ARTEFIERA 2013
PAURA DI VOLARE?
reportage sull’edizione 2013 di “Arte Fiera” a Bologna
a cura di Cristiana Curti
Da quando si estende l’ombra lunga della crisi, tutto – per l’arte venduta e comprata – è peggiorato. Come anche il meno smaliziato collezionista sa, l’Italia è sempre stato Paese che mal digerisce il passaggio di mano di opere d’arte, vessato com’è da ogni possibile monitoraggio che nulla ha a che fare con la ricerca, lo studio, la passione, la cultura… anzi. Ma oggi, complice il famigerato “redditometro”, un’impresa di Burri, un guizzo di Vedova, una favola a colori di Licini sono diventati nell’ “immaginario burocratico” un sintomo dell’abuso del Privato sul Pubblico, l’indice di quanto ognuno di noi può operare “contro” l’interesse della Comunità, un errore cui si deve riparare perché lo si dovrà scontare in fretta e con ignominia.
Questo sentimento di sconsolata deriva sociale (non oso definirla in altro modo) aleggia fra gli stands un poco in tono minore di Artefiera, impedisce una rimonta che si attendeva ma che non riesce a palesarsi all’orizzonte. Eppure, udite udite, non tutto ciò che è grigio è polvere: il giorno 24, dedicato alla pre-view e all’inaugurazione, a sera qualche buon affare è andato in porto, malgrado le dozzinaia di feste e festine e risorge il sorriso dei galleristi. Il giorno successivo, il 25 venerdi, che di solito non è il più affollato, un pubblico “buono”, meno attento al pittoresco del consueto, si sciorina con decisione e apparente buona consapevolezza della materia fra gli stands. Ognuno sembra cosciente di ciò che vuole, gli artisti in Fiera ostentano sicumera ma sono piacevolmente sorpresi dall’insolita affluenza. Qualche assegno si stacca, qualche giovane promessa fa il “tutto esaurito” (è vero!), i volti tentano di spianare il corrugamento fra le sopracciglia.
Comunque qualche colpa per l’insalubre cordoglio che pesa ancora sulle trattative è anche dell’organizzazione che, mentre perde parte del gotha delle gallerie in particolare del Contemporaneo (per la verità in rotta con Artefiera da diversi anni), confina le “giovani” proposte di Set Up (che hanno offerto qualche vivacità in più delle loro omologhe in Fiera) nell’improvvida Autostazione delle Corriere e non preferisce averle in seno alle aree fieristiche (o almeno in sito più consono). Infine, i galleristi di alta levatura devono essere ancor più blanditi e incoraggiati alla partecipazione. Ma sarà un lavoro di anni, purtroppo, questo.
Le gallerie presenti sono appena un po’ inferiori di numero rispetto all’anno scorso, gli stands sono ben ordinati, il percorso semplice e pulito, arioso e per nulla stancante, impera un’omogeneità di scelte oculate, ponderate sia nella qualità sia, e persino, nel genere (mai come in quest’edizione la pittura stravince mentre il video è pressoché scomparso).
C’è senz’altro traccia della curatela di Giorgio Verzotti e Claudio Spadoni, che in virtù della loro eccellente nomea universalmente riconosciuta hanno potuto recuperare in corner qualche vip fuoriuscito da tempo alla Fiera.
Ma ci sono pochi galleristi stranieri fra i 135 presenti: solo due nel padiglione 26 che raccoglie gli operatori perlopiù del settore d’arte moderna e tredici (comprendendo anche Continua che lavora fra San Gimignano, Pechino e Boissy-le-Chatel e Dorothea Van Der Koelen che ha uffici a Venezia e Mainz) nel padiglione 25, più improntata al contemporaneo. Di questi, sei sono tedeschi, due sono svizzeri, due londinesi, solo uno di New York, uno di Tokyo, uno di Nizza, uno di Bratislava e uno, per l’appunto Continua, che lavora in Italia, Cina e Francia. Troppo esigui per (ri)far di Bologna una piazza internazionale.
Due parole d’ordine sia nel settore del Moderno sia in quello del Contemporaneo, “Italia” e “disegno e pittura”, strenuamente difese.
Il Padiglione 26 si apre con uno degli stand migliori della Fiera. Matteo Lampertico (Milano) squaderna una serie di opere museali, alcune di loro, alle 12.30 del 24 – a inizio pre-view – già vendute. Un bel Fontana, una strepitosa carta “americana” di Tancredi (a 60.000 euro), un Deluigi da batti-cuore che proviene da una scelta di Peggy Guggenheim per gli Stati Uniti e che fu esposto alla Biennale veneziana del 1954 (a 40.000 euro). Poi si ammirano due Capogrossi (la tempera su carta intelata del ’51 è fantastica), un altro esplosivo Tancredi su tela sempre degli anni di Peggy, Santomaso da collezione e molto altro a prezzi di rispetto, che però non eccedono e non disarmano il compratore, anche perché qui l’arte è davvero internazionale e non teme tramonti benché Lampertico punti sull’Italia, quest’anno, come non mai. Questa galleria si fonda sullo studio e sulla ricerca non solo dei “colpi grossi”, ma soprattutto dei tesori nascosti. Una scelta che, dopo anni di lavoro, ora ripaga il titolare.
La postazione della Galleria dello Scudo (Verona) è come sempre di eleganza impeccabile, con artisti di primissimo piano che vengono sostenuti con strenua professionalità dal Presidente delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea e dai componenti della sua società e del suo preparatissimo staff. Novelli, Burri (ora esibito in una magnifica mostra in Galleria), Morandi, Afro, Sanfilippo (di cui è in fiera un’opera sublime a un prezzo contenuto per questo nostro grande ancora da valorizzare appieno) ma anche Gallo, Frangi e il giovane Alessandro Roma che stupisce con i suoi immaginifici e colti collages e sovrapposizioni di materiali diversi e i suoi gessi intensi (per un’opera di grandi dimensioni la richiesta si aggira intorno ai 12.000 euro).
Dall’ottima Galleria Blu (Milano), anch’essa presente con uno stand di rilievo, segnalo un notevole quaderno della non più promessa Alessandro Verdi dal titolo Navigare l’incertezza del 2010/11 (cm. 70×50) che cattura l’occhio anche per l’indiscussa bellezza di tutte le pagine: in realtà diverse opere in una.
L’eccellente Galleria Il Chiostro di Saronno (VA) offre molte possibilità di trovare belle opere, fra cui sono prove (uno degli spettacolari “cannocchiali” in ferro con giochi di specchi e rimandi di universi, una bella teoria orizzontale di moleskines che individuano nuovi planisferi, straordinari disegni a carboncino) di uno dei miei artisti preferiti, il trentaseienne Marco di Giovanni, che si divide fra questa bella sede e quella della bolzanina Antonella Cattani nell’attiguo Padiglione. Qui però segnalo anche una Foresta di Melotti del 1971 che vale una visita e una bellissima tela di quell’Arcangelo che avrei voluto più attivo dopo i fuochi scoppiettanti di una ventina d’anni fa, perché lo merita. E’ una bella mano di scuola avellino-beneventana (se quella scuola non fosse stata così inutilmente dispersa proprio dal mercato, qui corruttore, con la complicità di un critico che ha tanti meriti tranne questo) quella dell’artista che oggi presenta un tratto molto intenso e convincente e del tutto rinato.
La raffinata Galleria dell’Incisione di Brescia occupa il proficuo spazio della specializzazione nella grafica, nel disegno, nelle piccole carte e nella fotografia selezionatissima, all’estero ricolmo di possibilità e cultori, in Italia meno usuale ma di grande soddisfazione per il mercato. La cultura premia! La titolare Chiara Fasser è contenta delle sue scelte che caldeggia e sostiene con professione e passione da tempo: propone capolavori a prezzi molto contenuti. Disegni di Grosz che superano le tele, incisioni del rapinoso Klinger e dell’ambiguo Müller, rare meraviglie di Munari dai primi anni ’30 sino ai classici collages negativi-positivi e alle più recenti scritture illeggibili. Scelgo, nel solco profondo del segno protagonista, una bella tela del 2012 di Tullio Pericoli che scopro epigono di Casorati se lo comparo con una magnifica foresta verde del nostro grande del ‘900 da scoprire nel piccolo magazzino dello stand.
Troppo bisognerebbe scrivere delle offerte sontuose della Galleria Mazzoleni di Torino. Ma preferisco, fra tante meraviglie da museo, segnalare una “chicca”, un quadro dei primissimi anni ’50 di Emilio Vedova, grandissimo in un periodo inspiegabilmente dai più considerato minore, quando si avvicina ai dettami di Forma (uno!). Del resto questo stesso dipinto è un manifesto e riprende sentori del Concretismo così come della nuova astrazione romana, elaborandoli con grande personalità.
Bella davvero l’opera, in esposizione in diversi esemplari alla Galleria Tonelli di Milano, di Jacob Hashimoto con le sue costruzioni ora meno auree e più “occidentali” ma non meno convincenti delle prove che tutti abbiamo visto al Macro e a Palazzo Fortuny e in molte altre sedi pubbliche e private. L’evoluzione di Hashimoto si fa più intensa nell’espressione e non cade mai nella banalità del decorativismo, di cui invece ogni tanto è accusato. Ma è assai poetico anche un Calzolari di non eccessive dimensioni (ca. 70×100) con sale, petali e gusci d’ostrica del 1973.
Da Montrasio Arte (Monza-Brianza) si trova uno dei più bei pezzi in fiera: un Frank Auerbach di provenienza privata e prima ancora dalla Galleria Marlborough di Londra, piccolo e di enorme intensità segnica, del 1968. La richiesta è sostenuta (280.000 euro) ma il capolavoro è di tale caratura che parrà al fortunato acquirente di avere in casa una summa esemplare del riscatto della pittura europea negli anni ’60 e ’70, tanto che potrà fare a meno di ulteriori opere di contorno (ammesso che questo traguardo sia auspicabile). Ciò è anche un esempio lampante di come in Gran Bretagna (e non solo in Gran Bretagna) il sostegno della critica più preparata, anche se a volte strenuamente in disaccordo al proprio interno, riesce a non far scivolare l’arte migliore nelle trappole della crisi, nel sentimento di sconforto, nei tentativi suicidi di frode.
Nel gruppo di gallerie a fine Padiglione che presentano una personale (“Solo Show”) non può non essere notato l’evanescente e ìlare Fabrizio Corneli presentato da Studio G7 di Bologna. Le sue lievi maschere anamorfiche creano suggestioni straordinarie e hanno il tocco surreale di un’invenzione che lascia intendere mille possibilità compositive. Chi è interessato a queste opere d’ombra può pensare d’investire fra gli 8.000 e i 12.000 euro per le installazioni di maggior “spazio espressivo”.
Desidero anche segnalare con piacere lo stand di grande qualità di Otto Gallery (Bologna) che appronta una personale – ben più rappresentativa in galleria proprio in questi giorni – di Piero Pizzi Cannella la cui nuova produzione sembra finalmente perdere un po’ di quel vago avvitamento degli ultimi tempi e trova un rinnovamento interessante nelle maioliche che esprimono con poderosa quanto efficace tridimensionalità ciò che forse la tela trattiene. Il gesto leggero e sognante di Pizzi Cannella si trova a perfetto agio nei colori di vetrina del decoro fittile, forse perché la materia di cui tratta l’artista (identità sociale, geografica, spirituale…) attiene all’arcaicità e all’arte dei primordi, alla ricerca di un passato che se proprio non posso conoscere almeno posso ricostruire attraverso qualche perduta testimonianza. Belli davvero quegli orcioni…
Entro nel Padiglione 25, consacrato perlopiù alle proposte d’arte contemporanea.
Vengo chiamata per valutare le opere di un ragazzo di belle speranze, accolto con passione in una galleria “energetica”, nella sezione delle Giovani Gallerie. La dinamica e tenace titolare di Zak Project Space a Monteriggioni (SI) e la collega più pacata ma preparatissima convincono all’acquisto delle straordinarie opere di Andrea Barzaghi, classe 1988 di Monza, che si è formato all’Accademia di Belle Arti di Urbino e che titola alcune sue tele in lümbard. Non ci si faccia prendere da foghe inopportunamente leghiste, perché i titoli sono di rara efficacia e poesia e il gesto sapientissimo dal tocco grafico ma anche espressionista (nelle opere più grandi) si sposa bene con la sobria ironia del dialetto. Fra l’altro questo giovane apparentemente ancora in erba ha già vinto premi di rilievo e scatena i desideri più voraci dei collezionisti. Bellissime le opere di sapore nordico (antico e recente) a olio su tela e tavola con un certo sentore di Magnus Von Plessen nel tratto “a sottrarre” dalla forma, così come straordinarie le carte a olio e grafite che sembrano arrivare dai sogni più riposti di Böcklin in piena esplosione simbolista. Non sarà un caso se questo ragazzo di appena 24 anni vive oggi a Norimberga dove ha trovato le corde più contigue al suo sentire. Ma c’è anche tutta la tradizione lombarda di fine Ottocento dei colori cupi e un po’ striduli, dei paesaggi nebbiosi e sognanti, delle valli ombrose e di un certo intento metafisico che si ritrova in molti esponenti dell’arte in pianura padana. Per me, senz’altro il trouvaille più interessante della Fiera. Ma se vorrete acquistare qualche opera di Barzaghi non potrete più. All’inizio della giornata di venerdi 25 (la prima di apertura al pubblico) tutte le tele e tutte le carte di questa ottima speranza della pittura italiana sono state vendute. E ce n’erano tante!
Mi sposto velocemente, nella stessa area, verso uno degli stand più gettonati e con qualche ragione. La Galleria MLB di Maria Livia Brunelli di Ferrara è monotematica: si parla di terremoti che lacerano la nostra Penisola e che nel periodo post-trauma mostrano l’acme della nostra perniciosa incapacità alla reazione, delle mafie che si appropriano degli appalti, della burocrazia che impedisce la ricostruzione. Stefano Scheda ha approntato un pavimento di monetine da un centesimo su cui si cammina con sconcerto, perché è scivoloso e sdrucciolevole: rappresenta i contributi statali che arrivano con il contagocce e comunque a poco servono. Stefano Bombardieri ha costruito una tavola da pranzo con piatti e bicchieri pronti per un desco senza commensali, tutti gli oggetti velati da una polvere grigia di macerie. La tavola trema terribilmente per scosse che, di quando in quando, la distruggono. Il titolo è Natura morta/viva (il costo 30.000 euro). L’artista è anche l’autore di una sconvolgente tavola ottica in cui è ben compitata e leggibile solo sino a una certa distanza la parola “help”.
Segnalo ancora qualche giovane artista di questo settore. Da Federico Luger (Milano) mi accolgono i rutilanti collages o tecniche miste con materiali di recupero e immagini da rotocalco ritoccate, ricomposti in murales multistrato che catturano l’occhio. Sono opere di Mattia Barbieri che valgono la visita e la richiesta. Così come davvero interessanti sono le tavole in plexiglass di Ludo da Wunderkammern di Roma, che rimandano alla rara arte digitale in fiera, qui assai ben rappresentata (un’opera di buona dimensione è a 2.700 euro). Infine, notevolissimo lo stand di Marie-Laure Fleisch (Roma) con le grandi e pregnanti opere di Yifat Bezalel che farà parte di una collettiva di interesse a cura di Micol Di Veroli al Macro Testaccio a Roma a partire dal 1 Febbraio prossimo. Il titolo sarà Israel Now – Reinventing the Future.
Passate senz’altro allo stand di BASE (Tokyo), dove i vetri di Toshio Iezumi rapiranno la vostra fantasia. Molti artisti giapponesi contemporanei arrivano alle nostre vetrerie muranesi per raffinare la loro arte, così forse perdendo parte della loro nipponicità (se questo sia un male non si può dire). In quest’artista la commistione di levità e trasparenza, di gesto accennato e concretezza del materiale, di ricerca della perfezione spirituale così come concettuale è al massimo livello. Le opere hanno un certo costo (per noi che non le conosciamo), ma sono straordinarie e dobbiamo capire che i Giapponesi considerano sempre debitamente i propri artisti e non li abbandonano come facciamo noi al primo successo costruito. Che qui non abbiamo senz’altro. Il grande piatto-vortice in vetro-cristallo a strati che mi cattura è offerto a 5.800 euro.
Eccellente è anche il pennello immaginifico di Massimo Angéi presso lo stand di John Martin (Londra) dove il fratello del titolare che ha aperto una bella galleria anche a Milano mi spiega la singolare vicenda di questo quarantenne fotografo commerciale di Sarzana, schivo e isolato dalla mischia del mercato ruggente, che alcuni anni fa (ri)scopre la pittura ma la declina sempre con l’occhio dell’obiettivo alla ricerca del particolare in natura. Ogni tecnica, ogni supporto è sperimentato, dal plexiglass alla tavola sino al rame, con l’effetto di una minuziosa ricostruzione di mondi alieni, gentili e distaccati. Mi piace molto un olio su plexiglass di media dimensione che ha persino alcuni echi dall’Antico, dalle Fiandre di buon secolo, a 3.600 euro.
Allo stand di Jerome Zodo (Milano) sono presenti le opere (rimaste) che popolarono la bella mostra appena conclusa di Matteo Fato, pescarese classe 1979, uno dei miei artisti del cuore. Grande incisore (insegna alla prolifica Accademia di Urbino) e “calligrafo”, ritorna ora alla pittura come a una seconda vocazione che attende quale scoperta di nuove possibilità d’indagine dopo l’esperienza della lunga analisi del segno. Sono abituata alle grandi installazioni di chine e piccoli interventi di pittura, alle costruzioni intellettualissime di mondi “a levare” sino a giungere al nocciolo della poetica, distante però da quella dell’Automatismo degli anni ’50 che coinvolse la prima astrazione europea e orientale. Si parte piuttosto dal segno pesante per arrivare al segno leggero, per raccogliere i cascami dell’arte e farne una specie di concentrato. Ora, però, Fato torna a una pittura a tutto campo, che appare quasi scultura, che non sembra davvero pittura e si lascia ammaliare da altre seduzioni, le quali impediscono la facile lettura del dato. Una scuola che ammiro incondizionatamente. Per acquistare opere pittoriche di Matteo Fato si deve predisporre una cifra che parta dai 3.500 euro sino ai 12.000 ca. per le installazioni di certo peso. Per me è senza dubbio uno dei nostri nomi migliori, se non si fosse capito.
Da Antonella Cattani (Bolzano), che porta con orgoglio la sua adesione a due aree geografiche apparentemente di complessa composizione (quella del Nord-Europa con cui riesce spesso a collaborare anche per manifestazioni di grande levatura e quella della Patria cui rimane attaccata con passione per le radici culturali che si rifanno ai maggiori nomi del ‘900 italiano, in particolare del primo astrattismo che tratta con passione e competenza), troverete solo proposte di qualità. Un Frangi di grandi dimensioni della serie dei “giardini pubblici”, che l’artista presente dice essere l’ultima prova prima di passare a un’altra immagine del suo ricco album di notizie dall’arte, dai colori petroleini che ammalia. Un grande “tubo” di Marco Di Giovanni, innamorato dell’indagine scientifica che lo trasporti lontano dall’opprimente quotidianità dell’esistenza, in cui troverete addirittura la luna (The wild blue yonder, dal film fantascientifico di Werner Herzog) incastrato nella parete esterna dello stand e le moleskines ritoccate che rivelano i ritratti di Tesla e Feynman, fisici che hanno stupito (e sconvolto) il mondo per le loro innovative scoperte e per il metodo scientifico che le sottendeva e che cercavano di diffondere. Ma non tralasciate di ammirare le mani nervose e pazienti allo stesso tempo delle madri dolenti e distanti di Julia Krahn (Aquisgrana, Germania, 1978), che è fotografa di spessore, accumulatrice di immagini-reliquia, di icone-monumento, di nature morte costruite con il mito. Bellissime nei loro insopportabili contrasti, per la natura profondamente destabilizzante sotto l’apparenza di una sempre prossima redenzione.
Mi piace sottoporre al vostro giudizio anche la qualità delle proposte della monastica Galleria Fabio Tiboni/Sponda (Bologna) che non è neppure segnalata nella planimetria di Artefiera e che porta nel suo piccolo stand, fra l’altro, una semplice rastrelliera dove sono raccolte le tavole senza titolo (non hanno neppure il “senza titolo”!) di Riccardo Baruzzi di cui non so nulla, se non che è pittore di monocromi più vitali e intensi di quanto potrebbe dare l’asciutta tecnica. E’ come se l’artista si fosse costretto autonomamente a un esercizio di contenimento della propria poetica, che invece non riesce a essere limitata e diventa scultura, figura, natura. E’ ottimo e val la pena di interessarsene.
Da Il Segno (Roma) andate per vedere le opere di Gregorio Botta (quelle più lineari ed essenziali dietro la prima parete) e i quadri di Alessandro Zamboni, pittore di area bolognese che non abbandona da anni la sua cifra ma non decade; mentre da FAMA (Verona) troverete molto Oursler di buona qualità e una bella composizione di “resti diversi da cui nasce un fiore” di Bertozzi & Casoni (che van sempre segnalati!); infine da Forma Galleria (Milano) segnalo le straordinarie stampe glacée di Silvia Camporesi con le sue Venezie che stanno per essere sommerse da onde di tsunami e i suoi spettrali panorami di natura maligna.
Un altro eccellente trouvaille è da Guidi & Schoen (Genova), dove ha spazio la particolare opera del trentasettenne genovese Alessandro Lupi, che attraverso un complesso impianto di cellule luminose permette a chi osserva la lastra verticale quasi-specchio riflettente di trovarvi tre immagini a seconda di come vi si pone innanzi: guardando dal lato sinistro appare una figura maschile, dal lato destro una femminile, al centro una pila di cubi che riprendono l’andamento un po’ morbido e la mossa policletea dei due personaggi di cui, a questo punto, l’identità non è certa, mentre è certo che si dissolverà. Eccellente prova di calembour colto e intelligente di un artista che si deve seguire, come fa la galleria da tempo. Presto presenterà un’opera che sicuramente farà discutere a Berlino, di cui spero di dare conto su queste pagine quando sarà il momento.
Da Alessandro Bagnai (Firenze) trovo due bellissime opere che mi riconducono alle forme consuete: uno straordinario (come non se ne trovano spesso) svettante legno combusto di Nunzio che può essere acquistato per 60.000 euro e che bisognerebbe valutare davvero e una delicata “fioritura” della parete a opera del raffinatissimo artista aostano sessantenne (che vive però, fuori dalla mischia, in Chianti) Rolando Duval, il quale invecchia all’aperto le lamiere in ferro dopo averle formate con l’aiuto di una particolare tecnica “al plasma”, per 5.000 euro. Sono entrambe prove di grande valore artistico e la diversa richiesta economica non ha qui interesse: il collezionista accorto non ne può essere influenzato né in un senso né nell’altro.
Sto un po’ annaspando (è il secondo giorno in Fiera), ma non mollo e infatti vengo immediatamente catturata dalla straordinaria e oramai compiuta deriva astratta di Loris Cecchini alla Galleria Continua (San Gimignano/Pechino/Boissy-Le-Chatel). Il muro si sta corrugando per opera di un immaginario sasso lanciato da mano ignota, ma in qualche maniera la fusione è interrotta da un intervento congelatore, che cristallizza questo emblema di dinamismo o di disfacimento. E’ la bellissima scultura in resina poliestere dal diametro di un metro che permette l’illusione dell’ingresso in altra dimensione. Per chi ama Cecchini, qui in grandissima forma, questa bella scultura, eseguita in edizione di tre esemplari, costa 36.000 euro.
Concludo in bellezza con il contributo fondamentale di una galleria di grande importanza per Milano e l’Italia che, dopo anni di assenza, per causa dell’amicizia con Giorgio Verzotti ha accettato di tornare nella città felsinea “sulla fiducia”, la A Arte Studio Invernizzi (Milano), che ora, come dice il titolare Epicarmo Invernizzi, attende che amministrazione e organizzazione facciano il proprio dovere per tornare ai fasti di qualche anno fa. Anche in tempi di crisi, soprattutto in tempi di crisi. Ma è positiva comunque l’esperienza bolognese per questa galleria storica dalla ricerca importante e rigorosissima. In fiera, i cavalli di battaglia di una vita: Candeloro, Charlton, De Marchi, uno straordinario monumentale Nigro, Morellet, Querci, Sonego, Tremlett, Umberg e uno splendido trittico (in realtà singole opere) di Aricò di cui la Invernizzi è pronta a prestare un nucleo importante di opere della seconda metà degli anni ‘60 alla Fondazione Guggenheim di Venezia per l’attesissima mostra “Postwar. Protagonisti italiani”. Aricò è un genio e la galleria Invernizzi uno dei suoi più importanti, privilegiati numi tutelari. La qualità, la tenacia, il rapporto con gli artisti coltivato con amore e rispetto, la collaborazione con curatori colti e intelligenti e filosofi di primo piano della scuola italiana di estetica più recente (la migliore in Europa, lo sappiamo?): tutto ciò conta e ripaga, forse alla lunga ma durevolmente.
Rilevo, un poco stupita, un andamento soddisfacente (come non fu l’anno scorso), contro ogni previsione. O forse poiché tutti pensavamo sarebbe stato un difficilissimo banco di prova, questo dell’edizione del 2013, le buone notizie, anche se non ancora sufficienti, riscaldano il cuore. Ma i problemi sono lungi dall’essere risolti; vero è che il collezionista – ovvero colui che fa la differenza – non si è fatto intimidire dal momento del tutto sfavorevole e ha dato ancora fiducia al sistema, anche se timidamente, anche se con titubanza e sempre minor presenzialismo. E’ da qui che si deve ricominciare.
I (pochi) mercanti stranieri presenti ad Artefiera a Bologna sono esterrefatti per l’assurda nostra recente trovata del redditometro che si applica anche all’arte, solo l’ultima della nutrita serie di poderose imbecillità legalizzate che investono il lecito (lecito, non illecito) acquisto di un’opera. E sanno – detti mercanti – che l’Italia è Paese su cui non contare per un ricambio generazionale dell’arte, per investire nella nostra cultura.
E, questo, lo sanno anche i nostri artisti che, numerosissimi, ormai varcano le frontiere per lavorare all’estero (particolarmente nell’ospitale Germania), colà far base, non rientrare in Patria dove nulla tutela il passaggio ufficiale, un lecito (lecito, non illecito) guadagno, la speranza di emergere e di mantenere, quando emersi, una posizione che non sia solo l’ “one shot” del gallerista poco professionale o del curatore in cerca di un facile quanto effimero successo sulla pelle degli altri.
Ma questo non è tutto. Non possiamo pensare che le responsabilità siano solo dell’ “insensibilità” dello Stato.
“Arte Fiera” è quest’anno sommersa dalle mille occasioni di far festa fra performances, mostre, incontri, presunti scontri, false liaisons e vere autarchie. Il Direttore-piglia-tutto della catena civica dei Musei bolognesi appare quasi ovunque. Quasi ovunque si parla d’arte, quasi ovunque il mercato dell’arte diventa uno scomodo partner per il protagonismo di altri. Artefiera insiste a far partecipare – come è sacrosanto e sarebbe impensabile non fosse così – altri commensali alla mensa ormai depauperata del collezionista, ma non accende i riflettori su se stessa, quando invece a buon diritto potrebbe. Anche qui, come altrove, ma come mai è stato in passato, ci si vergogna di essere quel che si è.
Sono senz’altro dura e forse ingenerosa nei confronti di chi si spende per far diventare Bologna una metropoli internazionale almeno per qualche giorno, ma io preferirei insistere nel dibattito sulla profonda crisi di un sistema mercantile che ormai stenta a riparare alle mancanze dello Stato nella costruzione delle collezioni (che poi, se importanti, diventeranno pubbliche) e sulle difficoltà di dialogo fra le Istituzioni pubbliche e il Privato, ora drammaticamente acutizzate dalla contingenza, non farcire la Città di manifestazioni (alcune buone, altre meno, tutte non particolarmente funzionali alla fiera) che distraggono dall’obiettivo e non aiutano, anzi spesso contrastano, gli operatori che qui giungono sempre meno numerosi e non tutti fra i primi del “cartello”.
Una perdita di prestigio, questa, che non è affatto compensata dall’incremento di mostre e parties. Ma se i protagonisti di “Arte Fiera” sono i Direttori dei Musei, i curatori, gli Assessori, i maggiorenti (tutti benvenuti, ma tutti, in realtà, estranei a ciò che è l’occasione vera di festa), c’è poco da sperare nello sviluppo organico e lineare e nella risoluzione dei problemi del mercato dell’arte.
Da parte degli uni non c’è alcun passo avanti per la ricerca di un’intesa fra le diverse forze di un sistema ormai al collasso, da parte degli altri c’è un supino ripiego per armi spuntate e perdita di “forza persuasiva”.
Non c’è davvero più desiderio di volare?