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Il Derby dell’Arte a Milano

MIART 2011 - Jean-Paul Riopelle, un raro olio su tela del 1954 da Matteo Lampertico, MI

LA MILANO DELLE FIERE D’ARTE D’APRILE
MIART Vs AAM 2011

MA I CURATORI GUARISCONO?

PREMESSA

Doppia fatica, quest’anno, a Milano. Due fiere d’arte si sono fronteggiate, nei medesimi giorni, in un derby che avrebbe imposto tifo per uno dei contendenti il primato, se non della miglior prova, almeno del gradimento del pubblico.

Ma qui c’è in ballo ben più che la vittoria in una stolida battaglia fra gangs di quartiere; qui ciò che conta – ed è assai più importante di qualsiasi particolarismo – è risollevare la rappresentanza del mercato dell’arte sulla piazza (ancora) principale d’Italia. Se la Fiera milanese torna ad attirare il mercato, il circuito nazionale degli scambi ne trae beneficio.

Lascio nel 2010 un MiArt che scoraggiò. Arrivati al “ground zero” di una discesa agli inferi che speravamo potesse arrestarsi nel corso dell’ultimo decennio, mentre altri appuntamenti (Bologna, Torino, Roma) si disegnavano un futuro più articolato e promettente aldilà della congiuntura, la fiera d’arte che costituiva un tempo il palcoscenico internazionale del metro italico lasciava esterrefatti per l’irresoluta testardaggine con cui votava se stessa e i propri clienti (perché i galleristi sono i primi clienti dell’Ente Fiera) al martirio.

Ho sempre sostenuto la centralità dell’evento fieristico su ogni altra manifestazione collaterale, la quale, al più, può fare da giusta cornice (cornice!) al protagonista, l’accessorio di lusso al vestito buono.

Se si deve svolgere un servizio a favore di un comparto mercantile, esso pretende che ogni sforzo si focalizzi sulla migliore riuscita di quel pugno di giorni a disposizione per convincere dell’importanza del “passaggio di mano”.

Vernici per effimere rappresentazioni di dubbia utilità, incontri a raffica con le più varie personalità dello show/art-business, feste, (ricchi?) premi e cotillonsdevono rimanere in secondo piano.

Mentre, soprattutto a Milano, codeste ciance hanno con il tempo preso la mano di chi pianificava le giornate dell’arte “mercenaria”, quasi ci si dovesse vergognare di disquisir d’arte e denaro, quasi si dovesse rinnegare la propria partecipazione a un appuntamento che, in fondo, come proposito aveva quello di incrementare – quando possibile – le vendite e – quando impossibile – almeno di mantenere alto il profilo della tradizione gloriosissima di gallerie e galleristi, e, che lo si ammetta o si proceda nell’insulsa ipocrisia della negazione, anche degli artisti, che solo sul banco di prova degli scambi (dalla galleria al privato, dal privato all’asta pubblica, dalla galleria e dal privato al Museo) possono, oltre che vivere della propria professione, diffondere il proprio verbo.

A Milano, le Istituzioni Civiche non si sentono più parte in causa del MiArt, non l’accompagnano, non lo promuovono (è stupefacente l’assenza di manifesti o striscioni per la Città), ne sono estranee forse più che in occasione dell’annuale Forwedding, che guida te e i tuoi ansiosi genitori nell’insidioso percorso sino alla (costosissima) meta del tuo giorno più bello…

Dobbiamo al risibile show dell’edizione 2010 del Sindaco Moratti – del tutto indifferente alle sorti della manifestazione, come dello sviluppo dell’arte e della cultura milanesi, abbandonate al laissez-faire più praticone – presso uno stand che ospitava una partita a calciobalilla con (naturalmente) veri calciatori, veri artisti e una vera Prima Cittadina. L’ultima distratta occhiata alla “faccenda”, prima dello sbadiglio e della ritirata.

L’ACACIA (Amici Arte Contemporanea Italiana), fondata nel 2003 da Gemma De Angelis Testa, d’impronta e costituzione squisitamente milanesi, che da sempre partecipava al MiArt attraverso l’istituzione di un premio da assegnare dopo selezione delle opere in Fiera,quest’anno disertò la piazza.

Poiché l’ACACIA ha come proprio statuto quello di diffondere l’arte italiana contemporanea nel mondo e costituire, attraverso varie modalità di collazione, una raccolta di opere da donare al (futuribile) Museo d’Arte Contemporanea di Milano, la questione è meno banale di quanto potrebbe parere.

Questi fattori – e molti altri che vado sicut Cassandra ripetendo, sino a quando mi si fulmineranno le corde vocali e mi si irrigidirà la falange che regge il pennino – portano all’insopportabile improvvisazione di cui si è ammantata senza ritegno la maggiore Fiera d’arte milanese negli ultimi anni.

Se si allontana l’associazionismo privato, se si pensa di poter fare a meno del sostegno convinto dell’Ente pubblico (che si poteva recuperare, con esempio dei più banali, attraverso una donazione congiunta delle gallerie partecipanti, dell’Ente Fiera e delle Associazioni di settore varie e assortite di un’opera di importanza storico-artistica al novello Museo del ‘900, a patto che la donazione avesse il giusto risalto) e, soprattutto, nel tempo non si capisce di dover a tutti i costi invertire la corsa cieca al precipizio con un pool di tecnici che includa in primo luogo esperti del mercato provenienti da Case d’Asta, rinomati osservatori del settore e galleristi internazionali di fama elevatissima, non ci sarà riscatto per il MiArt così come è concepito oggi.

Tanto che nel 2011, per necessità o sfacciataggine, gli si è opposta una seconda fiera a pochi passi dalla sorella maggiore, con un’etichetta che la qualifica come promotrice di “Arte Accessibile”, formula che sembra prendere piede un po’ qua un po’ là in Occidente, ma che non è altro che un artificio retorico il quale, se procrastinato oltremodo, rischia di connotare artisti e opere che non meritano alcuna accezione sminuente, neppure per estremo approdo semantico.

Presso la bella sede del Sole24Ore di Via Monte Rosa 91, difatti, è andata in scena l’altrakermesse che ospitava circa 50 gallerie, la metà di quelle di MiArt 2011. Alcune delle quali, l’anno prima, erano nei costosi stands di Porta Teodorico, altre in quest’inizio di Aprile 2011 si sono ripartite in entrambi i siti. Il luogo è affascinante e si presta alla manifestazione oltre ogni possibilità di critica. Anche qui sono state pecche, per l’evidente acconcio “casalingo” e alla buona, ma le premesse (e le promesse) per diventare un polo d’attrazione di temporanei appuntamenti con l’arte ci sono tutte.

In due, le fiere non contavano più di 150 partecipanti, tutti italiani (a parte cinque, tre al MiArt e due in AAM, “davvero” stranieri: da medaglia), perlopiù incentrati sulla milanesità o sulla collocazione padana, fatta salva una buona rappresentanza di alcune ottime gallerie del Sud, specchio di come si vada equamente redistribuendo oggi la mappatura dell’arte in Italia.

Vero è che uno degli appunti del passato era la mastodonticità dell’evento fieristico del MiArt che metteva a dura prova meningi, polpacci e concentrazione del pubblico. Ma, e qui lancio un indizio, il numero di 150 mi pare più che accettabile, complessivamente. Benché un numero non sia mai condizione sufficiente di qualità.

Le pecche che portarono alla demolizione del mito della Fiera d’Arte milanese conducono, in particolare nelle ultime edizioni, all’ “ammiragliato” di personaggi che – convenzionalmente noti quali “curatori” – occupano la scena organizzativa, lasciata orfana di veri esperti della materia.

Non comprendo perché non possa esistere a Milano una figura di coordinamento come quella di Silvia Evangelisti per Bologna, che non si picca di essere “musa dell’arte”, né d’orientare il gusto del pubblico pagante e non ritiene essere una Fiera d’arte se non il termometro delle potenzialità di circolazione dei nostri artisti sul territorio e oltre esso (e degli artisti stranieri in Italia). Essa si interessa a che ogni settore della società bolognese sia coinvolto nella manifestazione principe ben sapendo che in ciò, anche se con alterne vicende e maggiori trionfi a fronte di qualche inevitabile depressione, sta il successo di ArteFiera e l’attenzione del mercato anche internazionale nei suoi confronti.

Del resto, la visibilissima lacuna della partecipazione straniera al MiArt 2011è forse uno dei limiti più gravi di questa fiera d’arte così fondamentale per il nostro Paese.

A proposito di artifici retorici esiziali, quando si affronta malamente l’approccio a un comparto di mercato, asserire – come recita imperiosamente il Comunicato Stampa di MiArt 2011 – che questa manifestazione è “…unica, poiché fiera d’eccellenza delle gallerie italiane; una scelta assolutamente non provinciale,…”  solleverebbe obiezioni e risatine dall’ultimo degli allievi di primo corso di Quintiliano. Da quando in qua si costruisce un incipit di presentazione di una rassegna la cui principale caratteristica (unicità, addirittura) consisterebbe nella negazione di una ventilabile posizione d’inferiorità? Excusatio non petita

Entrambe le fiere presentavano, tuttavia, il medesimo “peccato originale” da cui Milano pare non voglia proprio redimersi.

Dietro le merlature del cammino di ronda del castello da espugnare si attesta il quartiere dipietrantoniesco, mentre lungo i fossati esterni, pronti a gettare i loro verrettoni, si ergono i fanti dell’armata quaronesca. Ma nelle guerre come in politica, gli schieramenti apparentemente così contrapposti poi si ritrovano allegramente riuniti al desco, come direbbero a Roma, “a farse du’ spaghi”…

Non si elevano forse altissime grida (a torto, molto spesso) quando una mostra pubblica sia realizzata in collaborazione con una galleria privata, allora perché al “curatore” di manifestazioni per le quali non viene mai coinvolto direttamente nella vendita di opere si dovrebbe affidare il successo di un evento che ha come unico scopo proprio la vendita di opere?

I “curatori” al servizio delle Fiere d’arte devono essere d’ausilio al mercato, secondo leggi severe, e non prevaricarlo , anche perché – nel loro non sempre celato intimo – essi mostrano un certo disprezzo del mercimonio artistico, intenti a proporre una “linea culturale” che rappresenti se stessi e non a caso anelando a partecipare perlopiù a premi e giurie, concorsi e tenzoni, nonché a moltiplicare interventi correlati di carattere vario di cui si sono conduttori. Di fatto, e mi perdonino questi signori che hanno diritto di parola e azione ovunque ma non in fiera, rubano una scena che dovrebbe vederli, al più, quali suggeritori e non capocomici, lasciando all’Ente la funzione d’impresario della compagnia, se ne è in grado.

Dalle conversazioni raccolte ovunque fra potenziale cliente e gallerista emerge, da sempre, come la capacità di convincere all’acquisto di un’opera, in virtù della specifica bontà culturale di quest’ultima, non dipende affatto (se non in casi davvero rari) dalla promozione dell’artista da parte del curatore, ma dalle qualità del venditore – che deve dimostrarsi colto sino a non intimidire l’interlocutore e sollecito a rispondere alle questioni più disparate, adattandosi con malleabilità allo specifico cliente. Sembra un’evidenza lapalissiana, ma la realtà dei fatti è assai diversa.

Per quanto riguarda il MiArt, l’unica presenza opportuna di un “curatore” (che tale non è perché è critico e storico d’arte) fu quella di Giorgio Verzotti che anche quest’anno presentava, come catalogo della Fiera, la seconda pubblicazione a sua firma che narra di una storia dell’arte italiana attraverso l’opera meritoria della gallerie private. Come dire: è “stato sul pezzo”, con la misura e la competenza che si richiede a un esperto.

Bon… dopo questa abbondante messe di critiche impietose, passerò a rendere testimonianza delle due fiere. Che, udite udite, malgrado quanto detto, e che certo non rinnego, e malgrado le préfiche assoldate in ogni angolo delle sale espositive, non furono per niente, ma proprio per nulla, male.

Ciò perché, partendo prevenuta e rilevando i difetti sopradescritti – alcuni annosi: se cavallo vincente non si cambia, chi è il folle che resta in sella di quello che continua a perdere? -, mi misi nella condizione di maggiore apertura, non aspettandomi nulla più che l’inaspettato.

E credo di poter sostenere che al MiArt come in AAM l’inopia abbia aguzzato gli ingegni e che, al MiArt, tolti residui atteggiamenti snobistici e ormai antistorici di alcune gallerie molto famose d’arte contemporanea e moderna (che, di fatto, sono state più deboli del solito), tutti i galleristi si siano impegnati, le scelte delle opere siano state di miglior livello e attenzione e l’impressione di “raschio del barile” che aveva potentemente depresso la scorsa edizione sia stata allontanata. Per AAM, valga in genere l’ottima sensazione di un più fresco approccio con il pubblico, di qualche singolare, anomala figura di gallerista, di alcune velleità plaudibili che controbilanciarono le ingenuità di questo ancor giovane appuntamento.

La comprensibile cautela delle proposte ha fatto da padrona in entrambe le manifestazioni e sono mancati del tutto sperimentazione e coraggio del linguaggio nuovo.

Ma ho trovato molto di buono e qualche chicca. Un paio di scoperte entusiasmanti. Una vera rivelazione.

MIART 2011

Al MiArt l’ingresso è dove sono allocate le gallerie d’arte del Contemporaneo cui si pensa sia riservato un posto meno “esclusivo” (le litanie sull’assegnazione dei posti sono sempre infinite!) rispetto alla planimetria dell’unica sala a disposizione.

E subito apprezzai alla Galleria Enrico Fornello (MI) un bel trittico di Gianni Pettena, della serie About non conscious architecture del 1972 che mostra quanto poco l’artista ha necessità di interrogare la Natura per trovare la formula matematica dei rapporti con l’Universale. Da Federico Luger (MI), un ottimo Franklin Evans lavora con molteplici mezzi “classici” (acquarelli, tempere, olii, installazioni, tele, carte, collage, ecc.) per ricreare la parcellizzazione della realtà attraverso lo studio del colore, la dissezione dello spazio, la sovrapposizione delle visioni e dei ricordi. E’ un ottimo artista che negli Stati Uniti è stato scelto per lo studio visit al PS1 nell’ultimo anno. Orgoglioso, il gallerista mi confidò che della sua mostra milanese rimangono pochissime opere (tre), portate in fiera per l’occasione. Da tenere d’occhio, anche per i costi piuttosto contenuti.

Ancora più a buon prezzo sono le opere di Giulio Frigo che mi colpì a Ca’ Pesaro a Venezia nella mostra che si poneva polemicamente in contrasto con il Padiglione Italia della passata Biennale. Le ospitava in una piccola personale Francesca Minini (MI) e consistevano in una vasta installazione di infinite corde pendenti dal soffitto su pianta a base quadrata,reggenti ciascuna alcune piccole sfere di grafite ad altezze definite (che raffigurano in scala megalica la struttura molecolare della stessa grafite: la scultura rappresenta la materia di cui è composta) e nei suoi talentuosi disegni su carta di personaggi da cui si dipartono fili che delimitano lo spazio circostante sino a far poggiare l’arte a terra… Tutte le sue opere in fiera sono vendute.

Da Fluxia (MI) trovai interessante una Testa Aquilina di Lupo Borgonovo: ha in sé qualcosa che rielabora gli inizi della negazione della figura in scultura all’alba del ‘900, ma con un potere fascinatorio degno delle forme arcaiche di De Dominicis davvero intrigante.

Nella galleria milanese di Federico Bianchi, ho osservato con attenzione un nome che per me merita considerazione. Si tratta di Giuseppe Armenia, svizzero di origine siciliana, diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, che dimostra un’ottima padronanza del disegno e della pittura al solo fine di creare installazioni o simil-tele che rappresentino una realtà rovesciata, nei codici, nei contenuti, nella forma (buono è il suo ciclo di grandi opere del passato i cui protagonisti mostrano le spalle al pubblico). In fiera una serie di lastre di vetro montate con il lato superiore in aggetto tratteneva al retro dei cristalli grandi fogli di carta pesante e ripiegata, entro i quali – si vede – occhieggiavano grafemi, i Labirinti Segreti, che non possono più essere dispiegati perché tesoro personale di qualcuno che li sa conservare.

Da Margini Arte Contemporanea (MS) mi è piaciuto assai il tratto sicuro “a nastro infinito” dell’olio su carta di Marco Palmieri, posto però in un luogo poco visibile.

Da Frittelli (FI) mi sarei portata via volentieri un bel Bertini del 1967, una tecnica mista su cartone telato e collage di rara eleganza. Alla Galleria San Carlo (MI), una piccola raccolta di belle chine degli anni ‘50 e la magnifica gouache – Printemps – del 1961 di Corneille hanno attirato la mia attenzione per la raffinatezza delle composizioni che, più avanti, il francese, a mio modo di vedere, disperderà.

Di palo in frasca (anzi, in frappa) mi son fatta catturare dall’arte un po’ piaciona ma efficace diFrancesca Pasquali, artista di Colossi Arte Contemporanea (BS), che ritroverò (come molti altri qui presenti) anche in AAM. Il grande feltrone a frappe è di semplice lettura, ma molto ben concepito e eseguito.

Da Artesilva (Seregno, MB), lo stand è stato quasi totalmente dedicato a Morandini di cui forse si tessono troppi elogi perché epigono di epigoni, ma la sua cifra ipnotica, quando non si spinge verso il birignao e si contiene nella severità dell’architettura, è senza alcun dubbio notevole.

Una bellissima carta 50×70 ca. del 1958 di Perilli, da Spaziotemporaneo (MI), che fu per me una delle opere migliori in questa fiera (da acquistare, se ancora a disposizione, a € 3.500), assai particolare per il periodo perché il segno di solito convulso e frenetico è come guidato da un andamento più sognante. Di notevole qualità anche un Pasmore del ’69.

La galleria Carzaniga di Basilea (CH), oltre a una serie di squisiti Tobey di non così piccolissimo formato ma di perfetta esecuzione, ha presentato artisti italiani che rientrano “mediamente” nel circuito della neofigurazione degli anni ‘90 (Spadari, Zamboni, Serra) e un Caccioni che pare oggi in buona ascesa. Anche se i nomi non rappresentano del tutto le mie inclinazioni personali nel Contemporaneo italico, sono comunque contenta di vedere oltr’alpe cotanta affezione ai Nostri.

L’altra virtuosa galleria straniera, Manel Mayoral di Barcellona (E) come sempre perfettamente allestita per il MiArt, ci ha onorato con una collazione dei grandi dell’arte ispanica internazionale (non ne manca uno), da Picasso a Mirò, da Barcelò a Tapiés; ma poiché io vado a cercare sempre l’ago nel pagliaio, sono attratta fortemente da un’operina diChillida (Homenaje a Pensal) del 1970 che mi incarterei volentieri.

Robilant e Voena (MI/Londra UK) dal consueto stand rutilante, mi colpirono questa volta per un oscuro, angoscioso, materico e grande olio su tela Uomo dietro il tavolo diMichelangelo Pistoletto del 1960: ora comprendo quale fosse il mondo prima e dietro le più famose specchiere e perché era necessario nasconderlo a sé e agli altri. Bello e singolare.

Da Matteo Lampertico (MI) non si può essere delusi. Mentre mi attardavo su una trina squisita di ConsagraAddossato, del 1980 (e un signore dietro di me contestava al gallerista che lo proponeva che non intendeva più farne collezione perché di “cavalli ne ho anche troppi…”), mi avvedevo anche di un altro piccolo capolavoro, una lamieretta sbalzata daHeinz Mack del 1964. Allungato l’occhio, m’imbattevo in un Santomaso da brivido, quando odo un confabular d’intenditori (risolto l’impaccio con il “cavallo” di Consagra) intorno a una tela strepitosa, nascosta nel piccolo magazzino dello stand, un Riopelle di generose dimensioni del 1954, dai colori sontuosi e perfettamente incastonati, dalla materia abbondante e poco spatolata ma distesa a brevi segmenti pastosi. Un’opera magnifica dal costo commisurato ma non scandaloso, considerando la rarità dell’epoca e la qualità indubbia.

Molto bella (anche se meno importante, ma credo più a portata di tasca) l’enorme Spiralebianca su fondo nero di Crippa del 1951 offerta nello stand dello Studio Gariboldi (MI): un piccolo gruppo la ammirava senza riserve.

Allo Studio Marconi (MI) il molto atteso allestimento della “casa” di Baj a Parigi ha riservato grandi sorprese e allegria per il disinvolto gioco storico. La prima stanza recava all’ingresso un cartellino su cui era l’avviso “torno subito”, ma all’interno Baj c’è in tutta la sua non sempre riconosciuta maestria. Belle opere importanti e di alta datazione. Nell’ultima, dedicata a Del Pezzo sono attratta da due “chicche” del 1968 (una magnifica a titolo “L’attimo fuggente”) e mi avvedo solo dopo qualche secondo della presenza dell’Artista in carne e ossa che – riprodotto in fiera il proprio tavolo di lavoro – era all’opera in quello stesso momento (non è una performance, è un’artista all’opera!).

Da Openart (PO) ottimi erano i numerosi collages e chiasmages su supporti vari e tela di Jiri Kolár: una mela sorniona del 1966 e una tela del 1970 che rappresenta nel consueto modulo frammentato e disarticolato una Torre di Babele (dalla famosa opera del 1563 di Bruegel il Vecchio) ancora più folle di quanto non dovesse apparire agli antichi. Jiri Kolár è geniale e, secondo me, ha molta più influenza sull’arte contemporanea di quanto si sia ancora inteso.

Da Cardi (MI/Pietrasanta LU), mi piacque “ancora” (perché mi piaceva di più alcuni anni fa e nella serie dei Little Bricks presentati negli USA a fine 2008, con la pesante mano d’olio su tavola; ma forse in galleria si può trovare una più ampia scelta di questo ottimo artista) la maestria tecnica coniugata alla grazia compositiva di Helmut Dorner, tedesco del 1952, trattato anche da Vera Munro di Amburgo. Secondo me, anche per i prezzi invitanti, in ottima possibilità di continua rivalutazione, visti i numerosi e fortunati passaggi in aste internazionali.

Da Tonelli (MI), ho gradito l’esposizione di alcune buone opere di Gianni Colombo (uno dei migliori artisti italiani degli anni ’50-‘70), fondatore nel 1959 del Gruppo T con Giovanni Anceschi, Davide Boriani e Gabriele De Vecchi, nucleo originale a cui si aggiungerà l’anno successivo Grazia Varisco. Belle anche le proposte di Stuart Arends nello stesso stand.

Alla Galleria Milano (MI) una delle opere migliori in Fiera: un prezioso, strabiliante (per formato e tecnica) Novelli del 1958 che documenta il passaggio dal primo periodo informale a quello dell’astrazione più nota (con i numeri, le parole, gli sfondi chiari e onirici, per intenderci). Sopra una tela da cui si intravvedevano strati di collage di giornali, una spessa coltre color pervinca intonacava e cancellava le parole quotidiane. Magnifico!

Da Spazia (BO/Minerbio BO), mi stupì un bel Cartone ondulato (tanto difeso da Fontana!) di Manfredo Massironi del 1959. L’artista, fondatore all’inizio degli anni sessanta, con Alberto Biasi, Edoardo Landi, Toni Costa e Ennio Chiggio, del Gruppo Enne, si inserisce in quella congerie di movimenti italici che tutti sono figli (prediletti) dello Spazialismo.

Da Lorcan O’Neill (Roma) mi piacquero le testine decapitate di Kiki Smith in bella mostra all’interno di una elegante teca. Da Suzy Shammah (MI) abbagliò e conquistò il Glacier du Géant 07 del 2009 di Walter Niedermayr, che nel sito della galleria è qualificato come artista sud-tirolese (nato a Bolzano nel 1952), ma, fortunatamente, in quest’anno unitario, nel sito dell’artista, Bolzano ritorna all’Italia.

Da Monica De Cardenas (MI) quotai Claudia Losi (Piacenza,1971), già di interessante carriera e produzione che da un anno a questa parte propone i suoi enigmatici ed emozionanti Landscapes su mensole, una narrazione in sequenza di mondi a sé stanti e ricordi di famiglia che cercano giustificazione.

Alla Galleria Centro Steccata (PR), faceva bella mostra di sé una serie di quadrini (degli anni ’60, direi) di Piero Ruggeri. Ma campione qui è stato un Afro di eccellente mano del 1963, una tecnica mista su carta intelata cm. 56×81 per comprare la quale era necessario spendere 140.000 euro. Ma a me non pare una cifra per nulla irragionevole, considerando il solidissimo mercato del grande artista, le dimensioni di rispetto e – soprattutto – la qualità dell’opera.

Da Kaufmann Repetto (MI), malgrado il limitato interesse dell’assistente (attenzione!) nei confronti di chi chiede, mi sono soffermata sull’opera di Pae White che già molto apprezzai alla Biennale di due anni fa (all’Arsenale aveva costruito in un immenso magazzino una stanza delle meraviglie con migliaia di metri di corde variopinte che tramavano lungo il soffitto e intrappolavano oggetti diversi). In questi giorni la galleria inaugura la personale di un’artista che non bisogna dimenticare.

Quest’isola centrale nel padiglione fieristico dell’eccellenza delle gallerie d’arte contemporanea in Italia ha deluso un poco per l’apparente svogliatezza dei responsabili (forse arrivai in un momento non buono…) e per la scelta e gli allestimenti un poco sciatti e apparentemente coatti.

Consiglio vivamente a queste e alle gallerie più titolate che trattano perlopiù arte moderna di elevatissimo target di trovare formule espositive più convincenti e fresche meno azzimate, museali e pompose per i Moderni (l’ “esclusività” del display, dovuta anche al genere di clientela, si riesce a mantenere comunque), meno scarne, criptiche e finto-minimaliste per i Contemporanei.

La sensazione di non essere graditi, se non si appartiene al girone degli eletti, è forte. Ma, oltre al fatto che il girone degli eletti è costituito dal pubblico che elegge e non dalla galleria che si autocelebra, non è il momento di dare per scontato alcunché. Soprattutto nel campo aleatorio del mercato dell’arte. Le generazioni cambiano, le culture si fondono, le conoscenze mutano.

Se pensiamo – come dovrebbe essere – che la tanto sospirata scrematura del mercato-fuffa debba partire dalla cultura (di cui i galleristi stessi lamentano la carenza nel collezionismo, questione tutta da dimostrare), bisogna agevolare la partecipazione e non raffreddare gli ardori degli interessati.

Da Vistamare (PE), si potevano ammirare belle opere di Mimmo Jodice, alcune (anch’esse viste in Biennale due anni fa) di Simone Berti e le sue nature ricomposte e dell’eccellenteArmin Linke.

Da Massimo Minini (BS) mi colpì la scelta (per la galleria in controtendenza, ma piacevolmente astuta) di esporre in questa fiera una bellissima teoria di fotografie di Luigi Ghirri, alcuni “classici” di Spalletti e un’immancabile opera fantasmatica (molto bella anche perché di taglio modernista) di Letizia Cariello che arrotola la luce e l’appende con apparentenonchalance.

Da In Arco (TO) l’assistenza è stata effervescente e pronta. La galleria torinese, fra altri, segue con fervore la parabola di Daniele Galliano che, dopo entusiasmanti esordi sembrava perso alla ricerca di una cifra più convincente soprattutto per sé, assunto l’innegabile talento. Fortunatamente si è astratto da un gruppo troppo chiuso di riferimenti italiani e ha preferito procedere da solo. Qui ho trovato, e di essa m’informai, una tela della serie Constellations del 2011 di cm. 100×120 al prezzo di € 13.000. E’ notevole e riferisce della recente elaborazione di dati e tecnica assunti per anni e confluiti in una bella mostra di qualche mese fa. Il volo radente sulla folla, ormai non più distinguibile, è il meccanismo per cancellarla.

Da Primo Marella (MI/Pechino CHINA) la consueta congerie di artisti perlopiù cinesi, sembrava attrarre meno che in passato; ma la galleria, che da qualche tempo ricerca novità nelle regioni asiatiche oltre il Celeste Impero, giunge nelle Filippine e raccoglie le proposte artistiche della giovane Nikki Luna contro la schiavitù della memoria (e della Storia). Diretta sicura verso una grande cassettiera che conserva immagini da dimenticare (Compartamentalized), notai con piacere che era già venduta.

AAM 2011

Da AAM in Via Monte Rosa, presso l’affascinante sede (migliore all’interno che all’esterno) di Renzo Piano nello Spazio Eventiquattro, mi accolse un’allegra confusione per la varietà di partecipanti che non decifri se siano curatori, galleristi, artisti, semplice pubblico o attoniti e compìti giornalisti del quotidiano più asettico d’Italia qui “in trasferta”.

Potrebbero essere tutti categorie in via d’estinzione; invece, paiono in rapida ripresa. Mancavano gli azzimati promotori e visitatori delle fiere di più aulico lignaggio. Il che – quest’anno alla terza edizione ma per la prima volta in questo spazio, abbandonata la “trendosa” multi-location SuperStudio Più di zona Tortona – ha costituito più un pregio che un difetto, a patto che, allorquando arriveranno, attratti dall’esito incoraggiante, siano sapientemente ammaestrati da un’altrettanto asettico government. Fa piacere comunque vedere anche studiosi e giovani in quantità.

Dico subito che la fiera “minore” (per tradizione, per numero di galleristi, in parte per la qualità ancora naïf di certe proposte) ha tradito la mancanza di un apparato rodato, ma è sembrata volonterosa e in grado di sopperire con il tempo alle mancanze maggiori, quali, ad esempio, una certa anarchia dei galleristi stessi – che ogni tanto scomparivano per lunghe mezz’ore -, o la reale difficoltà per il pubblico di individuare con sicurezza i confini degli stand.

A onor suo, la totale gratuità della visita per tutti i giorni espositivi e il sito che è migliore di quello della fiera antagonista (di straordinaria incompletezza e povertà). A parziale demerito l’aver cercato di far intendere l’internazionalità della manifestazione quando solo due fra le 50 gallerie erano effettivamente straniere.

Un veloce quanto spartano bancone degli accrediti m’indirizzò con estrema cortesia verso gli spazi rubati agli uffici e alle loro aree comuni e concessi alla fiera, anche se ero in anticipo di alcune ore rispetto alla vernice. Meglio per me.

Al livello del piano terra accoglievano il visitatore alcune quinte di gallerie che non sembravano certo di secondo piano.

Da Bonelli LAB (Canneto sull’Oglio MN) m’imbattevo in un particolare telone di Omar Galliani che appare come un paesaggio antropomorfo di tenebra, una sculturina di gusto del figlio Michelangelo e alcuni noti esponenti della scena italica contemporanea come Nido, Vescovi, Bergamasco e Mazzoni.

Molto interessanti i piccoli quadretti di genere, mutati tecnologicamente da Chiara Dynys in esposizione da Marie-Laure Fleisch (Roma), che ha in scuderia artisti di tutto rispetto e collaborazioni con Peter Weiermair.

Da Eventinove Arte Contemporanea (Borgomanero NO),Robert Pan spalma con eleganza resine su tavola di forte impatto coloristico e delicate suggestioni, mentre Mirco Marchelli presenta un suo pezzo forte, la grande bandiera d’Italia appuntata a impacchettare una tavola spessa quasi fosse una bara: la serie già iniziata nel 2008 si titola Stato participio passato.

Dalla straniera Artiscope di Bruxelles, il “fotografo” Manuel Saro manipola i suoi interni optical con l’acrilico creando effetti stranianti di grande fascino, alcuni molto riusciti.

Mentre da Ermanno Tedeschi (TO/MI/Roma/Tel Aviv), insieme ai più consueti (troppo per la galleria che doveva forse osare un poco di più) Berruti, Ravà e Gusmaroli (che non sa proprio più dove piazzare le sue barchette…), campeggiava l’ottimo “cingommatore”Maurizio Savini con una zuccherosa bandiera americana rosa e bianca di generose dimensioni.

In quest’area, solinga, era la postazione della scultrice Maria Cristina Carlini, presente in tutto il suo splendore coiffato, con tanto di operosa e indaffarata assistente e il vantaggio di aver disseminato un po’ ovunque le sue opere sia qui che al livello inferiore e nella grande corte interna. Forse qualcuno la ricorderà, in Arslife, in un crudele divertissement di Lucien de Rubempré, che opinava la scelta dell’artista a far da testimonial dell’arte italiana per l’Expo 2010 di Shanghai. La signora mi destò sincera compassione (nel senso di partecipazione, naturalmente) e non parlerò della sua opera che, pur onesta, non riesco a apprezzare. Però è qui, intanto.

Una musica da sogno mi spingeva verso una delle opere più concettuali della fiera, ma anche non priva di un’energia che muove profonde sensazioni. Da Arte Ipse Dixit by TM (Tiziana Manca, l’organizzatrice di AAM) di Como, il gruppo Quiet Ensemble fa di cinque pesci in altrettanti poliedri alti e a sezione rettangolare gli strumenti che, con il loro pinnare ascendente o discendente nell’acqua, producevano una musica della Natura (Quintetto), di cui v’era anche lo spartito da scrivere al momento. Bello è il termine appropriato.

Scesa al Piano Giardino e da Gagliardi Art System (TO) che già m’intrigò l’anno passato a Roma per la scelta accurata degli artisti, mi ha attratto l’opera di Daniele D’Acquisto che probabilmente utilizza il taglio al laser per le sue tele tridimensionali e ologrammatiche, alcune ben riuscite, quando la troppa eleganza non trascina la mano.

La Galleria Ghetta (Ortisei BZ) presentò (forse) un’opera di Gianfranco Asveri (forse) che mi è piaciuta molto: un’installazione composta da alcuni noti quotidiani incorniciati a distanza ravvicinata da cui si dipartono fisarmoniche di carta – come i giochi di bimbi – delle pagine ritagliate in area centrale: le trine congiungevano con levità le testate e univano ciò che appare impossibile affratellare. Il problema è che la mancanza di gallerista, la mancanza di cartellino esplicativo e financo la difficoltà di comprendere se mi trovavo nello stand della Galleria Ghetta (cui non vorrei far torto, né a questa né all’artista, nel caso avessi errato la presentazione) mi impedisce, credo per la prima volta, di riportare con esattezza i dati. Ma l’opera era bella e tanto bastò per farmi decidere anche solo a nominarla, sfidando la reprimenda.

Da Fabbrica Eos (MI) alcuni giovani incravattati, evidentemente sciamati dai piani superiori dell’edificio, osservavano con attenzione le opere di Andrea Francolino che dissacrano luoghi comuni della politica, del costume e del benpensantismo imperante, tutti rigorosamente presentati nell’elegante packaging del consumismo (forse è per questo che fa presa sui ragazzi del Sole o di Price-WaterhouseCoopers che ha sede nel medesimo palazzo). Da manuale potrebbe essere la serie Red Passion, bottiglie di Campari su piccole mensole sulla cui etichetta campeggiano libanti i Grandi del Comunismo, da Marx a Fidel Castro. Un altro Conducadòr (più nostrano) fa da testimone a una marca di presunti-preservativi, per preservare se stesso e noi dalle sue battaglie fuori e dentro ipotetici talami (Ex-Dur), mentre con OMO, un sorridente Keith Haring stampato sopra una scatola di detersivo (che ti smacchia dalla macchia!) non si avvede che il suo contenitore è stato gettato in un cestino da strada appeso a un palo in acciaio con tanto di cartello rivelatore della sua identità.

Da Bianca Maria Rizzi (MI) mi fulminò un quadro di Luca Gastaldo posto all’esterno dello stand: quando la pittura vince con onore senza compromessi con artifici che debbano giustificarla. Una delle opere da comprare.

Loft Art Gallery di Corigliano Calabro (CS) ha presentato un’ideale Stanza Segreta del Collezionista, mentre un artista della “scuderia”, Carlo Pasini, stava cercando di completare a terra un singolare mosaico di puntine da disegno su pelle di animale (in realtà un puzzle di elementi di gomma che formano una tipica pelle da camino). Appeso, un altro classico trofeo di caccia: una testa di zebra trafitta da puntine bianche e nere. Non male.

Sino a qui c’è stata una forte omogeneità di proposte e di artisti che sembra evidente provengano, tranne alcuni, da una indicazione critica individuabile con estrema chiarezza. Si è sentita la mancanza di una vera alternativa formale.

Una damigella di bianco vestita, seduta su un’altalena, preparava con studiata lentezza alcuni aereoplani di carta che avrebbe fatto volare a terra senza mai interrompersi. E’ una performance di Barbarauccelli d’inaugurazione della AAM dal titolo No Fly Zone, curata da Chiara Canali. 10 azioni al minuto, 6 ore di rappresentazione, 365 aereoplani di carta sopra i quali sono nominate le identità di persone che risiedono in paesi devastati dalla guerra. Ci vuole un’area di assenza dal passaggio di bombardieri per preservare storie, culture, famiglie. Io raccolsi SahlaSakeenaSaleemaSalmaSalwaSamaahSaniar

Brave a Barbarauccelli e Chiara Canali.

Si discosta dalla “corrente” curatoriale di tendenza, l’artista Eva Gerd, che ha presentato daBarbara Paci (Pietrasanta LU) le sue struggenti ossa calcinate dal sole del Messico e rivestite di sete preziose ricamate con raffinatezza con gli stilemi delle donne del Centro America. L’artista (1963) di origine danese, visse in Messico per tre anni e oggi risiede a Roma. La sua poetica – comune ad altre “donne del ricamo” – si eleva a una qualità formale che raramente è così ineccepibile. Eva Gerd trasporta, mantenendo intatti sacralità del rito e tabù del disfacimento, la bellezza pura in contesti che poche volte sono raggiunti con tale maestria. E, se mi posso permettere, quasi sussurrando, è davvero a un costo – questo sì – accessibile.

Mc2 Gallery (MI) ha offerto al pubblico una selezione di manipolazioni fotografiche dell’artista cinese Yang Yongliang, che immagina funghi atomici all’interno dei quali la città spazzata dal vento nucleare cerca forse di ritrovare un’identità e frammenti di ponti si accavallano a frammenti di palazzi. Opere dalla delicata composizione di un ukiyo-econtemporaneo (è questa l’arte cinese che ammiro!). Bellissime!

Mi sono poi diretta verso un angolo che avrebbe riservato sorprese per le figure dei galleristi (entrambe “anormalmente” attente, appassionate, tese più a decantare le lodi dell’arte che della vendita) e per le proposte che non temono – sotto nessun cielo – di far parte di un dio minore.

The Apartment (NA) esponeva un gioco serissimo di Antonio Riello che da tempo ci abitua al calambour delle armi gentili e qui ha rovesciato i termini del dialogo con il pubblico, intraprendendo la rischiosa strada della falsità del vero e della verità del falso. Noti logo di note aziende di beni di lusso sono resi innocui attraverso una lieve mutazione e inscatolati con premura e considerazione: l’opera ha titolo I Tarokki e stimola – oltre il riso – la riflessione sul concetto di valore dell’opera d’arte che permette la “rivalutazione mitica”, attraverso la mediazione del gesto artistico, di un simbolo considerato di nessun valore, perché spogliato della sua identità primigenia di riferimento. Ma forse ancor più artistico è il complesso gesto diGiorgio Milano che riproduce con grande capacità grafica e tecnica un mondo di quanti (all’origine dell’Universo), declinati in “salsa marina”. La cifra dell’artista è nell’incredibile maestria del fitto intarsio, ottenuto a risparmio sulla tela bianca, che riconduce a moduli tipici dei più abili miniaturisti medievali. I galleristi con cui parlai erano decisamente convinti della bontà del loro protetto, che, fra l’altro, non ha ancora acquisito costi che altrove – ne sono certa – avrebbero ben altri valori.

The White Gallery (MI) è diretta da un gentile signore di origine campana che, trascorsi diversi anni nell’ambiente pubblicitario più stimolante e remunerativo, decise di aprire una piccola società personale nello stesso campo per poter dedicare parte del suo tempo alla ricerca di artisti con cui (un po’ per la sua professione, un po’ per inclinazione pura) condivide la gioia del colore, della rappresentazione teatralmente condotta, del gioco lieve e allegro, perché l’arte deve essere veicolo di felicità. La maggior parte dei suoi artisti proviene dall’Estremo Oriente, Oki Izumi con le sue architetture di cristallo, Kappao, che definisce le sue operine da fumetto serio “pitture in tre dimensioni”, perché è più interessata al colore e alla sua composizione nella definizione delle forme. Sono belli i suoi piccoli omini in legno che si attaccano al muro dai piedi, provvisti di calamite, in posizione perpendicolare ad esso, reggimento sbilenco in miniatura: ognuno di loro, però, parla di una incomunicabile solitudine; bassorilievi (di cui Emilio Isgrò è rimasto affascinato e ha proceduto all’acquisto) che ospitano piccoli ritratti di gente comune lasciano che fuoriesca dalla cornice una testa mostruosa e irridente: noi siamo così, nella realtà e fuori dalla consuetudine che ci vuole “brave persone”.

Uscii nel sole della corte, implacabile come raramente accade in questa stagione a Milano.

Nell’area vasta e chiara sostavano numerose sculture, fra cui (mentre impazza la Carlini, finalmente libera di monumentalizzare almeno un poco) una montagna di scopette da water (è la verità…) rosse e di tre toni di blu di Francesca Pasquali per Colossi Arte Contemporanea (BS) che al MiArt portò il bel feltrone di cui già parlai e una bellissima scultura di Fabio Viale per la Gagliardi Art System (TO), un possente blocco di marmo nero (Stele, 2005) su cui sono scolpite, quasi fossile che un futuro paleontologo o archeologo rinverranno del nostro mondo, le tracce di un grande pneumatico. Un’altra opera da comprare senza esitazioni.

Entrai quindi nella Sala Collina, che si apre nella corte interna, e che ospitava le proposte che più risentivano dell’impronta curatoriale di riferimento che faceva capo, principalmente, a Ivan Quaroni e Chiara Canali. Per quanto m’impegnassi non riuscivo a percepire la stessa leggerezza e chiarità (che pure viene dalla medesima organizzazione) che trovai altrove: qui il curatore ha dettato in senso più stringente le proprie misure dell’arte e qui – a parte un caso del tutto inaspettato e che costituisce la mia segnalazione di “primato” assoluto per questa edizione di AAM (artista la cui scelta in fiera si deve al curatore Matteo Galbiati, che ringrazio di cuore) – l’arte contemporanea si fa già un poco vecchia e, per quanto paia paradossale, storicizzata da un’autocelebrazione che non esce, tuttavia, dalle mura di casa nostra.

Da Leo Galleries (Monza/Lugano) le due brave galleriste, insieme a Matteo Galbiati, mi introdussero alla conoscenza di un giovane (questa volta è vero, per lo meno anagraficamente, avendo egli 23 anni) artista dal percorso già complesso, ricchissimo, colto e rigoroso, del tutto estraneo alle correnti “di massimo richiamo” che a lui – come a me – paiono meteore.

Mi attirava una curiosa composizione di fogli A4 (direi) suddivisi a matita in precise campiture e griglie, a formare settori omologhi ma differenti l’uno dall’altro per impercettibili grafie interne. Incollate ai diversi settori sono piccoli triangoli di legno (di conifera, direi anche qui) le cui venature sono giustapposte per creare anch’esse sole, giochi di contrasto e simmetria. Una sorta di mosaico dalle minute proporzioni e elementi che riconducono tutti all’unica forma primigenia del triangolo adatto a formare, in Natura come in Architettura, la curvatura dei solidi: le cupole e le volte.

Il milanese Cesare Galluzzo mostra una straordinaria maturità e sapienza per aver assimilato secoli di storia dell’arte (anche quella moderna e più recente) con un fervore e una sicurezza di citazione già originalmente rielaborata che lasciano letteralmente sbalorditi. Sa. E sa come fare. Senza alcuna esitazione nel campo dell’astrazione più pura e classica, con riguardo alla tradizione della nostra Scuola. “Da tempo” (ossia pochi anni fa, che per lui rappresentano la post-adolescenza) si misura, l’arte come guida di vita, con i temi dell’equilibrio, della simmetria, dell’indagine degli equilibri universali e della lotta che la Natura deve intraprendere per mantenere saldo il proprio predominio sulla res cognita. Senza che mai si possa svelare per ciò che è, senza cedere alla tentazione di emergere con aspetto riconoscibile. Tant’è che le opere in fiera (parte di un ciclo di tre, di cui la terza – Fuga – non poté essere presentata perché doveva essere collocata a terra) costituivano i diversi stadi della “natura” della Natura: il primo, già descritto, che si ispira alla forma delle élitre delle coccinelle, la cui composizione è fatta di minimi triangoli assemblati per mantenere curvatura e mobilità anche ripiegate sotto il riparo delle piccole ali esterne, è Mimetismo e individua le infinite (come possono essere infinite le possibilità di combinazione delle forme) capacità di nascondere attraverso ciò che davvero appare al mondo sensibile; il secondo, contrapposto alla parete, è Apparire minaccioso, tre fogli di dimensione maggiore, sempre suddivisi in settori dal segno di una matita precisissima entro i quali, inseriti a punta di lancia, i triangoli di legno si dispongono in posizione di attacco contro il nemico creando con ciò mille giochi di luce riverberata e mille forme che caleidoscopicamente si rompono non appena ti avvicini. La serie è del 2011 e rappresenta l’estrema produzione dell’artista.

Non posso esaurire in poche righe la profonda conversazione con il giovane che mi convinse di più a Milano quest’anno. Invito caldamente alla sua scoperta, anche delle opere più “antiche” (del 2005!), per comprendere cosa significhi amare davvero la conoscenza e sapere come farla propria con un talento e un gesto che invitano alla riflessione su come si dovrebbe scegliere la giovane rappresentanza dell’arte italiana contemporanea. Per ricostruire una Scuola senza tradire la radice della pianta. Io cedetti e chiesi all’attenta Direttrice della sede di Monza di poter vedere altre opere il giorno seguente che mi furono gentilmente portate. L’impressione d’eccellenza e la seconda conversazione confermarono la gioia e la certezza della scoperta.

EPILOGO E CONSIGLI PER LE ORGANIZZAZIONI

Difficile all’interno del mondo piccino dell’arte italiana far convergere gli intenti degli “operatori”, difficile che qualcuno lasci ad altri il permesso di partecipare a un progetto (anche minimo) fondato sulle proprie idee.

Ma non si può più, oggi, evitare di fare sistema, pena la scomparsa della specie che si vuole difendere (a parole).

Le due fiere si fondano, rimanendo nelle sedi distinte (così da spezzare l’effetto dell’unico sito, burosaurico e impossibile da digerire per il pubblico), anche perché la capziosa distinzione fra “arte accessibile” e “arte costosa” non esiste. In entrambe le fiere è stato possibile reperire opere ottime a prezzi relativamente contenuti, e trovo mistificatorio (e demagogico) dichiarare “accessibile” una cartina incisa a 2.000 euro…

Dipende solo dalla qualità dell’arte e dipende dalla cultura del gallerista se un’opera può essere venduta o meno. Ciò che può sembrare molto a 40.000 euro, può rivelarsi in alcuni casi uno sforzo economico che vale la pena di affrontare.

Il mercato dell’arte va sostenuto. E reso, in Italia, nuovamente internazionale. Questa pecca deve essere cancellata .

La freschezza di AAM ben si concilierebbe con una freschezza (digrezzata, però) internazionale nello stile di Frieze o St’Art, ma deve per ora dipendere e collegarsi al MiArt, nel reciproco interesse, al quale del resto fa costante riferimento anche per il frenetico incrocio dei “curatori” ansiosi di comparire ovunque.

Checché annuncino i trionfali Comunicati Stampa, nostro malgrado, l’Italia è tornata provincia dell’Impero in campo artistico: ogni ostacolo che conservi questo stato di fatto e intenda rifiutare il contraddittorio con l’oltreconfine deve essere abbattuto in grande velocità.

Le commissioni di esperti per costruire una fiera d’arte devono essere del settore e internazionali . Si deve investire per allargare il mercato delle nostre gallerie ma soprattutto dei nostri artisti, di cui alcuni non temono confronti con altri più acclamati sulle piazze di Londra, Parigi e New York.

Assuefarsi al teatrino interno del nostro curatorume intento a fiutare le strade trendy dell’arte internazionale per riproporle da noi a basso costo (culturale) non è più questione che i veri “operatori della cultura” possano tollerare.

Non è per un caso, se da una tale confusione di mezzi e di voci, che però fanno tanto rumore, non si è saputo imporre nient’altro che un nazional-popolare come Sgarbi (che critico non è, men che meno di arte contemporanea) quale condottiero alla prossima Biennale veneziana di un Padiglione Italia che non saprei neanche più come definire, dalla disperazione.

Se critici nostrani devono sfidare in contraddittorio quelli stranieri (in un benefico guerreggiare che non preveda sudditanza) devono elevarsi i toni del confronto: far partecipare le Università, gli storici dell’arte, gli studiosi di caratura extraitaliana.

E chi se ne frega delle fronde interne…

Altrettanto si mettano in gioco i mercanti e gli esperti del settore (che meglio hanno lavorato, e si vede, in AAM) e passare dalla parte dell’organizzazione, dedicandosi per tutto l’anno sino alla produzione di una grande fiera d’arte milanese che coinvolga tutta la Città e non solo due o tre isolati dei soliti vernissage-addicts che approfittano dell’occasione per allestire interventini di poca sostanza con le loro cricche annoiate.

Non ultima, anzi al primo posto, è la necessità di coinvolgere l’Ente Civico che si deve sentire parte attiva nella diffusione della nostra cultura non solo artistica ma anche commerciale. Perché la cultura passa di mano in infiniti modi (in primo luogo con l’educazione alla stessa, beninteso, già piuttosto carente), ma sono i collezionisti che forniranno il “materiale” – come sempre fecero – per permettere a Assessori e Sindaci di pavoneggiarsi immeritatamente durante le inaugurazioni di nuovi Musei.

Che l’arte passi all’attacco! E non tema di usare gli strumenti temprati di cultura e denaro ben speso.

Ogni arma è lecita in battaglia e in amore.

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