In un’epoca ormai lontana i turisti bianchi venivano “scortati” dentro Harlem: chiusi nei torpedoni, finestrini sigillati, una traversata veloce e poi via verso la Manhattan “sicura”. Nessuno ha nostalgia dei tempi violenti, quando la tv svedese filmava documentari sul Terzo mondo nel cuore della Grande Mela, la miseria e il degrado, le gang dei narcos e l’ecatombe dell’Aids.
FOTO I murales del Picasso di Harlem 1
Oggi Harlem è il nuovo Greenwich Village, un quartiere “cool”, ricercato da intellettuali creativi e giovani coppie di professionisti. Aprì la strada Bill Clinton scegliendolo per il suo ufficio newyorchese, dietro di lui un’orda di benestanti ha preso d’assalto i bei palazzi in stile olandese, retaggio della prima colonizzazione dell’isola di Manhattan.
“Gentrification”, imborghesimento, il fenomeno ha dei vantaggi: per le vie di Harlem passeggiano tranquilli anche a notte fonda i patiti di jazz che affluiscono nei locali storici, dall’Apollo Theater alla Lenox Lounge. Inclusa una élite nera che si “riprende” la sua Harlem con orgoglio ma la vuole ripulita, restaurata, accogliente.
È in quest’opera di risanamento che scompare un tesoro artistico: i murales di Harlem. Un museo all’aperto, una collezione di capolavori dell’arte povera, bellezze offerte gratis agli abitanti. Ce n’erano più di duecento. La maggior parte firmati dallo stesso autore, un Raffaello di strada: Franco Gaskin detto “Franco the Great”, che oggi ha 82 anni.
Cominciò a dipingere 35 anni fa, spesso su temi impegnati, sulla condizione degli afroamericani e le battaglie per i diritti civili: tra i suoi capolavori un ritratto di Martin Luther King in lacrime. Oppure affreschi di vita e di cultura, segnati dalla musica jazz che qui sembra emanare dall’asfalto umido. Per le sue pitture murali, concentrate soprattutto sulla 125esima Strada, Gaskin è una celebrità mondiale. Solo Harlem lo dimentica.
I murales scompaiono, all’ultimo sopralluogo “Franco il Grande” ne ha ritrovati solo 25. Sembra una beffa crudele: è tutta colpa della maggiore sicurezza. La specialità di Gaskin sono i dipinti sulle saracinesche. Il primo lo creò per occultare dei graffiti, coprendoli con una visione onirica di Manhattan, Statua della Libertà in primo piano. Al proprietario del negozio piacque il risultato, più decorativo rispetto alle tracce lasciate dai graffitari con le bombolette spray. Da quel momento Gaskin si sentì investito da una missione: rendere Harlem più bella e più gentile, una saracinesca alla volta. Negozi, magazzini, botteghe artigiane, il microcosmo dell’economia locale incoraggiò la sua creatività.
Franco il Grande ha una vena ottimista, ispirata, vicina a quella dei pastori evangelici che infiammano l’entusiasmo dei fedeli con le loro prediche cantate a ritmo di spiritual o hip hop. Tra le sue opere più belle ancora “sopravvissute”, c’è un Michael Jackson con ali d’angelo, sollevato verso il Paradiso da due guanti bianchi candidi come quelli che indossava lui, sovrastato da una scritta che dice “Sono in buone mani”. Altri murales su ferro rappresentano gruppi di ballerini a ritmo di jazz, o le “Sophisticated Ladies” di Duke Ellington. Ce n’è uno che lancia lo slogan “Think Positive”, pensate positivo, sullo sfondo rappresenta una cassaforte aperta dove sbucano pile di banconote verdi. Le banconote oggi piovono davvero dal cielo di Manhattan. Con la rinascita di Harlem, che bisogno c’è di saracinesche? La delinquenza di strada è scesa ai minimi storici, la saracinesca che fu la “tela” per l’arte di Gaskin, lascia il posto a vetrine scintillanti. I preziosi murales dell’artista finiscono in rottamazione, smontati e gettati nelle discariche.
“Vogliono che Harlem assomigli alla Quinta Strada”, ha osservato Gaskin di recente, “per attirare ancora di più il nuovo pubblico di bianchi”. Lui aveva cercato di “rendere più bello questo quartiere quando tutti lo disprezzavano e c’era una sorta di maledizione su Harlem”. Voleva che “gli abitanti vedessero un’altra realtà”. Ma non quella dell’omologazione, delle vetrine patinate che potrebbero essere in qualsiasi altra strada di Manhattan o shopping mall d’America. “È sconvolgente, tutto il lavoro che ho fatto per questo quartiere è stato dimenticato”, osserva amaro l’artista.
Solo adesso che il danno maggiore è stato fatto, nasce finalmente un’associazione di quartiere per la preservazione dei murales. L’ha creata Dana Harper, un ex poliziotto in pensione, che da giovane pattugliava le strade di Harlem quando la pallottole perdute erano all’ordine del giorno. L’associazione si chiama Team Franco, bussa alle porte dei negozi per supplicarli di non eliminare le vecchie saracinesche. Finora con scarse adesioni. “I nuovi abitanti – rimpiange Harper – non hanno radici, non hanno legami, non conoscono la storia di qui”. (Fonte: La Repubblica)