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L’ARTISTA E LA SUA REALTÁ

L’ARTISTA E LA SUA REALTÁ

di Mark Rothko

 

Qual è l’immagine popolare dell’artista? Mettete insieme un migliaio di descrizioni e il risultato composito che ne verrà fuori sarà il ritratto di un idiota: egli è ritenuto infantile, irresponsabile nonché ignaro o ottuso nelle faccende quotidiane.

Un ritratto che non comporta necessariamente una censura o una forma di crudeltà. Queste mancanze vengono attribuite all’intensità della preoccupazione dell’artista per la sua peculiare fantasia nonché alla natura oltremondana propria all’immaginario. La tolleranza benigna accordata al professore distratto è estesa all’artista. I biografi contrappongono la grettezza dei suoi giudizi alle realizzazioni sublimi della sua arte, e mentre si sparla della sua ingenuità o della sua malizia, queste sono considerate come segni di Semplicità e di Ispirazione, che sono le Ancelle dell’Arte. E se l’artista si esprime con difficoltà e non dispone della consueta miniera di fatti e di informazioni, è una fortuna, si dice, che la natura abbia escogitato un modo per distoglierlo da ogni distrazione mondana, così che possa focalizzarsi esclusivamente sul suo incarico singolare.

Questo mito, come tutti i miti, ha la sua fondatezza. Asseconda anzitutto la convinzione diffusa sulle leggi di compensazione, per cui un senso si affina a discapito di un altro. Omero era cieco e Beethoven sordo. Un inconveniente per loro ma una fortuna per noi, data l’accresciuta lividezza della loro arte. Ma, soprattutto, rafforza la fede dura a morire nella qualità irrazionale dell’ispirazione, rinvenendo tra l’innocenza dell’infanzia e i turbamenti della follia quella perspicacia genuina che non è concessa all’uomo ordinario. Quando si pensa all’artista, si aderisce ancora alla visione di Platone, come è stata espressa nello Ione in riferimento ala poeta:”Incapace di poetare, se prima non sia ispirato dal dio e non sia fuori di senno, e se la mente non sia interamente rapita”: Sebbene la scienza, con bilance e strumenti di misurazione, minacci quotidianamente di recidere il mistero dall’immaginazione, la persistenza di questo mito è l’omaggio involontario che l’uomo paga alla penetrazione del suo sé intimo, nel differenziarsi dalla sua esperienza assennata.

Per quanto possa sembrare strano, l’artista non si è mai lamentato nel vedersi rifiutate quelle virtù degne di stima di cui glia altri uomini non potrebbero fare a meno: capacità intellettive e discernimento, conoscenza del mondo e condotta razionale. Al contrario, può persino essere accusato di avere incoraggiato tale mito. Nel suo diario segreto, Vollard racconta che Degas fongeva di essere sordo per sottrarsi alle discussioni e agli sproloqui riguardo a soggetti che reputava fuori luogo e disdicevoli. Non appena l’interlocutore o il soggetto cambiava, il suo udito si affinava immediatamente. C’è da meravigliarsi della sua avvedutezza, poiché egli doveva aver soltanto supposto quanto noi oggi sappiamo per certo: che la ripetizione costante della menzogna è più convincente della dimostrazione della verità. E’ quindi comprensibile come l’artista possa effettivamente coltivare questa aria da stolto, questa sordità, questo mutismo, nello sforzo di sfuggire alle migliaia di considerazioni irrilevanti che si accumulano ogni giorno intorno al suo lavoro. Mentre l’autorità del dottore o dell’idraulico non è mai messa in questione, chiunque si reputa un buon giudice e un arbitro adeguato di che cosa dovrebbe essere un ‘opera d’arte e di come dovrebbe essere fatta.

Non inganniamoci con visioni di un’età dell’oro affrancata da questa cacofonia: questa in doratura eè un falso artistico. Noi stessi abbiamo a che fare con l’illusione e sappiamo quanto i sogni possano sembrare animati. E un’età come la nostra, che richiede un confronto sereno con la realtà, non ci concederà il piacere di un narcotico. Consapevoli che le tribolazioni dell’uomo, perlomeno, non lo abbandonano mai, possiamo affermare con sicurezza che l’artista del passato aveva altresì buone ragioni per recitare la parte del matto, in modo da custodire quei momenti di pace, quando si riuscivano a placare le richieste dei demoni, per consacrarsi all’arte. E se, difatti, la natura trovava il modo di conferirgli l’aspetto di un folle, meglio così, perché la dissimulazione è un’arte impegnativa.

Non sempre a tucti è sì pregiato e caro

Quel che’l senso contenta,

ch’un sol non sia che’l senta,

se ben par dolce, pessimo e amaro.

Il buon gusto è sì raro

Ch’al vulgo errante cede

In vista, allor che dentro di sé gode.

Così, perdendo, imparo

Quel che di fuor non vede

chi l’alma ha trista, e’ suo sospir non ode.

Il lamento appartiene a Michelangelo (una traduzione di questo madrigale si trova in Rime e Lettere di Michelangelo). Persino questo grande uomo – che ha vissuto in un’epoca in cui il rapporto tra il mondo e l’artista sembrava essere ideale, quando le feste e le processioni celebravano l’ultimazione dei lavori degli artisti rinomati, per le cui prestazioni duchi, papi e re combattevano – sopportava parzialmente il peso della calunnia e della riprovazione. I principi della sua arte erano costantemente messi sotto accusa e, dopo avere sventato queste critiche, la sua morale era ritenuta insufficiente. Aretino attaccò la nudità delle figure nel Giudizio universale, giudicandole incompatibili con la pietà cristiana. Il buon senso dell’appunto dell’Aretino non può essere negato: la visione michelangiolesca della Corte Celeste potrebbe essere facilmente presa per un incontro orgiastico. Hanno sempre ragione, questi dottori e questi moralisti! In che modo simile ai critici e ai moralisti della nostra società, le loro verità sono così accurate e il loro argomentare così sottile: ma quale falsità disastrosa alla causa della veritò!

Molte società del passato hanno istituito affinché le loro valutazioni specifiche sulla verità e sulla morale fossero raffigurate dagli artisti. Di conseguenza, l’artista egizio dovette produrre un prototipo prefissato una volta per tutte; l’artista cristiano dovette attenersi alle prescrizioni del secondo Concilio di Nicea o essere colpito da anatema oppure, come il monaco nell’era iconoclasta, lavorare nel pericolo e di nascosto. Potremmo osservare che i nudi di Michelangelo furono alla fine costretti a ricoprirsi con le braghe e con i drappi appropriati. L’autorità formulava le regole e l’artista vi si atteneva. Non tratteremo in questa sede di coloro che, con la loro audacia, hanno dato periodicamente nuova linfa all’arte, salvandola dall’imitazione narcisistica di se stessa.

Possiamo sostenere con esattezza che, durante questi periodi, l’artista era costretto a piegarsi a tali regole o a fingere un’aria sottomessa, affinché gli fosse concesso di esercitare la sua arte.

Il destino dell’artista è oggi lo stesso: il mercato, rifiutando o rendendo disponibili i mezzi di sussistenza, esercita, come si può osservare, la stessa coercizione. Vi è pertanto una differenza vitale: le civiltà prima ricordate detenevano il potere temporale e spirituale per far valere, per sommi capi, le loro richieste.

I Fuochi dell’Inferno, l’esilio e , sullo sfondo, la ruota e il rogo, servivano da correttivi là dove la persuasione veniva meno. Oggi il mordente èla Fame, e l’esperienza degli ultimi quattrocento anni ci ha dimostrato che questa fame non è così impellente come l’imminenza dell’Inferno e della Morte. In seguito alla scomparsa del mecenate spirituale e temporale, la storia dell’arte è la storia di uomini che hanno in gran parte preferito la fame alla remissività, ritenendo che la scelta valesse la pena. E si tratta di una scelta vera e propria, se teniamo in considerazione la distanza tragica che separa le due possibilità.

La libertà di morire di fame! Un paradosso, certo. Ma trattenete le risa e non sottovalutate il privilegio che viene concesso di rado e ottenuto a caro prezzo. Il rifiuto di questo diritto non è meno paradossale: pensate ala criminale condannato a morte che si rifiuta di mangiare e che, se ve n’è bisogno (…)

Tratto da:
Mark Rothko – “L’artista e la sua realtà” – Filosofie dell’arte
Edizioni Skira, 2007, PMilano

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  • “La libertà di morire di fame”…! Un grande. Sempre accusato di essere “decorativo”. Ha sfidato il mercato con le sue azioni masochiste. Ha ritirato le opere dal Four Season, poi le ha proposte alla Tate Gallery, e -molti anni dopo- il giorno in cui sono arrivate al grande museo, che le aveva finalmente accettate, si è tolto la vita. Ritrovato, si dice, in una pozza di sangue che pareva una sua campitura. Quanto alla pazzia conveniente, anche un “semplice” cantautore come Pino Daniele ha cantato: “Io so’ pazzo, non mi scassate o’ caxx..”. Lampante accordo tra Pino e Mark.

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