Patrizia Emma Scialpi (Taranto, 1984) mi accoglie con una tazza di caffè bollente.
Io metto due cucchiaini di zucchero. Lei mi racconta che ha imparato a berlo amaro, durante le campagne di scavi, dove, spesso, non aveva a disposizione dolcificanti.
Ha, infatti, una laurea in archeologia all’Università degli Studi del Salento, a cui è seguita l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti di Brera e il trasferimento a Milano, in una stanza studio densa di memorie, sue e altrui.
Tra tavole e carte di piccolo formato, in un angolo emerge una grande tela bianca, di cui le chiedo spiegazione. Gli occhi, del colore del caffè che sta bevendo, le brillano: “Alcuni uomini si sentono appagati nel comprare una macchina grande. Io, in una giornata uggiosa, ho sentito la necessità di acquistare questa tela e riprendere un formato che usavo in passato. Rientrata a casa mi sono resa conto che era sovradimensionata rispetto al mio studio, quindi l’ho accantonata. Per ora mi basta sapere che è lì.”
Il suo portfolio è quello che un tempo è stato un album di famiglia, contiene vecchie fotografie in bianco e nero, su cui Patrizia Emma Scialpi è intervenuta con segni diversi.
“E’ iniziato tutto dalle immagini che avevo sotto gli occhi da sempre. Mia mamma è nata a Tripoli, in Libia, e nel viaggio di ritorno in Italia le foto si sono bagnate, rovinandosi. Quando me le ha mostrate mi sono resa conto che avevano perso la loro funzione, ma avevano guadagnato un’affascinante valenza pittorica.
Dopo una serie di lavori in cui avevo riflettuto sull’idea dell’innesto, unendo l’umano e l’animale o il vegetale, mi sono ritrovata a dipingere su queste fotografie. Ho capito immediatamente il senso dell’azione e ho intitolato la serie ‘Restano cure’, perché, nonostante la violenza dell’intervento sull’immagine legata alla famiglia, per cui mi sovrapponevo e creavo nuovi ricordi familiari, si tratta per me di cure. Ho fatto rivivere le foto, che sono tornate nei discorsi della mia famiglia.”
Hai proseguito con immagini che trovi dai rigattieri, nella serie ‘The Dead Dears’. Fotocopiate e ingrandite, sono il punto di partenza anche per lavori a collage su tavola. La perdita del medium fotografico attribuisce nuovi significati alle opere?
“La fotografia è una testimonianza, mentre la fotocopia è un espediente tecnico. Della fotografia mi piace l’idea di intervenire su una memoria preesistente, creandone una ulteriore; la fotocopia conserva solo l’immagine, non la memoria o la stratigrafia di un tempo.”
Dal punto di vista formale l’effetto è lo stesso, che tu intervenga su una foto di famiglia o acquistata in un mercatino, perché non riconosco i personaggi, non appartengono alla mia storia, sebbene dal punto di vista concettuale sia diverso. Per te c’è una differenza o ti pare di prenderti cura comunque della memoria di qualcuno, anche se un estraneo, in modo, forse, addirittura superiore, visto che le immagini sono state abbandonate?
“Effettivamente l’intervento è identico, nonostante io abbia in alcuni casi la consapevolezza dell’appartenenza alla mia stirpe, tanto che, in questi lavori, ho integrato la firma nel tessuto dell’opera. Nei mercatini ho trovato foto di intere famiglie, di una stessa persona a diverse età. Nel momento in cui vi intervengo sia le foto della mia famiglia sia le altre divengono un’altra cosa e, paradossalmente, col guardare e riguardare gli estranei mi sono divenuti familiari. Ne recupero le memorie perdute, strappate al loro rifugio e le utilizzo. Il mio lavoro, però non è propriamente sulla memoria, ma sul tempo, che scorre inesorabilmente.”
Ti riferisci, infatti, spesso alla natura come impietosa. Quasi come matrigna, riprendendo Leopardi.
“L’uomo è legato alla natura e ne segue i ritmi, senza troppa consapevolezza. L’ineluttabilità della morte e l’esistenza di un ciclo naturale che segue leggi indipendenti dall’intervento umano, la riflessione sul concetto di spoglia sono elementi che connotano il mio lavoro. In archeologia lo studio della terra permette di ricostruirne la storia, quindi provo a ricostruire la stratigrafia della nostra storia, attraverso la pittura.”
Nei tuoi lavori, non soltanto in quelli in cui intervieni direttamente sulle foto, concedi possibilità. L’idea di metamorfosi è molto presente, sia per la trasformazioni delle immagini in altro, sia dei soggetti.
“A questo proposito sono stata molto colpita da Goethe, in cui domina un sentimento fortemente legato a una morte salvatrice e un rapporto uomo- natura a cui mi sento affine. Ne ‘La metamorfosi delle piante’, un trattato molto tecnico, ho trovato come nozioni e leggi naturali possano contenere una poesia e una serie di possibilità innumerevoli. I lavori sull’innesto ‘Innesti imperfetti’ di cui ho parlato prima, per esempio, sono derivati dall’approfondimento di questa tecnica, che è l’unione di due piante in un periodo detto fase dell’amore: una nozione da cui è scaturita la mia riflessione sulla possibilità di fare innesti non solo tra due piante, ma anche con l’elemento animale.
Nel suo ‘Faust’, Goethe parla di ‘erdenrest’, un concetto che mi ha colpito talmente da usarlo come titolo per la mia prossima personale curata da Alessandro Trabucco, che inaugurerà il 24 ottobre a Circoloquadro, a Milano. ‘Erdenrest’ è un residuo di carne e di terra, una spoglia che rimane attaccata all’anima quando se ne va.
Nella terra tutto è, dunque, eternamente presente: tento di esplicitare questo legame con la natura e il tempo a livello formale a volte in modo evidente, a volte con radici o sovrapposizioni di colore che suggestionino.”
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