Da quando ho preso un pennello in mano ascolto questa storia che è diventata un luogo comune. Sabato scorso su la Lettura del Corriere della Sera l’ho sentita ancora, ma questa volta era firmata da Barbara Rose, una che è stata anche la moglie di Frank Stella quindi deve saperla lunga. Al di là di molte affermazioni di fondo, con cui non si può che essere d’accordo, rivela un atteggiamento nei confronti della realtà italiana che a mio parere è un po’ sviante. Il problema sacrosanto che affronta la Rose è la questione che riguarda il sistema Italia, il suo essere provincia di un impero, schiavo quindi di un meccanismo che non permette al lavoro di artisti italiani – che lei giudica giustamente eccellenti – di avere il consenso che si meritano in un contesto internazionale. Per la completa latitanza della cosa pubblica, la Rose propone di vendere i beni storici in eccedenza per aiutare i talenti emergenti. Ci racconta del disastro del Madre e la situazione viene descritta quasi al limite del grottesco. È evidente che il parametro è una faccenda di dollari, con cui ogni giorno tutti noi facciamo i conti. È pur vero che il teschio di Damien Hirst non avrebbe avuto l’eco incredibile che ha avuto se non fosse costato quattro volte Ibrahimovic. Per me la questione è un’altra. L’Italia non è la provincia di nessun impero. L’Italia è un paese dove un tessuto culturale complesso ha prodotto artisti straordinari, la cui forza è legata al contesto preciso del loro lavoro. Il luogo esprime una necessità intima di un artista. La particolarità sta in questa frammentazione del territorio.
Ogni regione ha una sua lingua. La provincia diventa capitale del mondo. La nostra cartina di tornasole non è New York, lo sguardo non può essere sempre legato al valore economico. Io non so quanto costino i quadri di Cucchi, credo che siano più cari di alcuni e meno cari di altri. Ma la sua grande arte è legata a una regione, le Marche, e a una città, Roma. Lì si nutre e trova lo stimolo sublime e la sua immaginazione produce i risultati prodigiosi che in tutti questi anni ci ha regalato. Osvaldo Licini ha vissuto credo tutta la vita confinato a Monte Vidon Corrado e lì ha creato le meravigliose Amalasunte. Non penso che avrebbe potuto vivere altrove. Giorgio Morandi lontano da Bologna e da Grizzana cosa sarebbe stato? Lucio Fontana è morto a Comabbio nel 1968 e non è da molto che comincia a essere riconosciuto anche oltreoceano. Lo stesso vale per Manzoni morto nel 1962. Non dico che bisogna fare come i cinesi e aspettare sul ponte il cadavere del nemico, perché noi non abbiamo nemici ma stiamo sempre in guardia. Ricordiamoci ogni tanto della arcinota storia dei pittori pompier che in Francia alla fine dell’Ottocento spopolavano, mentre i quadri di Monet e compagni non li voleva nessuno. Le cose poi non sono andate esattamente cosi. Giovanni Testori, il grande scrittore di Novate, diceva sempre che chi sale sugli altari da vivo poi ci scende da morto. Non varrà per tutti, ma “ be carefull”, come grido a mio figlio Benjamin quando va in bicicletta come un pazzo giù per il sentiero.
Concordo con Giovanni, ma temo che lo scritto di Barbara Rose, da sempre strenuamente controcorrente rispetto al pensiero comune statunitense sul sistema dell’arte, si riferisca più al concetto – molto “nord-americano” – della visibilità, della notorietà in sé, della diffusione al di fuori delle proprie mura.
Ora, se è vero (e lo è) che Morandi nulla sarebbe stato senza Grizzana (i paesaggi sono spessissimo infinitamente più significativi – e belli! – di molte nature morte) o senza il suo cortile di Via Fondazza, così come poco sarebbe stato se non avesse occupato la cattedra di incisione, è anche vero che la notorietà mondiale che lo investe (e che ci onora, naturalmente) si deve in particolare al suo rifiuto di esporre dopo il 1947 sotto la sua supervisione in Patria, dandosi alle mostre in terra d’oltreoceano, dove subito ebbe una fama elevatissima. Lo stesso dicasi per Fontana (non così si può dire per il grandissimo Licini, purtroppo, che non ha il giusto e dovuto apprezzamento nell’orbe terraqueo, considerato anche da noi grande, sì, ma con misura, invece che senza eccezioni).
Il ragionamento di Barbara Rose indica che – oggi – è (purtroppo) quasi imprescindibile essere universalmente noti per essere dei “grandi” davvero. Il che – almeno per me – non è vero, ma è (ridico purtroppo) è verosimile.
Ciò che fa specie è che il collezionismo italiano in primis (unito a leggi cretine che impediscono la circolazione della nostra arte importante di tutta la prima metà del Novecento, per non parlare di quella di epoche precedenti) sia poco “nazionalista” e che venga considerato importante collezionismo SOLO se annovera nomi di respiro internazionale.
E’ condizione giusta che sia così, ma non dovrebbe essere necessaria.
Noi siamo i primi a sentirci servi di un Impero che, fra le altre cose, velocemente va spostando i cardini di riferimento, invece di incentivare il passaggio di mano della nostra arte anche al di fuori dei nostri confini.
Ma per far questo (promuovere e promuovere in nostri ottimi artisti del Novecento e contemporanei) ci vorrebbe una lungimiranza politica in ambito culturale che nessuno (nessuno) degli ultimi due-tre-quattro-x? ministri del settore ha mai posseduto.