Oggi divago dal solito viottolo ben acciottolato di Arte e dintorni, per inoltrarmi in un terreno minato. Direi da mina anti-uomo, se non temessi di forse recare offesa con la metafora troppo spavalda con la vita altrui. Ma il momento esige una riflessione “di sistema”. E l’argomento ha a che fare con la più vasta accezione di Cultura e Civiltà.
Siamo Paese vecchio, e anche incapace, per ciò che la nostra rappresentazione di Democrazia seppe fare sino a qui, di rinnovarci in un Parlamento talmente chiuso in se stesso da non capire neppure che la realtà, urlata con veemenza e rabbia incontinenti nelle piazze fuori dalle mura del Palazzo, sta entrando dalla finestra allorquando si era supposto di averla lasciata ben sigillata all’esterno della porta. Non siamo in grado di capire quando il tempo è scaduto – in tutti i sensi – e quando è il momento di voltare pagina per sopravvivere.
A far le spese dell’inanità della nostra classe dirigente è – al netto di ogni accusa di populismo – la cerniera che ci permette ancora di chiamarci uomini: la nostra gente più bisognosa di aiuto per studiare, curarsi, vivere dignitosamente è quella che, paradossalmente, ci salverà dall’oblio dei Popoli. La sperequazione è evidente, mentre la nostra classe politica in questi anni ci ha mostrato di tutto, sino a utilizzare impunemente e in pubblico (pensando sia questione da bar, fra amici al terzo spritz al select che, pupilla acquosa, insultano il tempo e maledicono le donne) frasi come “immaginate che un giudice m’impone di pagare una signora 100.000 euro al giorno” ritenendo sia cosa che si possa tutti noi condividere e persino compatire, nel grande gorgo del “siamo tutti uguali” quando, tutti uguali, mai siamo stati e oggi meno che mai.
La nostra gente più debole è quella che dobbiamo difendere e aiutare per difendere e aiutare noi stessi. Non c’è alternativa, se un giorno vorremo ancora abitare questo Paese in libertà. Se invece desideriamo una vita di rassicurante servitù, possiamo rimanere in attesa che qualche potenza straniera termini di colonizzarci – perché questo sarà il nostro destino – e diventare ciò che la colta Europa non avrebbe mai potuto supporre di annoverare fra i suoi pupilli, un Paese di “riporto”, un Paese indegno di far parte del circuito dei Civili propriamente detti.
Per aiutare chi ha bisogno come dobbiamo essere? Tecnici ed esperti? Da quando il tecnicismo, nella nostra ricca e “polumetica” cultura italica è stato d’aiuto? Da quando la specializzazione ha saputo andare oltre l’orizzonte della prima necessità e non ha causato, invece, inutili inciampi a chi voleva andare più veloce? Non mi si fraintenda: la competenza di cui parlo è quella che a ogni passo ci viene ostentata come requisito primo per primeggiare. Ostentata, millantata.
Essere competenti in una materia apre qualsiasi porta, permette di parlare a ragion veduta, concede d’insegnare e pone le basi di successivi approfondimenti nell’ambito in cui si vuole, per l’appunto, eccellere. Chi potrebbe dubitare di questa espressione lapalissiana?
Affermo, invece, che oggi sia non più procrastinabile una maggior dose di sana incompetenza per prendere in mano le redini di questo Paese devastato. Osserviamo con occhio nuovo la felice umiltà di chi si ritiene sempre inadeguato e per questo motivo non ha mai sgomitato per “arrivare”, come generazioni di uomini e donne illustri ci inocularono nel lobo frontale affinché così ci adeguassimo al girone dantesco della nostra âge d’or, priva di guerre (per noi europei, tranne che per qualche segnale inquietante ai margini del Centro Europa qualche lustro fa…), ricca di opportunità e spensieratezza, esiziale alla lunga, tuttavia, per la nostra Cultura e per i nostri intelletti.
La competenza è perniciosa: ha generato “competenti di professione”, inamovibili dai propri scranni per decenni, avvitati nella consapevolezza proterva di essere inattaccabili perché essi stessi la fonte prima di ogni revisione, di ogni correzione nella rotta. Ma, senza evoluzione e senza uomini e donne fresche di sapere ignoto a chi era prima, non si procede.
Pensando a qualche esempio concreto e nazionale, Massimo Cacciari è uno dei nostri primi “incompetenti”, e, per questo motivo, assai di rado è ascoltato, nel suo disperato quanto insistente mugugno di fondo a ogni apparizione televisiva, quando reitera questioni e posizioni di puro buon senso (“semplice logica” come tradizionalmente il filosofo la chiama). Fatta salva la parentesi veneziana di governo cittadino, peraltro non bene perfetto (malgrado le migliori intenzioni, e questo è ciò che più mi affascina del personaggio), si distingue in genere, pur eccellendo nel proprio ambito, per non saper condurre le Istituzioni cui è posto a capo. Spesso e volentieri tale inossidabile insuccesso si deve a chi egli volle accanto a sé, eletto per stima e contiguità di pensiero più che per opportunismo o per costruire un piccolo principato, così come mentalità corrente del perfetto governante vorrebbe.
A un tale “incapace” va la palma di chi più tentò per riportare ordine alle nostre menti ormai asciutte e tetragone al sapere. Negli ultimi tempi, poi, sembra che una perfida volontà di scherno reiterato e inconfessabile abbia sotteso le molteplici chiamate alle armi catodiche, cui il Nostro risponde sempre volentieri, in un accanimento che deve far riflettere.
In effetti, l’incompetente non fa timore, e anzi favorisce inconsapevolmente chi abbia necessità di rifarsi il trucco un po’ scomposto dagli eventi procellosi che incalzano. Per questo motivo dobbiamo anche difendere l’incompetente dai pericolosi competenti che lo ghermiscono, cercando di sfruttarlo per propri fini.
Per rimanere nell’alveo della cultura scritta e letta, basti ricordare l’emblematico esempio offerto dal seguente salace episodio occorso a Philip Roth solo qualche mese fa, che bene descrive l’impotenza di chi non si sente “attendibile” pur ai livelli maggiori di quanto possa essere umanamente concepita una determinata “competenza”.
<Il premio Pulitzer Philip Roth ha pubblicato ieri sul New Yorker una lunga lettera aperta indirizzata agli amministratori di Wikipedia. Roth racconta che la pagina di Wikipedia su La macchia umana, un suo romanzo pubblicato nel 2000, conteneva un grave errore che ha chiesto venisse corretto.
Roth racconta che alla sua richiesta, fatta a fine agosto (2012, n.d.a.), Wikipedia aveva risposto dicendo di non ritenerlo una fonte affidabile. «Ci rendiamo conto del suo punto di vista, e che l’autore sia la principale autorità sui suoi racconti – avevano scritto gli amministratori – ma a noi serve una seconda fonte». Secondo quanto ha riportato l’autore, gli amministratori di Wikipedia in lingua inglese gli dissero anche che Roth «non era una fonte credibile». […]
Dopo la pubblicazione della lettera, ieri, la voce è stata corretta ed è stata aggiunta un’apposita sezione dedicata alla fonte di ispirazione del romanzo, in cui si dà conto della lettera al New Yorker e della correzione. > (da Post.it, 8 settembre 2012, “Philip Roth e le correzioni a Wikipedia”).
Per coloro che sono in vena di pruriginose curiosità sull’argomento, ecco una veloce scelta di “incompetenti” cui dobbiamo epocali inversioni di tendenza nella cultura visiva, fra i molti che esistettero in particolare a partire dalla Rivoluzione Industriale (il che è ulteriormente curioso, se si pensa all’incipit rutilante dello splendido, incorruttibile e “professionalissimo” tempo di Smith e Comte): Van Gogh, Rousseau, Gauguin, indi, più decadentemente prossimi a noi, Ernst e Basquiat.
Ma, affinché non si pensi che questo mini-pamphlet tratti il pesante con leggerezza, vorrei distogliere il pensiero dai nomi più eclatanti per riportare tutti noi alla contingenza (all’urgenza della contingenza) e ribadire che dobbiamo essere tutti più incompetenti, più lievi e, quindi, più consapevolmente “adeguati” a far fronte a ciò che, per anni facendoci credere non fossimo pronti, oggi urge essere ricostruito.
L’abolizione degli ordini professionali, se privi di un attivo e formativo codice deontologico (primo fra tutti quello dei giornalisti), aprirebbe infinite porte ai timorosi, ai pàvidi di fare ingresso nell’empireo dei pochi unti dal Signore. Quanti sono i giornalisti che si dichiarano tali, con cotanto di diligente tesserino, e che invece non sanno neppure dove stia di casa l’oggetto del proprio scrivere? E quanti sono gli scrittori che si ammantano di allori per aver ricevuto l’impronta editoria con nessuna vera arte? E così via, a centinaia di esempi “qualificati”/”specializzati”/”periti”. Fra cui, summa summae, annoveriamo la qualificatissima Cristina Acidini in quel di Firenze che ostentò un’inossidabile sicumera nel certificare orbeterraqueamente la michelangioleità di un cristino in tiglio del ‘500 che la storia (e qualche buon occhio in più) dimostrò essere poi bella mano di bottega.
Gli incompetenti, sapendo di essere impropri, per vocazione o per casualità, tendono a essere collegiali, fors’anche sbagliando, ma ambiscono fortemente a condividere il proprio malcapitato e incidentale sapere (Cacciari è “obbligato” a essere colto…) e coinvolgere chi sta loro intorno, il più delle volte sbagliando il bersaglio, ma, increduli del fallimento (altra formidabile caratteristica degli incompetenti), ricompongono le proprie armi e ritentano senza por tempo in mezzo. Sempre inadeguati, sempre in anticipo, sempre senza le opportune accortezze o, tantomeno, le indispensabili furbizie dei tecnici, dei qualificati, dei professionisti.
Utilizzate, se vorrete, coloro che non sanno forse come fare per districare i nodi della quotidianità (oppure lo sanno fare benissimo, ma nessuno gliene dà credito) ma che desiderano ardentemente vedere un chiaro orizzonte per tutti, nessuno escluso, che sono ancora generosi dei loro molti doni, senza qualifiche, senza capacità, senza i limiti della casta che impone avarizia e individualismo. Diffidate da coloro che sembrano peritissimi. Ci portarono dove siamo ora, nella disperazione. Valutate le presunte incapacità degli incompetenti e date loro fiducia.
Anzi, armiamoci di volontà e diventiamo tutti un poco incompetenti e molto pròdighi di noi stessi.
5 Commenti
Prego perdonare l’ennesima chiosa. Per essere esplicita, affermo che il “re degli incompetenti” è – per l’ambito che più ci sta a cuore – quel Salvatore Settis inascoltato sempre, deriso dai burocrati spesso, incensato ufficialmente ogni volta che serve (allo stesso che poi lo deride), utilizzato dai governi per le sue qualità (soprattutto etiche) mai. Perché l’Italia non può avere un ministro della Cultura così? Cosa ce lo impedisce? La “competenza” di una Brambilla, già catturata dal giornalismo meno lecchino per misere nefandezze da seconda Repubblica? Cosa fa affermare ai nostri politici che una Brambilla avrebbe potuto meritare ancora un titolo simile al Governo mentre un Settis no? Grazie al cielo, almeno questa beffa ci è stata risparmiata, ma il rischio c’era ancora e se fu così, significa che non granché è mutato.
Ho però tuttora in mente che mentre ci si sdrucciolava nel toto-ministri, nessuno dei giornalisti assatanati nel competere con il Divino Otelma (il quale, non a caso, tacque molto più sensatamente) perdeva un solo fiato per chiedersi chi avrebbe guidato lo scranno per me forse più importante del Paese, quello dei Beni Culturali, intorno alla maggior tutela e sviluppo dei quali tutta la nostra Nazione e ogni nostro cittadino dovrebbe riconoscersi e godere.
E’ la svolta etica che manca, è la spinta morale che latita, quella che costringe senza bisogno di leggi il nostro rappresentante a fare il bene del popolo di oggi e di quello di domani, perché quello di oggi è solo una infima frazione di quello di domani.
Affermo ancora che solo gli incompetenti hanno quel genere di slancio e quel senso d’onore e identità che manca a tutti gli altri (altri di cui facciamo parte tutti noi acquiescenti). Fortunatamente per noi e per i nostri figli, c’è ancora qualcuno, rarissimo ormai, che risponde a questi requisiti (e non è necessario che sia noto ai più): per questo motivo dovremmo, tutti noi che non siamo così “incompetenti”, salvaguardarne la specie, come i panda in cattività.
Gentile Silvestro, ha tutte le ragioni e sottoscrivo ogni parola che scrive. Ma l’incompetenza di cui parlo io è quella che si scorge nell’animo, quella di coloro che si sono sempre sentiti inadeguati o impotenti e che hanno spesso lottato contro i mulini a vento. Da loro bisogna re-imparare la tenacia delle convinzioni e dell’idea (una questione che abbiamo sepolto non si sa perché: senza ideali l’uomo non vive) e soprattutto l’abnegazione malgrado la sconfitta. Questi sono gli “incompetenti” di cui parlo, coloro che avrebbero molto da dare e che sino ad ora l’establishment ha allontanato in un modo o nell’altro dalla stanza dei bottoni. Nessuna coloritura romantica: la nostra percentuale di corruzione degli intelletti è talmente alta a tutti i livelli, che abbiamo enorme difficoltà a trovare oggi dei veri “incompetenti”. Una di questi, per me, è Emma Bonino che ha tracciato un solco da cui non sembra aver deragliato in tutti questi anni. E pur protagonista di molte battaglie, trova sempre qualcuno sui suoi passi che la ritiene non consona a rappresentarci. Eppure ha qualità che esulano dal colore politico. Io cerco questo, ora. Ed è vero che è merce rara. La cosiddetta “verginità d’incarico”, per me, non costituisce di per sé alcuna garanzia.
Cara Curti, saranno i tempi tumultuosi di questi giorni iper-politicizzati, sarà il riferimento a Cacciari sindaco, saranno le ripetute “incompetenze” citate lungo tutto il testo e che rimandano all’oggi, fino alla politica Bonino (super competente), ma non riesco a trovare ANIMA , se non virtuale, nel senso che dal pamphlet emerge. Ciò che colgo é invece l’aura corrotta dell’oggi, tutta politicamente incompetente (ed eticamente, e sociologicamente, e moralmente) che si scontra con il Suo empito desiderante.
A utilizzare troppi paradossi, si rischia di essere oscuri, me ne rendo conto. Quello che intendo io è l’incompetente per i più (trattato anche con dileggio) rispetto a coloro che vengono ritenuti “competenti” dai più. In questi anni di pernicioso malgoverno tutto condensato in puntate di talk-show, tappati al termine da una coda di tecnici che sembravano favorire il buongoverno ma che, forse non soltanto per loro colpa, non sono riusciti nel poco tempo concesso a riparare ai grandi errori fatti da tutti per troppo tempo, sono nauseata dai competenti e vorrei invece “uomini nuovi” (e donne nuove) nel senso di una nuova cultura attenta al particolare, al senso della civiltà, dell’arte, dell’educazione (scolastica). Desidero una drastica inversione di rotta: si vuole oggi puntare sul lavoro (che scoperta…) e come s’intende fare se le facce dei “progettisti” sono quelle di coloro che perpetrarono i danni in passato (con una bella ripulita)? E invece di parlare in astratto di “lavoro” perché non intuire finalmente che il nostro bacino di maggior profitto proviene dai nostri beni culturali? Perché non si fa e si lasciano a casa tonnellate di laureati già campeggiati nei miasmi delle paludi delle inutili lauree brevi?
Ha comunque ragione lei, il mio pamphlet rappresenta più dei desiderata che una reazione vera e propria su basi meno che teoriche. Sono convinta che, allo stato delle cose, di “incompetenti” come io intendo ve ne siano assai pochi disposti a uscire allo scoperto. Vedranno i nostri figli o nipoti i risultati di questo infame periodo.
Mi fa riflettere la relazione fra incompetenza dei sedicenti o presunti competenti e l’incompetenza dei neofiti della politica. Se daremo tempo a questi ultimi, nell’emergenza in cui stiamo, di quanto ne avranno bisogno e a danno di chi? E se offriremo una rinnovata fiducia ai burosauri dell’italica politica di quanto tempo avranno bisogno per aggravare ulteriormente il danno di tutti? Oramai il dado è tratto e basti la sola nomina della nuova titolare del ministero della salute, mai sfiorata dalla cultura, fa tremare i polsi.