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Kabokov e Prieto all’Hangar

“WOW!”. Entriamo per l’ennesima volta all’Hangar Bicocca e la prima cosa che ci viene da esclamare -una volta scostata la tenda nera che divide l’atrio dallo spazio espositivo- è stata proprio questa: WOW. L’Hangar non smette mai di stupire, anzi, sta cercando di dare il meglio di sé, provando a raggiungere un qualcosa che quantomeno odori di mostre internazionali. Ad accoglierci le immancabili e sempre affascinanti Torri di Kifer che non smettono mai di ammaliare e dipanare magia. Questa volta però, il nostro stupore è scaturito dal contesto che circonda queste torri. Di fianco ad esse, infatti, si trovano le installazioni dell’artista Wilfredo Prieto, nato nel 1978 a Sancti Spiritus, Cuba, sbarcato a Milano con la sua mostra “Equilibrando la curva”, visitabile fino al 2 Settembre 2012.

Appena varcata la soglia d’ingresso ci troviamo dinnanzi un mucchio di paglia con al suo interno un ago -ci dicono- che nessuno troverà mai. Neanche questa volta. Anche perché ci è severamente impedito di toccare l’opera. Il mito non sarà mai sfatato e il detto popolare continuerà ad essere sulla bocca di tutti. Inutile sfidare l’impossibile.
Di fianco a questo immenso ammasso di paglia un autobus dell’Atm. Di quelli lunghi, tipo la 90. La gente si accosta al mezzo e guarda sotto le ruote. Sembrano pazzi. Qualcuno chiede ad alta voce perché tutti guardino proprio là sotto. Una radical chic ci risponde che una ruota del bus è poggiata su di una moneta da un euro: “Sa, il titolo è proprio equilibrando la curva”. Ci spiega la Signora. Ora sì che è tutto molto più chiaro. Bah. Proseguiamo all’interno dell’Hangar e ci ritroviamo sotto una nuvola imponente di sette chilometri di filo spinato che sembra d’argento. Incantevole. Verrebbe voglia di arrivare fino in alto per toccarla con mano, a costo di ferirsi gravemente e di vedere scorrere il nostro sangue sulle teste dei visitatori. E’ così magnetica, sembra soffice dal basso. E brilla. Di fianco ad essa c’è una betoniera che si sta cementificando da sola. La pazzia regna sovrana. Ma non per Prieto. Camminiamo, e di fianco al cemento -vero- c’è un sasso poggiato per terra che si riflette tutto solo dinnanzi ad uno specchio poggiato al pavimento. Cerco il riflesso dei miei piedi, per cercare un contatto con la realtà. Ma non sono sicura di averlo trovato..
A fianco del piccolo sasso, una minuscola perlina dà vita un percorso costruito con un gran numero di sfere di tutte le dimensioni possibili con oggetti di tutti i tipi, uniti tra loro, in fila, e che in maniera crescente conducono ad un enorme sfera finale. Una palla arancione che consiste in un’arancia gigante, al cui interno un ragazzo di colore distribuisce bibite fresche e vodka ai visitatori -vietato dare alcolici ai minorenni cita il cartello. Ironico, disarmante, Wilfredo è questo e molto altro. E’ con un sorriso sulle labbra che l’artista ci vuol far riflettere su dei temi importanti. Senza prendersi troppo sul serio, facendoci vagare tra questi oggetti, anche di vita quotidiana, ma infarciti di una sorta di surrealismo. Un universo spiazzante e visionario. E’ vero, Prieto indaga le contraddizioni umane in modo giocoso. Temi come la politica, l’economia e l’ambiente sono gli argomenti che gli stanno più a cuore e cerca di affrontarli in questo modo, con un sorriso sulle labbra. Forse pieno di amarezza.

A pochi passi dalla mostra di Prieto -a dividerli solo una tenda nera- ecco l’opera di Ilya e Emilia Kabakov, una coppia nata nell’Ex Unione Sovietica che si conobbe però a New York nel 1989. Il titolo è “The Happiest Man”. Qual è l’uomo più felice secondo i due artisti? Colui che dall’interno della sua umile dimora riesce ad evadere dalla realtà continuamente.

Dentro il Cubo dell’Hangar, infatti, è stata ricostruita una sala cinematografica e di fianco a essa una scatola nella scatola. Una ricostruzione di una piccola abitazione arredata con ogni dettaglio. Entriamo, e ci sembra di invadere una sorta di intimità domestica abbandonata a se stessa. Piatti sul tavolo, sedie, suppellettili di ogni tipo poggiati sui mobili, divani, un libro ancora aperto che mostra le sue pagine al visitatore di turno. Quasi si sente l’odore della polvere. Dalle mura uno scorcio. Una finestra si apre proprio di fronte al mega schermo. In un punto preciso della stanza, l’uomo più felice degli uomini, può passare il suo tempo a guardare fuori dalla finestra, vedendo ininterrottamente proiettate le immagini di film russi in bianco e nero e a colori degli anni ’30, ’40, ’50. Chiuso tra le quattro mura, quell’individuo, apparentemente solo, potrà librare sereno sulle ali della sua fantasia. Nessun contatto esterno, nessuno intorno. Pura e continua evasione da una realtà troppo spesso opprimente. Sempre merito di Chiara Bertola l’idea per questa mostra, per il progetto “Opere contro il tempo”, che ripropone alcune delle installazioni dei più grandi artisti internazionali degli ultimi decenni in una nuova versione site specific.

Due mostre, due artisti (anzi tre con la moglie di Kabokov) che vengono da due paesi lontani ma simili per la loro storia. Due paesi comunisti dove almeno la fuga mentale dalla realtà era lecita. Si cercava di scappare da un regime totalitario almeno con la fantasia e con la magia dell’arte. Perché quello che a noi può sembrare pazzia, a volte, per altre anime sensibili e provate da condizioni di vita difficili può invece rivelarsi semplice sopravvivenza.

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