Basta vederla arrivare per accorgersi in un istante di come l’eleganza, certe volte, abbia un volto e un nome. In questo caso il volto e il nome è quello di Marika Carniti Bollea, una – o meglio – la signora dell’interior design italiano. A ottant’anni suonati (e portati come poche donne riescono a fare) in un completo nero senza alcun gioiello indosso, ti spiega con estrema lucidità e praticità il suo lavoro, in quella sala allestita al complesso del Vittoriano di Roma che ospita, fino al 7 ottobre, la mostra “Realismo magico, in scena e nell’abitare”.
Giorgio Strehler diceva di lei: «Carniti Bollea ha inventato il teatro nella casa», guardando le fotografie dei suoi arred-allestimenti mai affermazione fu tanto esatta. Stanze, saloni, camere, persino bagni, arredati come delle vere e proprie quinte da palcoscenico. Drappi, tende, quadri e mobili dalle linee fluide, rotonde, morbide, «perché a rendere spigolosa la vita ci sono già tante altre cose». E poi le sue abitazioni a tema, come quella dei gabbiani o delle bouganville o ancora quelle dedicate ai grandi: Matisse, Picasso, Mirò, dove ogni piccolo e insignificante dettaglio trova un perché in un’armonia di colori e ambienti che non lascia nulla al caso. Certo, il rischio è quello di essere colti da una terribile emicrania scatenata dal “troppo”. Troppi concetti, troppi richiami, troppi merletti, troppe riflessioni, troppa bellezza, in fin dei conti si tratta sempre – e per molti solo – di una casa…
Signora Carniti, la casa è un contenitore che protegge l’uomo, la sua esistenza. Come si fa a rendere una casa esteticamente bella e trovare una sinergia con le anime di chi la abita?
«Sia chiaro la casa è solo un finto rifugio».
In che senso?
«Nel senso che a volte l’uomo – il più delle volte – ha l’illusione di poter vivere in quel contenitore nel modo in cui non riesce fuori. Lasciare sull’uscio, prima di entrare, il resto del mondo oppure portarselo dentro, ma certo di avere l’idea che chiusa la porta la casa possa coccolarti, proteggerti, renderti felice. In molti casi lo fa, del resto una casa trattiene le emozioni e le sensazioni, ma se si guarda alla sua essenza sono solo pareti che ci chiudono. E il verbo chiudere ha un significato diverso da proteggere».
Però nelle sue case ci si diverte molto. Si può giocare a essere Giulietta, Cleopatra, l’amante di Picasso…
«Il riferimento a grandi autori, sia essi scrittori o pittori, l’ho sempre inteso come un omaggio alle loro opere. Non ho mai sentito il bisogno di copiare, solo di rendere quel che è giusto rendere a chi ha saputo emozionare solo grazie a un tratto di pennello o di calamaio. Far uscire l’autore dall’opera e camminare con lui sul parquet di una stanza. Ho realizzato per questo degli interni che richiamavano il loro stile e il risultato che ne è venuto fuori è tutto fuorché una copia di opere altrui».
Cos’è per lei il design? Che importanza ha avuto e continua ad avere nella sua vita?
«Per me design vuol dire semplicemente disegno. Questo non ha bisogno di spiegazioni perché il suo significato sta nel tratto, nel gesto di chi lo compie. Io ho sempre disegnato, fin da bambina. Era ed è un’azione naturale e istintiva, come bere un bicchiere d’acqua al mattino. Poi hanno caricato il termine, gonfiandolo, la stampa, i critici e tutti coloro che pensano di avere sempre qualcosa di interessante da dire, facendolo diventare così un’etichetta, un lustro, quasi una medaglia da cucirsi alla giacca».
Lei è una donna molto elegante, questo glielo avranno detto in molti, così come elegante è il suo stile benché ritenuto, a volte, di essere pesante, antico, fuori moda. Come risponde a questo?
«Non mi sono mai curata troppo di apparire agli altri nel modo in cui sarei stata certa di ricevere complimenti. Amo le cose semplici. Se ho un’idea, e la reputo possibile, mi adopero per metterla in pratica passo dopo passo, cercando sempre di sposare l’ambiente con chi lo vive, con il suo dove. Perché ogni mobile è giusto se pensato proprio per quello spazio. Al di fuori morirebbe, diventerebbe brutto, volgare, inutile».
Quindi, nessuna cucina a incastro…
«Assolutamente no. Trovo che un mobile concepito in stoccaggio sia un pensiero volgare. Ha sempre bisogno di essere personalizzato. Ed è per questo che amo il lavoro degli artigiani, perché sanno renderti l’unicità di un oggetto, di un mobile, di un letto».
Signora Bollea oggi, però, arredare una casa in questo modo vuol dire molto in termini economici, non tutti possono permettersi un lusso simile…
«Tutti sono convinti che le cose belle costino moltissimo e c’è una corsa frenetica e volgare all’oggetto che costa più di altri. Penso che noi italiani siamo dei maestri in questo, con il risultato poi di avere speso una fortuna per oggetti tra l’altro anche disdicevoli. Nei miei lavori – fatta eccezione per le scenografie e i costumi teatrali che naturalmente hanno dei costi di lavorazione diversi – non ho mai cercato né adoperato in maniera ossessiva il pezzo costoso. Ho sempre cercato di realizzare uno spazio completamente psicologico, dando forma a una suggestione o a un’emozione. Il costo di un oggetto di design è dato dal materiale che si utilizza per crearlo, non è l’idea che c’è dietro a essere costosa, è quello che si vuole usare per costruirla a inficiare sul portafogli, ma le assicuro che la bellezza risiede molte volte in materiali apparentemente poveri».
Senta, ma lei ci va mai da Ikea?
«Sì e le confesso che ammiro l’intelligenza degli svedesi. Hanno sempre avuto attenzione per il sociale e Ikea ne è una prova. Realizzano dei mobili accessibili a tutte le tasche, il materiale non è un granché, però è funzionale al bisogno che, soprattutto gli italiani, hanno dell’usa e getta».