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Koons e i limiti di un’infanzia felice

Sono stato a vedere la mostra di Jeff Koons alla Fondazione Beyeler. Ho letto su questo sito che i cittadini di Riehen si sono lamentati e che la stampa locale ha attaccato la mostra. Sono entrato con l’inevitabile curiosità mista ad ammirazione per uno degli artisti più famosi del mondo. La prima sala è spettacolare, sembra una clinica svizzera con tutte le aspirapolveri messe nelle vetrine che diventano delle icone moderne con la luce al neon che le illumina, come dei Damien Hirst fatti qualche anno prima. Un allestimento perfetto. Mi ricordo che vent’anni fa avevo visto a Londra una mostra da Anthony d’Offay con delle vetrine con dentro le palle da baseball. Altrettanto meravigliose. Tutta l’opera di Jeff Koons vive grazie a una pulizia dell’immagine esemplare. Ma poi nella stanza successiva m’imbatto in uno dei suoi famosi pupazzetti, così come in tutte le altre, che sono riempite con una quantità di “pupazzotti” vari eseguiti a meraviglia e che ti incantano per l’esecuzione perfetta. A me -come agli abitanti di Riehen- danno fastidio. Mi irritano, e mi chiedo se sono anche io così bigotto come loro? La mia deliziosa fidanzata dice che lei da bambina, con quello lì sulla sinistra, ci giocava. Io no, sarà per questo? Avrò avuto un’infanzia triste e non capisco? Poi penso che lui vuole proprio questo, vuole stare sulla superficie stupida. La sua forza sta lì, non cerca il dramma, non è arrabbiato. Giravo e cercavo di capire.. Poi sculture miste a quadri, alcuni veramente belli, con questa sua innegabile capacità di creare delle opere partendo da delle immagini semplici. Quella del gelato sembra vero, proprio dei Rosenquist eseguiti alla perfezione. E il famoso Michael Jackson, che non avevo mai visto dal vero e che è solo più grande di come lo avevo immaginato, ma veramente orrendo. L’emblema perfetto del cattivo gusto di una casa californiana col salotto violetto che non si capisce come siano riusciti a farcelo digerire. Ogni tanto un immagine forte che serve per creare quello shock necessario perché sia credibile, ma lì, alla Beyeler, quelle porno con la nostra Cicciolina non c’erano, perché erano troppo hard anche per gli svizzeri della Fondazione e non solo per gli abitanti di Riehen. L’idea di lavorare per costruire la propria gloria, diventando un’icona per i miliardari che si trovano sparsi qua e là nel mondo, ci irrita. Senza un tassello fuori posto, ma se non costasse le cifre che costa, forse diremmo solo che è divertente. Invece no, dobbiamo dire che è un genio, il più grande artista del mondo, quando a me è solo simpatico quando racconta del suo dramma di non poter vedere il figlio portatogli via dalla moglie porno star. Non ci vuole far pensare, ci dice che siamo belli, sorridiamo strafottenti e stupidamente intelligenti. Ma poi, alla fine, qui dentro si respira un’aria già vecchia. Ci viene in mente, anche se solo per un attimo, la mostra di Brancusi dell’anno scorso. Ma Jeff che è l’artista più famoso del mondo invece è già vecchio quando ci sorride. Rappresenta il passato e la battaglia che pensava di aver vinto l’ha fregato. La storia è bestiale, e qui la fondazione non gli dà una mano, anzi, lo fa diventare solo una garanzia per i ricchi di ogni paese del mondo. Il vero problema è che alla fine della mostra dopo due piccole sculture di ceramica bianca con dei “giocattoloni” hanno messo un Andy Wharol con dei fiori, e allora capiamo che si fa sul serio. Andy Wharol ne avrà fatti migliaia di dipinti con quei fiori. Ma ognuno di questi è certamente centomila miglia più avanti. Ci parlano ancora, ci fanno pensare che abbiamo un futuro, che la vita non è solo una scatola di cioccolatini realizzata alla perfezione.

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2 Commenti

  • Caro Giovanni,
    vero, anche io ho visto la mostra e ho vissuto l’emozione di fresca poesia di fronte ai fiori di Andy Warhol posti “così” in un corridoio dopo la fine della mostra di Koons. Concordo con le tue impressioni, anche se le aspirapolvere non mi sono piaciute e ho dato il merito alla bellezza delle scintillanti bacheche. Ma sarà forse che sulla scia di Warhol, Jeff ha esasperato quanto di non manuale c’era già nell’opera di Andy, alla quale siamo, forse, già più assuefatti. Entrambi, maestri di marketing. Koons ha lavorato allo sportello del MOMA, se non erro, e poi 5 anni alla borsa di New York. Da lì è uscito, sono certo, con un valido gruppo di “investitori”, un business plan per lanciare il suo nome d’artista come un brand industriale “alto di gamma”. E, quando occorreva per rilanciarsi più in orbita, un vero scandalo sentimental sessuale ha fatto il resto. Koons ha 70 dipendenti? Si presenta talora alle mostre in doppiopetto e cravatta, mica diniega il forse-patto che scendendo all’inferno può aver stretto con la finanza. E’ per questo che continuo a spiare il maestro Koons, a parte la sua opera, che è comunque interessante, anche se non la mia preferita: semmai preferisco Murakami. E poi, hai visto? Che invidia! Quella foto di lui Jeff bambino coi pastelli in mano a inizio mostra! Ma come… io alla borsa ho lavorato sì, ma pure disegno da quando avevo 3 anni…non ci avevo pensato…corro subito a casa di mia madre a cercare tra le mie vecchie foto per sbandierare purezza sui muri delle mie mostre!

  • Mai più azzeccato commento di questo. Allorquando si capisce (e lo capisce, prima ancora del gossip di genere che su questi argomenti ci sguazza, un artista vero come Giovanni) che l’arte, per essere tale, deve essere assai poco legata a una “contingenza” o rispondere a un “bisogno”, perché improvvisamente invecchia e mostra la sua mancanza di atemporalità, quindi di valore. Così come, di Koons, sono infinitamente più coinvolgenti e geniali le prime pitture o le prime aspirapolveri che sembra urlino la fine dell’era pop pur con malizia malcelata, tanto più sono inutilmente bizzarre le repliche piacione pupazzare che ne prolungano un’agonia da merce costosa e non altro.
    E tutto questo senza alcuna polemica sul “gusto” che ha informato il mercato (statunitense) degli ultimi vent’anni, ma con il corretto appunto legato all’ovvio: “se non costassero così tanto, cosa sarebbero”?
    Tristezza e irritazione, che si riscattano alla vista di un’opera senza tempo e spazio che – in coda – mostra quale sia la lezione dell’universalità dell’arte da imparare. Pur se le quotazioni – anche lì – sono alte, anzi altissime, anzi: ancora più alte.

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