quindi Boccioni, tutti i suoi Dinamismi, la Carica di lancieri del 1915, le teste dinamiche per cui contende a Picasso (e, io aggiungo, Sironi del medesimo periodo) la più grande vitalità e capacità di ritmo della scomposizione cubista dei piani. Il Futurismo si snoda elegantissimo, con i suoi Balla migliori, spesso confinati dietro una quinta inevitabile per definire gli stadi del percorso, fra una colonna e un grumo di persone. Automobile+Velocità+Luce del 1913 è forse il più fulgido esempio in acquerello della maestria plastica del Nostro intorno a un tema portante della poetica futurista. La Chahuteuse del 1912 di Severini piroetta in tre direzioni differenti, segmentandosi e segmentando lo spazio che la circonda, pur rimanendo in asse centrale, in un miracolo di “staticità centrifugata”. Contro la sua levità, le forme pesanti, geometriche, scomposte e gioppinesche della splendida Ballerina di Sironi di sette anni successiva, che sembra indifferente ai richiami futuristi, occhieggia un’arte metafisica costituita più di pesantezze che di sonnolenze, celebra il collage per rendere ancor più tridimensionale e greve la figura e il suo complesso perimetro di solidi in movimento.

Il percorso è perfetto . Perfetto. Da manuale. Ma le tele faticano: viene in mente la vastità delle sale boccioniane del MoMA di New York che, sempre stracolme di pubblico, permettono la vista sin nei particolari di ogni opera.

Morandi è uno strazio per il cuore: inserito a cavacecio, come dovesse essere lui a venir traghettato e non noi a meditare davanti alla sua grandezza, nel gomito di passaggio da un livello a un altro. Il sublime Paesaggio del 1913 che i collezionisti scemi disdegnano, racconta di un tradimento e di un amore per Cézanne tanto evidente quanto poi, almeno sulla carta, contestato. Ma non si vede perché è impallato dalla luce delle aperture sulle scale mobili che recano al piano superiore. E’ difficilissimo allestire Morandi (e la mostra al MAMBO di Bologna di due anni fa lo fece ben capire), ma qui, con immane sforzo, ci si riesce. Sono raccolti alcuni capolavori delle Collezioni Jucker e Boschi Di Stefano e la Natura Morta del 1949, abbacinata, con quell’asticella, coltelluzzo fino, che rinserra le forme dal basso: opera strepitosa che chiude un’area magnifica, del tutto privata del páthos che meritava.

Per De Chirico la sorte è ancora più infausta, perché è collocato in uno di quei “ballatoi” di passaggio fra una rampa di scale mobili e l’altra che impedisce – ingombro com’è di elementi estranei – di osservare le non piccole tele, fra le quali luminosa e potente emerge Il Figliol Prodigo del 1922. Le pareti, poi, si schiariscono oltremodo, e fra scale, vetri e vetrate, elementi in acciaio, porte che si aprono nel buio, è davvero difficile mettere a fuoco le opere.

Le scale mobili. Necessarie per collegare gli inventati livelli di esposizione nel parallelepipedo bi-piano di Muzio, sono ingombranti (anche se mi piacciono, per la verità), saltan fuori quando meno te l’aspetti e mi ricordano quando andavo da piccola con mia madre nei magazzini Coin (che in veneziano si dice Coìn, ed è corretto così…) di Corso Vercelli: fra una rampa e l’altra c’era sempre un’area in cui erano posti alcuni manichini con la merce in evidenza. Poi mi sovviene che a pochi passi dal Museo del ‘900 sorge la Rinascente, simbolo milanese del consumismo di massa, e temo che il Rota (condizionato dalla sua eterna contiguità con il merchandising) abbia volutamente rimarcato il gemellaggio con l’opposto emblema culturale della Città. Sono indispensabili, sono anche niente male, ma rubano spazio preziosissimo all’esposizione e aprono luci, riverberano immagini, creano movimenti che mal si accoppiano con i silenzi dechirichiani (e con la visione di ogni altra opera conservata negli sguinci di passaggio e raccordo fra le comode salite/discese). Ma mi rendo conto che questa fu una soluzione forse obbligata.

In un’altra di queste quinte-da-esposizione sono piazzate alcune opere di Martini intorno alle quali non si può girare, per le quali non è dato apprezzare la bellezza di alcune invenzioni. Il bellissimo Torso di giovanetto del 1929 è addirittura installato in un angolino minimo, in modo che di esso non si riesca a percepire la bellezza, e il lato, che i cafoni oggi chiamano A, svuotato della sua anima, scucchiaiato del corpo: una delle opere più belle del Museo.

Al secondo livello , finalmente più consono malgrado i coloretti tenui da primavera di ubriachi, si dipana ordinatissima e chiara la storia del Novecento italiano e dei suoi maggiori Movimenti fra le due Guerre (dal Realismo magico al Ritorno all’ordine, dal Primitivismo e Arcaismo alla Scuola Romana…). Carrà, Casorati, Donghi e Funi, il Guidi de La Visita del 1922-27 (mi piace immensamente questo periodo fuori luogo e tempo di Guidi, che fa personaggio a sé, nonostante tutto), la teoria di ritratti borghesi e figure iconiche dall’Antico che tutte si ritrovano nella misteriosa Figura di Sironi dall’incerta datazione (1918-1928) di provenienza della collezione Giussoni acquisita dalle Civiche Raccolte nel 1932. Io propendo per la datazione tarda, a causa della fisicità già mobile della figura e della sua impostazione di tre quarti, lievemente contratta. Ma ha ben poca importanza… sembra un nipote nobile di Giorgione.

Dopo i ritratti, i paesaggi: uno più bello dell’altro. Ancora Morandi, Rosai, Carrà, Sironi, Soffici… Qui lo spazio tiene bene, le quinte sono ampie, il passaggio è semplice e agevole anche per la mente. C’è quel bellissimo Luglio di Tosi del 1928, presentato alla Biennale dello stesso anno, che intriga per la quantità infinita di linee prospettiche e la sapienza di composizione nel solco pieno della tradizione post-impressionistica francese, ma assai più avanti di questa.

Poi ancora i Monumenti, con Martini, Sironi e la sua potente Cariatide intrappolata nella pietra come i Tetrarchi dell’angolo estremo della Basilica di San Marco.

Si passa quindi all’Arcaismo di Campigli che con un Ritratto (che il collezionista scemo cugino del primo decide essere inferiore alla produzione principale) di Achille Funi del 1931 mostra come tecnica e stile, poetica e talento tutti convergano a ossequiare in forma di affresco calcinato la forza dei primordi dell’arte italiana in cui molti degli artisti colti della Sarfatti si ritrovarono dopo la fiammata dei Futurismi. Poi ancora la libertà dei post-impressionismi di scuola veneto-padana di Del Bon e De Pisis (per il quale è meglio recarsi a Casa Boschi Di Stefano) e il richiamo della classicità delle origini con Mafai, Marini e la sua etruscheggiante Couple del 1929, il primissimo Fontana delle sculture auliche che già, però, rompono le righe…

Quindi la Scuola Romanadi Mafai, Scipione, Ziveri, Guttuso sino ad arrivare al realismo di Pirandello che diventerà sempre più essenziale e giungerà sin quasi alle soglie dell’informale.

Il fatto che questo piano sia il più riuscito è dimostrato dall’ottima chiusura che anticipa l’astrazione, ma non pare una cesura così forte con il passato, delle sculture razionaliste di Melotti, un gruppo preziosissimo costituito negli anni ’30 durante il soggiorno milanese del grande roveretano. La Scultura n. 16, poi, anticipa la rivoluzione che presto arriverà con lo Spazialismo fontaniano, ma soprattutto si attesta tridimensionalmente nell’area di quell’altro unicum nazionale che è Licini. Oltre Melotti, l’arte del Nord Italia assurge a paradigma con Carla Badiali che ancora attende un riconoscimento che, forse, se non si coltiva l’arte e la cultura come si dovrebbe, non arriverà mai. Con lei partono verso l’astrazione i comaschi Rho e Radice, intrappolati nelle maglie dei loro tessuti serici, per i quali studieranno formule che portano a soluzioni estetiche più alte di qualsiasi altro genere europeo del razionalismo astratto. E poi, per l’appunto Licini e lo strano Soldati, attratto dalla forma, ma ammalato di linee spezzate e divisioni in campiture in perfetta giustapposizione.

Si giunge infine alla vera perfezione dell’ ultimo livello, il terzo , tutto dedicato a Fontana e a riparare quel lascito che la povera Garberi si vide sfilare nel 1986 per l’ignavia della Milano di quegli anni.

Inutile barare: la bellezza e la qualità delle opere sono assolute. L’allestimento è impeccabile, anche se un poco piacione e appena manchevole solo nella non comodissima scalinatella laterale al cubo superiore, finalmente oscurato, che ospita una serie di opere superbe, fra cui spiccano (Concetto Spaziale) La bara del Marinaio del 1957 e Concetto spaziale. Attese del 1959 (13 tagli su una superficie di cm. 97×130). Quasi tutte le opere qui sono della Collezione Boschi Di Stefano, testimonianza di un’imparagonabile capacità di scelta, di un occhio senza cedimenti, di un merito di cui bisognerebbe essere orgogliosi, anche solo di riflesso.

Si arriva a quell’ultimo divino livello anticipato dal Soffitto Spaziale concepito da Fontana per il Grand Hotel del Golfo di Procchio (Isola d’Elba) nel 1956 in collaborazione con l’amico architetto Osvaldo Borsani. L’opera, per l’impossibilità della perfetta conservazione nel sito originale, giunge al Ministero per i Beni Culturali grazie all’interessamento della Fondazione Fontana nel 2002; indi segue un lungo periodo di restauri da parte di Cristina Vazio e Barbara Ferriani, che completeranno i lavori nel 2007. Nel 2010 è rimontato all’interno (e in omaggio) del Museo del ‘900. Un gran bel colpo! Che fa il paio con l’installazione a soffitto della notissima Struttura al Neon per la IX Triennale di Milano del 1951, fortemente voluta dall’amico Luciano Baldessari che progetterà l’ultima grande mostra incompiuta dello Spazialista sulla Natura a Palazzo Reale di cui esistono ancora i bozzetti e per cui ogni tanto si tenta una ripresa espositiva.

Alcuni diranno che la “camera oscura” sarebbe più consona a queste prove. Forse è vero. Ma l’ambiente finalmente libero del Muzio con le grandi vetrate cupe e monumentali su Piazza del Duomo conferisce una drammaticità che non toglie forza (anche se ne vira sicuramente il significato primo, ma qui – mi dico – chi se ne importa) all’opera dal segno grafico che apre al gesto puro, ma solido. Alla necessità di andare oltre la quarta dimensione (quella dell’arte, per Fontana, dopo le tre dell’architettura), segue l’obbligatorietà di lasciarne traccia. Il Nostro sarà anche padre dell’astrattismo, ma nessuno è – fra i cultori del genere – più concreto di lui, che ragiona in forza di volumi, di spinte e controspinte. Un matematico, innamorato della fisica, innamorato dell’arte.

Fra tanta bellezza, ammiro senza darmi pace una vera “chicca”, anch’essa uno dei must del Museo: una Deposizione in ceramica di Albisola del 1955 che assicuro basterebbe essa sola a far gridare al genio (anche ceramico) di Lucio Fontana. Anche avesse eseguito quest’unica opera di barbottina finita nell’invetriatura…

Si arriva quindi, lasciato l’empireo, alla sezione forse più affascinante, nella sua acerba incompletezza, quella della stagione dell’Informale, con ottimi Burri degli anni ’50 che colpiscono per la loro eleganza e per le risorse modernissime da cui ancora si riesce a trovare ispirazione e dell’arte milanese degli stessi anni con Dova, Crippa, l’ottimo Chighine (per me assai meglio dei primi due più celebrati), con una scultura bellissima di Milani (Valori Ascensionali del 1953-54) e infine un immancabile Morlotti in uno dei suoi Paesaggi di Imbersago del 1953 più belli e materici, con i colori e i tratti della tradizione lombarda a cui guarderà anche la contemporaneità di un Frangi alla ricerca delle proprie origini.

Nella stessa sezione, la Accardi spadroneggia con una Grande Integrazione del 1957; e ancora, andando verso il Centro Italia, il segno di Capogrossi, Consagra e Dorazio (magnifico il suo Stream of tenderness del 1958). Kounellis che dà corpo all’immaginario del Museo con la sua grande Rosa Nera del 1966.

Poi, finalmente, i segni poetici di Novelli (molto bello ne Il Re delle parole del 1961) e quelli ancor più intellettuali ma forti e convincenti del Perilli prima dei “fumetti” che incide i suoi grafemi nella polvere di marmo mischiata al vinavil, negli stessi anni in cui Scarpitta, all’incirca, esprime i medesimi sentimenti compositivi attraverso le sue strette bende, organizzate in modo così lontano dalle allegorie di Burri.

Poi campeggia un Tancredi che lascia senza fiato e che ci fa dire che siamo solo all’inizio del nostro dovere di portare l’arte italiana nel mondo: un Senza Titolo del 1954-55 che parte dalla sua prospettiva decentrata per esplodere nei colori e nei segni perfettamente ordinati in un linguaggio di pura astrazione.La Mehretu che, quarantenne, oggi strappa urla di (giusto) entusiasmo, ha senz’altro visto (oltre ai diversi italiani di cui si pasce normalmente) più Tancredi che l’Espressionismo astratto statunitense e ne ha tradotto la lezione in una forma contemporanea ma devota alla purezza del nostro colto rigore.

Meno interessante, forse perché ancora da costruire, la sezione dedicata a Manzoni e al gruppo Azimuth: le opere pur buone del Milanese e di Castellani, Dadamaino e Bonalumi sono troppo esigue per rendere appieno quel grande periodo dell’arte che invece oggi il mercato premia più di ogni altro.

Ma a questo punto si entra nel settore aperto per necessità in un’ ala di Palazzo Reale , dedicato all’arte che non supera idealmente gli anni ’70 dello scorso secolo. Qui si vede che il deposito è ancora da costruire e perfezionare, sia nella quantità sia nella qualità delle scelte.

Tuttavia, la prima parte che illustra il complesso capitolo dell’arte cinetica è ancora molto buona, con le prove di Boriani, Alviani, Colombo (il migliore), Mari e Munari e l’ottima Varisco con tre lavori dei primi anni ’60 (fondamentali perché già aprono all’evoluzione che avrà la sua arte) insieme ad altri.

Entrare in Palazzo Reale (attraverso una sorta di corridoio vasariano fra i due corpi di fabbrica, che mi è molto piaciuto) fa comprendere quantola Garberi, se ancora restava il minimo dubbio, avesse ragione: qui sembra davvero di essere in un Museo, in uno spazio che avrebbe tutto il diritto di ospitare più razionalmente ciò che sino ad ora avevamo visto costretto, confuso da elementi perturbanti, di difficile composizione intellettuale.

Sembrerebbe quasi che – finalmente – si dovesse cominciare ora la vera visita.

Le grandi sale, che fanno presumere quanto di più si sarebbe potuto ricavare dalle sobrie proporzioni piermarinesche, sono invece utilizzate per una “coda” che, francamente, lascia molto a desiderare. Gli esponenti dell’Arte Povera, della nuova figurazione, della pittura analitica dovrebbero ribellarsi.

Sicuramente per povertà di depositi (dovuta a quanto scritto nella prima parte di questa Trilogia e al sommario disinteresse dell’Ente unito a una totale incapacità – o impossibilità – all’acquisto di arte ormai storicizzata), le magre opere di Aricò (che ben altro produsse!), Gastini, il brutto telone di Griffa, l’insapore stendardo di Matino, il mediocre Olivieri, per non parlare dell’insignificante Pinelli (non si può trattare così un artista simile!), ma anche le prove poco rappresentative di Adami, Angeli, Baj per non dire del nulla della selezione di Cavaliere, Guerreschi, Romagnoni e Tadini (terribile!) e della pochezza di quella per nomi come Rotella e Schifano, quando a Milano si trovano a pochi passi più in là forse le vestigia migliori d’Italia (bastava chiedere: si è chiesto?).

Fabro farebbe anche la sua figura, ma è il contesto che lo deprime. Se poi passo a Boetti (pur bello), Anselmo, Calzolari (ottimo!), Kounellis e Merz mi risollevo un poco, ma son pur sempre opere di minimo impatto e inutili a formare un’idea almeno accennata dell’importanza dell’ultimo nostro Movimento di grande respiro internazionale. Quando poi abbandono un Paolini a far da “palo” in un angolo di cui nessuno si avvede e Penone lo qualifico solo attraverso la serie delle sue fotografie di Rovesciare i propri occhi, a Pistoletto dedico un “capino da niente” e a Zorio un’installazione importante ma inutile se priva di un’adeguata introduzione alla svolta poetica degli anni ’80, capisco che si è perso davvero un tram importante, che questa ventina d’anni dell’arte italiana non hanno trovato ancora casa pubblica a Milano.

Se le Sovrintendenze avessero voluto, se il Comune avesse tentato, solo quattro anni fa la milanesissima Collezione di Riccardo Tettamanti, all’asta da Christie’s a Londra, poteva portare alcune ottime perle dei Nostri artisti che qui fanno solo finta di essere (forse era meglio lasciare una bella vetrinetta con i documenti di archivio…). Ma, già, è vero: soldi per acquistare non ce ne sono. Né in passato, né ora (tantomeno), né in futuro.

Al Museo del ‘900, se vorrà sopperire a questa gravissima lacuna, converrà ispirarsi a istituzioni ben più aperte al collezionismo privato (e per questo fortemente avversate dalla “costruttrice di monadi” Mottola Molfino) di quanto le modeste giunte degli ultimi quindici anni abbiano mai saputo concepire. Ma confido che il Comitato Scientifico (nato in altre latitudini e con altri orizzonti) sappia approfittare dell’occasione e ricostruire l’affezione dei milanesi verso le loro per troppo tempo neglette istituzioni culturali.

C’è un’ultima piacevole sorpresa in questa bella ala del Museo. In alcune ampie stanze laterali è collocata, del tutto priva di qualsiasi cartellino esplicativo non solo sulle singole opere ma anche sulla storia del lascito e della sua importanza per Milano, la bellissima collezione di Marino Marini “carpita” anch’essa alla GAM come il Quarto Stato (e per curiosa sorte, anch’essa avulsa da un contesto purchessia, ma almeno qui Marino è trattato bene, anche se attende una mano pietosa che ne fornisca al pubblico le generalità).

Le due grandi sale ospitano il nucleo di trenta ritratti di personaggi del XX secolo che Marini donò già nel 1973 al secondo piano di Villa Reale e un lascito posteriore di Marina Marini che si è perfezionato, dopo un comodato di dieci anni, in donazione alla Città.

Le erme sono straordinari esempi dell’arte “classica” del Maestro delle Pomone eseguiti fra gli anni ’20 e ’60 del ‘900 e rappresentano i grandi artisti del tempo e i collezionisti e i galleristi amici che resero celebre la cultura milanese fra e dopo le Guerre. Tutti posti su orribili piedistalloni in corian (che in questo Museo fa la parte del leone: vorrei proprio sapere il perché, dato il costo non proprio accessibile di un materiale qui del tutto incongruente, soprattutto se utilizzato per supporti come cartellini esplicativi e sostegni per opere) e in quieto dialogo l’uno con l’altro sono di enorme forza icastica, senonché non ci è possibile sapere chi stiamo ammirando (mentre cerchiamo di eliminare dal campo visivo l’orrido biancore e la stridente materia artificiale dei piedoni/paloni sottostanti).

La sala dei ritratti di personaggi notevoli di Marino Marini nell’ala di Palazzo Reale Lascito Marini, Museo del ‘900, Milano

Nella sala successiva trovano posto i bellissimi Pugili, Giocolieri, Cavalieri, Pomone che spezzano le linee composte delle opere del Ritorno all’ordine. Oltre a ciò il lascito offre disegni, litografie, incisioni scelti con straordinaria cura e ben composti per una lettura perfetta della genesi e dell’evoluzione artistica di Marino.

Fine del tour. Un buon tre ore, neanche troppo meditate. Durante le quali non c’imbattemmo in una sola panchetta, un sedilino, un divanetto (nemmeno fabbricato nell’inospitale corian che pure sciala ovunque).

Lungo il corridoio che riporta all’androne d’ingresso, trovano posto dei divanetti improbabili: cubotti, poliedri da bimbi in colorini tenui e stupidelli: sarà l’ennesimo sponsor che non ci fa dimenticare che Milano è Capitale del design. Ma – io dico – legittimo sarebbe stato pretendere un qualche appoggio per stanche membra (la visita è comunque ricca e impegnativa!), impedimento fu la mancanza di spazio in primo luogo e di capacità dei sedicenti arredatori di comprendere le necessità del pubblico museale. Forse hanno troppo a che fare con le ben più resistenti mandrie palestrate dei negozi fashionist (che però, quaggiù, a parte il covo peregallico, non sembra mettano piede; anche se: mai dire mai…).

Sui cubotti, s’appollaiano esausti i visitatori, partendosi gli angoletti molli dei poliedri, prima di uscire “a riveder le stelle”. Ma l’aria comune, tangibile (anche la nostra), è di soddisfazione.

E’ pur vero che critiche s’aggirano nell’aria, reprimende per le mancanze sia tecniche sia di sostanza soprattutto nell’ultima parte del tragitto e le occasioni sprecate (in primo luogo, la possibilità di allestire un grandissimo Museo del Primo Novecento, delle Avanguardie, del Futurismo, dell’arte fra le due Guerre, troppo compressa e penalizzata dalla sede impropria).

Ma l’arte vince. Le opere sono magnifiche (almeno sino al movimento cinetico e al Gruppo T), alcune così straordinarie, che ogni Istituzione al mondo ci invidierebbe.

Legittimo sarebbe pretendere che la nostra arte del XX secolo acquisti un posto assai più nobile di quello concesso dalla platea e dalla considerazione internazionali .

Impedimento a questa naturale istanza della civiltà è lo sconsiderato modo di intendere il nostro patrimonio artistico da parte di governi e burocrazie , di certo modo di concepire lo sfruttamento della cultura solo in senso pubblicistico e particolaristico tipico di una politica cialtrona che ricorre a Caravaggio e Boccioni solo quando può farsi inquadrare davanti a qualche tela superba, impallandone con i propri tratti plebei la bellezza senza rivali al mondo.

Legittimo fu cercare di ottenere ciò che per anni era promesso.

E, malgrado il risultato non eccellente dell’involucro, ma eccellente nel contenuto, legittimamente fummo – alla buon’ora – ascoltati.

Che i milanesi dimostrino con quale affetto, dedizione e considerazione si rivolgono a ciò che è loro. Pretendano servizi più consoni al loro Museo. Obblighino le istituzioni a dare sostegno all’attività scientifica qualificata che, per una volta, trova asilo in un nido accogliente.

Non si dimentichino in fretta di un’inaugurazione festeggiata da tre mesi di biglietti omaggio.

Io so, senza alcuna demagogia, che la gente comune è meglio dei suoi maggiorenti. Meglio senz’altro, a Milano, di certi assessori che proprio in questi giorni si fanno ritrarre sorridenti (de che?) in panoramiche affissioni, pagate dal cittadino, che commemorano la loro pochezza. Come altri si atteggiano senza pudore a protagonisti del milieu culturale di cui nulla sospettano, nella piattezza di volute dei cerebri malmenati. Alcuni milanesi sostengono che le sornione effigi anticipino l’uscita nelle sale cinematografiche del seguito della recente gustosa pellicola di un noto comico che involontariamente, ma non troppo, dipinge impietoso le storture della contemporaneità, benché egli per primo si stupisca di essere dalla medesima quotidianamente superato.

Ma se al peggio non v’è limite, al meglio è l’arte.

 

Immagini fotografiche : Cristiana Curti per Arslife

Nota della scrivente . Questo modesto pezzo è stato redatto durante il mese di Febbraio 2011, ma è – per diversi motivi – completato nel giorno del 150esimo dell’Unità d’Italia, limato in una Venezia che stupisce per le tantissime bandiere tricolori esposte ai balconi in pietra d’Istria, sventolanti sulle altane antiche dove le donne della Serenissima si schiarivano i capelli al sole, legate in alto nelle calli strette agli “scuri” gotici da un palazzo all’altro fronteggiato, a irridere i gruppetti di vocianti verdo-sfazzolettati che una volta l’anno sciamano in laguna a svuotare nelle maree, che videro ben altri riti, le ampolline d’acqua del Po, Fiume di Genti.

Viva l’arte italiana. Viva l’Italia.

 

Museo del Novecento
Direttrice: Marina Pugliese

Comitato Scientifico: Massimo Accarisi, Pier Giovanni Castagnoli, Flavio Fergonzi, Lorenzo Lamperti, Lucia Matino, Antonello Negri, Marina Pugliese, Claudio Salsi, Vicente Todolì.
Dove
Milano, Via Marconi 1 (Piazza del Duomo).

Orari
Aperto tutti i giorni; lunedì 14,30-19,30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9,30-19,30; giovedì e sabato 9,30-22,30.

Ingresso
Da dicembre 2010 al 28 febbraio 2011 ingresso gratuito. Da marzo 2011 ingresso intero € 5, ridotto € 3.

Gratuito sino a 18 anni e per tutti ogni venerdì (dalle 16 alle 19,30).
Catalogo
A cura di Flavio Fergonzi, Antonello Negri e Marina Pugliese, Ed. Mondadori Electa.

Informazioni
02-884.44061; 02.0202; www.museodelnovecento.org 

visite guidate: informazioni e prenotazioni 02.43353522; museodelnovecento@civita.it
Tempo di visita secondo Arslife
Almeno 2h e 30 min. per una prima “passata”, poi si devetornare per approfondire i diversi settori.

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“Trilogia milanese”: Il Novecento a Milano
Parte III – Allaaaarmi! 
(L’epigono di Mercedes Garberi) 
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