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Daniela Peracchi

Con un movimento lento e ripetitivo, una ragazza sta ricoprendo di foglie secche una donna seduta, che guarda fisso davanti a sé senza timore. Si tratta di sua madre e lei è Daniela Peracchi (Alzano Lombardo, Bergamo, 1990).

«Ė nato tutto come un gioco. Il primo vero lavoro è stato “Il gigante”, in cui ho unito video e scultura. Ho preso una canna da pesca lunga quattro metri, vi ho montato all’estremità una fotocamera e ho convinto mia madre a camminare per le strade di Bergamo. All’inizio la scelta di mia madre è stata per comodità, poi, quando ho visto il lavoro finito, mi sono resa conto che mi rispecchiavo in quello che lei faceva, nel fatto che agiva al mio posto e che era totalmente libera di farlo, ossia che non mi faceva domande su quello che volevo dire. Da lì ho costruito il mio intero lavoro in relazione a lei e ho intrapreso un percorso in cui io mi sento artista in una famiglia in cui ci sono due culture diverse».

Due culture?
«Mia mamma è napoletana, mio papà è bergamasco. Ho avuto un‘educazione molto rigida, basata su una determinata idea della donna, sul matriarcato, molto precisa, con dei doveri e dei divieti, ma anche fondata sulla passione, sull’arte, sul bello. Ho portato la cultura di mia madre nel nord Italia, che è molto più riflessivo, più devoto al lavoro, più riservato. Io non mi sento né napoletana né bergamasca, però ho tratto molti principi dall’identità di mia madre e da quella di mio padre e nel mio lavoro cerco di inserirli entrambi, perché io sono il risultato dei loro vissuti, delle loro esperienze».

Ti sei progressivamente concentrata sul microcosmo famigliare, rendendo i tuoi genitori, soprattutto tua madre, non solo fonte di ispirazione, ma protagonisti dei video.
«In tutti i lavori c’è il mio timbro, ma io lascio ai miei genitori totale libertà di agire. Non ho mai cercato di far capire loro il motivo per cui debbano farlo, perché in qualche modo mi sembra che li condizioni. Chiedo loro di essere il più naturali possibile, perché per me è importante la spontaneità».

Quindi non ti confronti con loro sulle loro impressioni e sensazioni durante le azioni?
«No, manteniamo quasi sempre un distacco. Il mio lavoro ha come fase fondamentale una preparazione costituita da schizzi, testi e da una sorta di autoanalisi in cui cerco di comprendere ciò che voglio dire. Solo allora coinvolgo gli altri. Non voglio che mia madre partecipi a questo processo per limitare ogni condizionamento. Anche quando io dicevo che la volevo seppellire, la volevo uccidere, lei si divertiva, si impegnava nel rimanere seria. In questo emergeva il suo essere napoletana, concentrata e priva di vergogna».

Espliciti sensazioni, non detti, nel rapporto tra genitori e figli di cui è difficile rendersi conto. Riconosci il ruolo di tua mamma all’interno della tua famiglia, il suo essere monumentale, metti in luce, soprattutto in “Leggero leggero”, l’ambivalenza tra volontà di seppellire, nascondere, proteggere. Pur utilizzando i tuoi genitori come soggetti, mi sembra che tu abbia uno sguardo estremamente oggettivo.
«Sì, anche grazie al clima famigliare in cui sono cresciuta, sereno e con una forma di rispetto totale nei confronti del nucleo. Noi siamo quattro e io mi sono sempre sentita un po’ la pecora nera, perché arrivavo a casa e coinvolgevo la mia famiglia in attività che non avevano nulla a che fare con la routine quotidiana. Da piccola raccoglievo e conservavo tappi e francobolli e mia madre mi ripeteva di buttarli via. Non riuscivo a spiegare perché sentissi l’esigenza di tenerli e nello stesso modo ora non giustifico la necessità di coinvolgere i miei genitori, per non avere da loro una risposta spiazzante. Il lasciare mia madre nell’ignoto spesso fa emergere esattamente quello che io desidero. Ecco perché una componente essenziale del mio operare è creare un contorno che renda naturale l’azione».

Costruisci, quindi, con attenzione la scena, scegli l’inquadratura in modo pittorico, riducendo al minimo montaggio o post produzione.
«Cerco sempre di avere l’immagine fissa. Non mi piace fare tanto montaggio, perché mi pare che quando si fa montaggio si stia mentendo o nascondendo qualcosa. Io, invece, creo un’immagine fissa, perché voglio che sia la stessa cosa che avviene con la fotografia. Aspetto una determinata ora perché ci sia la luce che desidero, il contrasto che immagino, le ombre. Nell’ultimo lavoro, “Vedova nera” ho aspettato le cinque di un pomeriggio d’estate, per dare l’impressione di una scena quasi bidimensionale. L’unico elemento con profondità è mia madre. Ecco, in questo caso sono intervenuta, rallentando il filmato».

In esso approfondisci ulteriormente i temi che hai affrontato in precedenza: la costruzione monumentale, il ruolo genitoriale.
«Ė nato come un gioco, anche questo. Stavo guardando con mio papà un documentario sui ragni in televisione, facendo degli schizzi. Mi sono accorta che stavo disegnando delle righe che formavano una ragnatela e subito mi sono rivolta a mio padre per domandargli come potessi realizzare una ragnatela gigante. Stavo per desistere, quando, durante una passeggiata, mi sono imbattuta in uno scorcio con due alberi e sullo sfondo la veduta del mio paese. Non ho più potuto rinunciare al progetto e sono riuscita a convincere mia mamma ad arrampicarvisi. Ho deciso di rallentare il filmato proprio per enfatizzare il movimento di mia mamma, come un ragno, che ha costruito sulla sua identità napoletana i suoi principi, affermandosi nel mio paese, e si muove sulle corde, che sono le esperienze che l’hanno condotta qui. Cammina su un immaginario, fino ad assumere la posa dell’Uomo vitruviano, simbolo della perfezione della famiglia che mia mamma è riuscita a costruire».

Tutti i video sono girati in esterno.
«Non è una casualità. Quando sono arrivata a Milano per studiare alla NABA e ho dovuto rinunciare al giardino per me è stato un trauma. Da sempre con i miei genitori sono andata all’aperto, a fare un picnic al lago o una gita nei boschi, quindi ho sempre vissuto la dimensione esterna come luogo di riunione. La scelta di due alberi per girare un video, per esempio, si lega alle mie memorie, agli spazi che hanno un significato nella mia storia».

Usi una fotocamera digitale compatta, non ti interessa la perfezione dal punto di vista tecnico?
«In “Leggero leggero”, in cui seppellisco mia madre di foglie, la risoluzione era ancora più bassa. Per me non era importante fare un video in cui fosse pulita l’immagine, in cui si vedessero tutti i dettagli, perché volevo che rimanesse l’impressione di un’azione quotidiana. Quando ho iniziato a usare l’alta definizione, ho notato che in alcuni punti era interessante avere una qualità migliore. Probabilmente quando disporrò di uno strumento diverso, progetterò il lavoro in modo differente, ma al momento, in relazione alle tematiche che affronto, non è rilevante. Non ho mai avuto facilità a esprimermi in un modo diverso da questo, attraverso il video esplicito un bisogno. È una mia medicina, uno strumento per mettere in luce una mia evidenza».

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