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LE OSCILLAZIONI DI GILLO

   
   

 

Due estratti dal saggio di Gillo Dorfles “Le oscillazioni del gusto. L’arte d’oggi tra tecnocrazia e consumismo” del 1970, uscito due anni dopo l’analisi critica del cattivo gusto dell’arte moderna del celebre “Il Kitsch”, 1968.

   
   

 

Scrive Dorfles nell’Introduzione del libro: “… appare evidente come sia importante il discorso attorno all’incomprensione dell’arte moderna e alle oscillazioni del gusto che spesso la determinano. E intendo per <incomprensione> una istintiva diffidenza di fronte a buona parte delle manifestazioni più interessanti e vitali dell’arte odierna.” 

E così conclude: “… spero di poter seminare in alcune menti indurite da una tradizione malintesa o da una cultura arrugginita, il germe d’un dubbio che permetta di guardare con maggiore duttilità alle misteriose trame create dal gusto ed alle sue pericolose oscillazioni…”

   
   

Capitolo V – Arte e conoscenza

Molte sono state e sono tuttora le dispute e le polemiche attorno al problema d’una esperienza gnoseologica quale premessa d’ogni assaporamento dell’arte e d’ogni sua valutazione. Non si può negare che alla base dell’incomprensione oggi così spesso avvertita, sia posta anche un’assenza o insufficienza d’educazione e dunque di conoscenza. L’educazione all’arte – oltre all’educazione <attraverso l’arte> – è un dato di fatto; gli esempi di quanto possa una giusta e accorta educazione per la comprensione dell’arte sono indicativi.

Basterebbe citare un esperimento eseguito negli Usa da cui risulta quanto valga per una giusta comprensione dell’arte moderna l’elemento educativo e come alcuni gruppi di adulti totalmente <sordi> all’arte moderna prima dell’esperimento siano divenuti, dopo un certo numero di sedute di <visualizzazione>, capaci di intendere opere e argomenti ai quali precedentemente erano del tutto refrattari.

Questo non deve significare per altro che sia necessario voler rendere scientificamente probatorio e sperimentalmente valutabile ogni elemento estetico, come non è necessario considerare che ogni problema estetico possa e debba essere tradotto in termini razionali e concettuali per venir giustamente inteso. Parlando di <comprensione> dell’arte, infatti, non intendo riferirmi esclusivamente al segmento <cerebrale>, intellettuale, della mente umana. Molto spesso la comprensione e dunque l’educazione artistica dovrà valersi di elementi prevalentemente irrazionali soprattutto nel settore delle arti visuali e della musica, e meno in quelle della parola.

Sarà possibile, anzi, ammettere, accanto a un pensiero razionale, la presenza di quello che gli Inglesi definiscono visual thinking, pensiero visivo, e, alla stessa stregua, d’un pensiero auditivo o comunque di un genere di pensiero che si svolge al di fuori della comune soglia coscienziale. Accettare l’esistenza di un visual thinking significa oltretutto ammettere la possibilità d’un azione dell’arte di carattere del tutto diverso da quello della logica e della scienza: un’azione che si esplica e invade il territorio in cui agiscono e si sviluppano i grandi miti dell’umanità; quel territorio magico che un tempo parve popolato da forze occulte, demoniche, numinose, e che oggi vede agitarsi – sotto altri nomi – forze analoghe. Certo, già Vico, già Schelling avevano cercato di restituire un valore conoscitivo al pensiero mitico e quindi al linguaggio e all’arte che sono così strettamente connesse al mito; ma la loro ipotesi doveva essere raccolta soprattutto da Cassirer che a questo tipo di pensiero dedicava la sua opera maggiore.

Oggi, dopo la lezione di Cassirer, che si è propagata e in certo senso diluita attraverso le opere di Susanne Langer, molti dei recenti pensatori, antropologhi, estetologhi, hanno affrontato ed accettato questa impostazione filosofica nei riguardi del pensiero estetico.

Quello che a me preme, tuttavia, non è di rendere nuovamente nebuloso l’universo artistico o di rimettere in discussione recenti acquisizioni circa i rapporti tra arte e linguaggio, tra arte e scienza, ma solo di ribadire come, per giudicare l’evoluzione (e l’involuzione) del gusto, e dei gusti, si debba tener conto anche di questa sottomissione dell’arte a un tipo di conoscenza che non è quella di solito accettata dalle consuete impostazioni gnoseologiche riguardanti la ragione umana.

Capitolo XI – Stile e moda. (L’esempio del liberty)

Abbiamo visto come molto spesso non si dia un’assoluta coincidenza tra il <buono> politico-sociale e il <buono> (o bello) estetico; e abbiamo affermato come molto spesso il gusto dell’artista precorra e anticipi quello che sarà in un secondo tempo il gusto del pubblico. Un altro fenomeno che vale a dimostrare la relatività del gusto e anche la sua sottomissione a quella particolare condizione che possiamo definire <moda>, è il fatto del non coincidere dei giudizi assiologici – dunque riguardanti il valore – circa movimenti e situazione artistiche a distanza anche di brevi periodi di tempo.

Molto spesso assistiamo ad una rivalutazione di <stili> passati che sottostà certamente a ragioni prevalentemente di moda o di <affinità elettive>, di Wahlverwandschaften, tra epoche e periodi storici di cui ci s’avvede solo a posteriori.

Questo fatto – ben noto agli antiquari che assistono agli alti e bassi di diversi stili: del Settecento inglese, o del Rinascimento italiano, del primo Impero, o del Sherraton, e del Bidermeier – assume delle caratteristiche ancora più marcate se ci avviciniamo ai nostri giorni.

Un esempio vicinissimo a noi e davvero sintomatico è quello del liberty. Come è noto da alcuni anni il liberty è stato ampiamente rivalutato e giustamente perché molte delle <scoperte> tecniche e strutturali, in architettura, che sconvolsero addirittura il panorama moderno derivarono dalle prime ricerche di uomini come Horta, Van de Velde, Gaudì, ecc.

Tutti sanno che buona parte delle creazioni di quest’epoca erano, sino a poco fa, considerate sinonimo di cattivo gusto. E, infatti, di cattivo gusto si trattava quando il liberty si valeva di nuovi materiali e di nuove tecniche ma solo per creare ornamentazioni superflue o decorazioni pleonastiche. Si trattava, invece, di <buon gusto> e soprattutto d’un nuovo <stile> e non solo di effimera moda, quando il liberty creava certe innovazioni costruttive mai prima azzardate come nel caso della famosa e ormai distrutta Maison du Peuple di Horta a Bruxelles, o della Casa Milà di Gaudì.

Ma accanto a questo duplice aspetto d’una rivalutazione stilistica e d’una condanna <modale> esiste un altro corno del problema. È altrettanto noto come non solo l’autentico stile Art Nouveau, ma addirittura tutta la paccottiglia scoperta nei solai di qualche nonno, o bisnonno, fino a ieri data in pasto ai tarli, oggi venga man mano rivalutata e acquisti anche un valore commerciale non indifferente. Si tratta in questo caso, il più delle volte, d’un esempio di <moda> o di camp la cui durata sarà probabilmente quanto mai effimera.

L’immissione e la sussunzione di oggetti desueti, o comunque di gusto <dubbio> e addirittura Kitsch in un contesto sofisticato crea quello che ebbi già a definire il buon gusto del cattivo gusto: fenomeno che corrisponde all’essere in e out, da parte della <buona società>, di talune espressioni gergali, di taluni comportamenti, ecc.

Il fenomeno del camp viene dunque a inserirsi e sovrapporsi a quella che di solito viene definita moda: una preferenza effimera per qualcosa di non affidato a parametri altrettanto solidi di quelli che sono alla base d’uno stile, d’un indirizzo epocale.

Come dovremo allora considerare, per quanto riguarda il gusto più decisamente artistico l’intervento della moda? Quale peso daremo a una manifestazione destinata, già per la sua stessa natura, a non durare?

Si presenta a questo punto un problema che ho considerato da sempre essenziale per la comprensione (e l’incomprensione) dell’arte moderna e che non sarà mai abbastanza indagato: quello dell’obsolescenza dell’arte di oggi e del gusto ad essa relativo, della sua effimericità che appare legata a un fatto tanto di moda che di stile. Ebbene credo che anche a questo proposito sia necessario ribadire quello che già più volte ho affermato anche nei paragrafi precedenti: impossibile concepire al giorno d’oggi un’azione artistica fatta per durare come in passato; salvo in ben pochi casi. E questo non per un’insufficienza di fantasia, di inventiva o di capacità esecutiva, ma per la stessa costituzione e strutturazione della nostra società.

Il fatto che numerosi individui che considerano se stessi <artisti>, e tali amano definirsi, siano impegnati in operazioni già in partenza transeunti, estemporanee: happening, concerti <fluxus>, environments che costruiscano opere, fatte per non durare più d’un tempo limitato ci dice come il concetto d’un arte che sin dal suo sorgere pretende all’immutabilità, alla permanenza, all’eternità, sia un concetto oggi superato e desueto.

 

 

 

 

    

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