La tragedia dell’ 11 settembre ha lasciato tante voragini. Non solo i due enormi spazi vuoti a Ground Zero, ma anche fastidiosi buchi nelle anime di ognuno di noi. Pensavamo che dopo l’Olocausto, nulla di così brutale sarebbe più accaduto. E invece… Si è cercato di riempire quelle voragini in tanti modi, tentando invano di trovare un Perché al gesto assurdo di uomini che dirottano aerei e si schiantano contro grattacieli. Il cinema non ha esitato a schierarsi in prima linea e ha affrontato la questione senza troppa originalità.
Stephen Daldry, però, è andato oltre, ha squarciato il velo di Maya e centrato l’obiettivo.
Stavolta non ci sono più gli eroici passeggeri degli aerei dirottati, che vanno incontro al loro destino combattendo e facendosi portatori di un orgoglio patriottico che solo le tragedie possono smuovere. Stavolta non ci sono impiegati intrappolati nelle torri e coraggiosi pompieri che si immolano per salvarli.
Daldry ha sfoderato nuovamente il suo istinto pionieristico e si è posto una domanda che a nessuno, almeno nel mondo del cinema, è mai balzata in mente: cosa ha provocato quell’attentato e la perdita di una persona cara in un bambino? Soprattutto in un bambino “moderno”, impaurito dal mondo che lo circonda e dalle persone che lo popolano. Il regista di “Billy Elliot”, “The Hours” e “The Reader” lo ha fatto e ha dato vita ad un capolavoro: “Molto forte, incredibilmente vicino”, tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer, acclamato da critica e pubblico.
Oskar Schell è un bambino dotato di una vivace intelligenza, una spasmodica curiosità e un’implacabile determinazione. Purtroppo è anche fragile e insicuro, spaventato da mille cose che lo circondano e che lo portano a sviluppare fobie e ossessioni. Il padre,osservatore e lungimirante, che lo aiuta a superare le sue paure forzandolo con furbizia e sagacia, però, perde la vita durante l’attentato al World Trade Center. Questo evento getta il bambino nel panico e ne acuisce le ossessioni, che non accennano ad affievolirsi neanche un anno dopo “Il giorno più brutto”. Basta una chiave trovata per caso in un vaso, per convincere Oskar che quello è un indizio lasciato dal padre, affinchè si lanci in un’altra delle cacce al tesoro con cui spesso lo metteva alla prova per sbloccarlo dai suoi stessi limiti. Inizia così il suo, ma anche il nostro, viaggio nella New York dimenticata dei dimenticati alla ricerca non tanto di un tesoro, ma di innumerevoli perchè.
Con riprese ravvicinate ed insistenti, che si intrufolano nei paesaggi e nelle cose proprio come i meravigliosi occhi tristi di Oskar, il regista ci spinge a seguire il bambino durante il suo percorso, sebbene a volte si insinui la voglia di girarsi dall’altra parte e aspettare che la scena cambi. No, Daldry ci toglie con violenza le mani dagli occhi e ci obbliga ad ascoltare Oskar e le sue elucubrazioni articolate e morbose, ad assistere alle stesse scene pietose e drammatiche che anche lui vive. Ma, soprattutto, spalanca le porte della nostra anima e strappa quel dubbio che, guardando in Tv le immagini del crollo delle torri fino a oggi, ci ha sempre accompagnato: Perché? Perché proprio quelle 3000 persone che si trovavano, chi per affari, chi per un giro turistico, in quelle dannate torri gemelle? Questo interrogativo lo fa gridare a Oskar ogni volta che si imbatte in un ostacolo e sente scivolare via la soluzione dell’enigma che è deciso a risolvere. Quella domanda è il martello pneumatico che il bambino punta contro gli adulti che incontra nel suo cammino, ma che sono i primi a fare orecchie da mercante, portatori di quell’orgoglio che si acquisisce solo con il passare del tempo e che conduce ad ignorare quando non si ha la risposta in tasca.
Proprio gli adulti sono presi di mira dalla pellicola, che ne porta a galla le mancanze e ne smonta definitivamente il mito che i bambini sono soliti costruirsi. I giganti cadono e fanno un tonfo assordante, tanto quanto quei rumori rombanti che terrorizzano Oskar. Ecco che è impossibile non paragonare la perfezione del Signor Schell ai deficit di tutti gli adulti, ma, soprattutto, delle figure maschili (il nonno dal passato torbido e il Signor William Black) che incappano nel viaggio del bambino e che finiscono col sovrapporsi alla figura paterna.
La regia vivace, meticolosa e scomoda assieme ad una colonna sonora delicata e non troppo intrusiva valorizzano la recitazione di attori che superano se stessi. Tom Hanks, Sandra Bullock, Thomas Horn, Viola Davis, Jeffrey Wright, Zoe Caldwell e infine il mostro sacro Max Von Sydow si liberano della loro fama e si calano alla perfezione nei panni dei loro personaggi, conquistando con decisione lo spettatore. Non a caso la pellicola è già candidata all’Oscar come Miglior Film e lo straordinario Max Von Sydow è in lizza come Miglior Attore Non Protagonista.
Dopo tutti i film che sgomitano per conquistare il Box Office, finalmente ne arriva uno che punta sulla qualità a 360° e che regala emozioni vere, forti anche se scomode. Nonostante l’argomento sia delicato e la compassione raggiunga i massimi storici, non scatta mai la voglia di alzarsi dalla poltrona o di guardare l’orologio. Gli attori, la storia, i colori e una New York insolita vista dalla prospettiva di uno alto un metro e qualcosa incantano. E allora seguiamo Oskar fino in fondo al suo viaggio e impariamo a convivere col dubbio, a gestire i ricordi e a tollerare tutto ciò che è molto forte, incredibilmente vicino.
Molto Forte, Incredibilmente Vicino
Paese/anno: USA / 2012
Regia: Stephen Daldry
Interpreti: Tom Hanks, Sandra Bullock, Thomas Horn, Viola Davis, Jeffrey Wright, Zoe Caldwell, Max Von Sydow
Durata: 129’
Uscita: 23/05/2012