Un breve estratto dal poemetto “La Galleria d’Arte Moderna” di Ruggero Savinio, figlio di Alberto Savinio e nipote di Giorgio de Chirico. Galleria come luogo e metafora: l’incontro con l’arte, lo specchio di un proprio museo interiore.
Dal Capitolo III:
Ah! Via Palestro! Mucchio di rovine.
Sventrato il Padiglione di Ignazio
Che lui si ricordava con i quadri
Di Boccioni all’inizio dei Sessanta
Quando lo costeggiava per andare
Con la sua guida alla Villa Reale.
Qui c’era il Museo d’Arte Moderna.
Vertigine. Incertezza temporale.
Quella nominazione provocava
Un’allucinazione. Il moderno
Che mostrava era all’incontrario
Un tempo fermo, un tempo che non passa,
Imprigionato nei dorati arredi
E nei dipinti di Appiani. Un tempo
Che come un lento fiume s’inoltrava
Nel mare del presente ed esitava
Alla foce. La sosta al limitare
Indicava, forse, proprio una vera
Modernità, e dava insieme il senso
Dell’eterno. Il percorso vettoriale
Delle forme in sviluppo si avvitava
Su se stesso, mostrava le figure
Per sempre ritornanti all’antico
Dentro il presente, le forme che lui
Poteva maneggiare a piacere
E variare, nel caso lo chiamasse
La sua volontà d’arte. Il segreto
Delle forme, Ruggero rifletteva
Era forse lo stigma che marchiava
Ogni forma col suo speciale accento,
E la respirazione di ognuna
E il modo di occupare lo spazio
Affiorando dalla matrice oscura
Delle possibilità germinali
Con la naturalezza delle forme
Viventi e degli oggetti naturali.
E la pittura non travalicava
Mai se stessa: era sempre nient’altro
Che pittura, ma stava proprio in questa
Fedeltà a se stessa l’occasione
Di aprirsi a uno spazio ulteriore
E a una compiuta trasfigurazione
Finalmente l’aveva abbandonata
Quella città dai molti nomi in cui
Si era macerato a lungo, all’ombra
Delle insegne paterne e dei nomi,
Che Ruggero, dal verso di un poeta
Che ha scordato, chiamava Capitale
Dell’ombra. Se ne andò prima a Parigi,
Perchè Parigi era il luogo in cui
Si nascondeva e respirava, patria
Promessa o solo immaginata, dove
Le ombre parentali erano spinte
In un passato che lo sovrastava,
Ma da lontano, e non lo soffocava,
E poi, a Milano. C’era giunto come
Trascinato da un moto necessario,
Sempre in cerca di un familiare
Distanza, e di una casa non natale.
Era sospinto dall’amore, come
Gli accadde sempre negli snodi della
Sua vita, fino all’ultimo che ancora
Lo tiene avvinto con lacci di carne
E di spirito al luogo in cui si specchia
E si raccoglie la sua vita, giunta
Al tempo in cui ogni vita si raccoglie
E la sua vera immagine rispecchia.
(…)
Ma, dunque, che cos’era
Milano per Ruggero a quel tempo?
Un luogo dello spirito, una dura
Concrezione morale, sotto un cielo
Colore grigio perla e un chiarore
Opaco e lattescente che filtrava
La luce e la rendeva grandemente
Adatto alla pittura e allo sbocciare
Di tutti i colori. Non a caso
I colori più accesi, in pittura,
Sono fioriti al nord, dentro una luce
Discreta e ferma, come d’atelier.
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