L’apparizione di Moreau
in Controcorrente di Huysmans
In un unico caso al gusto sfrontato dello scrittore decadente Karl Huysmans si può imputare un peccato di avventatezza storica: quando nel 1883 dal volume L’Art Moderne escluse Paul Cézanne, confidando all’amico Pissarro che il pittore di Aix-en-Provence rappresentava, ai suoi occhi, “il tipo di impressionista che non ce l’ha fatta”, e che, a parte “certe nature morte”, sarebbe stato dimenticato presto. Peccato veniale, allora, considerando che il successo per Cézanne sopravvenne solo più tardi, a partire dallo spartiacque del 1890, allorché un piccolo nucleo di opere fu esposto a Bruxelles dal gruppo dei cosiddetti Les XX.
Tant’è, non si può disconoscere che Karl Huysmans sia stato un connoisseur assai più avveduto e precoce degli ostinati critici d’accademia, come Louis Leroy di Le Charivari (l’inventore del termine spregiativo “Impressionismo”), o Albert Wolff di Le Figaro, autore di pagine al vetriolo contro Manet e Renoir. Eppure, lo scrittore, tenendo fede alla propria più autentica ispirazione, ha licenziato osservazioni memorabili non solo nei testi di taglio apertamente critico e saggistico, tra cui il suddetto L’Art Moderne ed il successivo Certains (1889), bensì anche in un contesto narrativo, quello del romanzo Á rebours (Controcorrente, 1884). Non ha più senso parlare di “osservazioni”: si tratta di un’ecfrasi, una descrizione di un’opera d’arte la cui suggestione riesce implicitamente evocativa ed analitica, ben più della critica “ortodossa”.
Il clima è già simbolista. Il dipinto in questione è L’apparizione (1876) di Gustave Moreau. Des Esseintes, protagonista dell’opera di Huysmans, è un collezionista che all’inizio degli anni Ottanta possiede dipinti, stampe e disegni di Moreau, Redon, Bresdin. Così lo scrittore tratteggia l’acquerello di Moreau, che mostra la testa mozza del Battista che appare a Salomè:
Là, il palazzo di Erode si slanciava come un Alhambra su leggere colonne iridate di piastrelle moresche, che sembravano sigillate da un calcestruzzo d’argento, da un cemento d’oro; arabeschi partivano da losanghe di lapislazzuli, si svolgevano lungo le cupole dove, su intarsi di madreperla, si arrampicavano bagliori di arcobaleno, fuochi di prisma. (…) Il delitto era compiuto; ora il carnefice stava impassibile, con le mani sul pomo della lunga spada, macchiata di sangue.
La testa decapitata del santo si era sollevata dal piatto posato sul pavimento e guardava, livida, con le labbra esangui, aperte, con il collo scarlatto, gocciolante lacrime. Un mosaico circondava il volto da cui si sprigionava un’aureola irradiandosi in fasci di luce sotto i portici, illuminando la spaventosa ascesa della testa, accendendo il globo vitreo delle pupille, fissate, quasi aggrappate alla danzatrice.
Con un gesto d’orrore, Salomè respinge la terrificante visione che la inchioda, immobile, sulle punte; i suoi occhi si dilatano, la mano stringe in modo convulso la gola.
È quasi nuda; nella frenesia della danza, i veli si sono sciolti, i broccati sono caduti; é vestita solo di gioielli e lucidi minerali; un corpetto, come un busto, le stringe la vitae, a mo’ di superbo fermaglio, un meraviglioso gioiello dardeggia lampi di luce nell’incavo dei seni; più in basso, una cintura le circonda le anche, nasconde la parte superiore delle cosce battute da un gigantesco ciondolo dove scorre un fiume di carbonchi e di smeraldi; infine, sul corpo rimasto nudo, tra il corpetto e la cintura, il ventre s’inarca, scavato da un ombelico il cui foro sembra un sigillo di onice, dai toni lattiginosi, dalle tinte di un rosa d’unghia.
Ciò che la raffinata prosa di Huysmans riesce a cogliere dell’opera di Moreau è in prima istanza una sorta di trasfigurante natura “minerale”, alchemica, della materia pittorica. Carattere tipico di certa poesia barocca e di certa natura “stalagmitica” (Roberto Longhi) della pittura ferrarese del ‘400, la trasformazione di un materiale nell’altro si perpetra nell’acquerello come ad abbacinare lo spettatore nella bruma peccaminosa del palazzo di Erode, il cui fasto gronda un sangue color rubino da incastonare nel viluppo cromatico.
L’altro carattere pregnante dell’acquerello che emerge dalle parole dello scrittore è quello di un dinamismo sospeso nel gioco dei contrapposti: la frenesia della danza, ancora calda, si è appena fatta sospensione statuaria nel raccapriccio; all’impassibilità totemica del carnefice si oppongono i contrappunti turbinosi tra i veli ricadenti di Salomè e l’atroce ascesa del Precursore; il buio di cupola e portici è rotto dagli “intarsi di madreperla” non meno che dal “mosaico” dei fasci di luce attorno alla testa sanguinante. Huysmans, cioè, coglie uno stridore decadente tra fisicità del lusso ed intangibilità dell’apparizione, sfacelo della lussuria e rigenerazione dalla morte.
In questo senso, dunque, è da uno scrittore, e da un romanzo, che proviene il più tempestivo riconoscimento di una pittura corrusca, contrastata da subitanee accensioni nell’ombra, morbosamente impegnata in una rilettura gelida e sensuale, efferata e sadicamente erotica, materica ed ineffabile, quale quella dell’opera simbolista di Gustave Moreau.