DIPINTI ANTICHI
28 maggio 2013 – ore 15.00
Genova, Palazzo del Melograno
Classicismo e naturalismo sono i grandi filoni della pittura italiana ed europea del Seicento, un secolo segnato da grandi rivolgimenti politici, sociali e culturali tanto da definirlo il primo dell’era contemporanea. Caravaggio e Annibale Carracci rappresentano le due anime distinte e complementari di una ricerca verso un rinnovamento nell’alveo della tradizione dei canoni iconografici e iconologici che troverà la sua sintesi nella pittura barocca, sia essa rivolta verso i grandi temi della storia e della mitologia, che verso lo svilupparsi, dopo il terzo decennio, di tematiche profane e grottesche, che andavano incontro alle esigenze di un pubblico che preferiva una fruizione dilettevole e domestica piuttosto che celebrativa e pubblica.
Tre esempi paradigmatici del barocco come lingua comune che interpreta Shakespeare, Milton e Molière; Galileo, Cartesio e Spinoza; Monteverdi, Vivaldi e Bach, spiccheranno nel catalogo dei Dipinti antichi.
La Conversione di Saulo di Francesco Solimena (stima 15.000 – 25.000 euro) è un esempio di un naturalismo barocco maturo nello stile migliore dell’artista. Questo imponente ‘modelletto’ (cm 124 x 99) per gli affreschi della sagrestia della basilica di San Paolo Maggiore a Napoli, realizzati tra il 1689 e il 1690, è una delle principali creazioni dell’autore quando il suo estro creativo e la sua pennellata evocano straordinarie macchine sceniche, ricche di colore e vitalità narrativa. La tela offre l’opportunità di cogliere il procedimento creativo dell’artista e di comprendere quanto sia ancora efficace in lui la lezione giordanesca, ma pronunciata con un vigore e una modernità che travalica la sensibilità barocca preannunciando l’evoluzione in chiave settecentesca della grande decorazione. La composizione con sapienza onnivora ingloba in se il migliore magistero della teatralità e un cromatico tenebrismo che solo la cultura partenopea era in grado d’esprimere in così alto grado. L’impressione d’insieme è a dir poco grandiosa, non solo per la qualità prettamente estetica, ma anche per la regia scenica complessiva che pare inarrestabile e al contempo arginata dalle vaste rappresentazioni poste agli estremi della sala, e che il ‘modelletto’ evoca con una forza straordinaria e toccante. È impressionante osservare gli innumerevoli passaggi di colore e delle velature e al contempo accorgersi del rigorosissimo impianto formale e disegnativo, che delinea i corpi e le mani dei diversi attori della scena.
Di Gian Domenico Lombardi, artista di spicco del primo Settecento lucchese, è l’olio su tela della Giovane coppia con vecchia che conta danaro (stima 10.000 – 15.000 euro). Le sue creazioni presentano la peculiare capacità d’esprimersi attraverso i linguaggi del tardo barocco, del classicismo capitolino e della coeva eloquenza toscana, riuscendo altresì a pronunciare diversi registri narrativi, intervallando il genere “basso” ebambocciante con la pittura di storia e il ritratto. Il tema è l’avarizia nelle tre età dell’uomo e i sottili sottintesi erotici carnevaleschi con una precisa dinamica gestuale che trascende il semplice ammonimento morale. La vecchia che conta i soldi, da raffigurazione dell’avarizia diviene mezzana, e la pipa del giovane è un’allusione sessuale rivolta alla figura femminile che di soppiatto ruba alcune monete, attivando ulteriori livelli di lettura iconologica dell’immagine.
Infine, lo stile dell’Allegoria della Pace e della Giustizia di Stefano Pozzi (stima 3.000 – 5.000 euro) palesa una datazione settecentesca e l’ottimo stato di conservazione concede una ideale lettura degli aspetti cromatici e disegnativi. La rappresentazione descrive al centro due figure femminili assise su una nuvola che impersonano la Pace e la Giustizia contornate da putti che sorreggono la fiaccola, la cornucopia e il caduceo, simboli dell’Amore, dell’Abbondanza e della Ragione; la parte inferiore è dedicata all’allegoria dell’affetto materno e in basso a destra osserviamo la figurazione profetica di Isaia del lupo che dimorerà insieme all’agnello, allusione alla grazia di Cristo che genererà l’unione e la comprensione tra gli uomini (11,1-7). L’opera trova una precisa corrispondenza illustrativa con la tela conservata presso il Palazzo Reale di Caserta che Stefano Pozzi eseguì attorno alla metà del settimo decennio quale modello pittorico per uno degli arazzi destinati alla camera da letto di Ferdinando IV nel Palazzo Reale a Napoli. Appare chiaro allora che la nostra tela è il ‘modelletto’ dell’imponente pala casertana, che abbinata al disegno preparatorio (oggi conservato al Museo di Baltimora), esprime la complessa procedura creativa dell’artista.
Link alle altre aste:
-DIPINTI DEL XIX SECOLO
28 maggio 2013 – ore 21.00
-ARTE ORIENTALE
29 maggio 2013 – ore 15.00
-TAPPETI E TESSUTI ANTICHI
29 maggio 2013 – ore 17.00
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-approfondimento-
Abraham Louis Rudolphe Ducros
Nisida da Posillipo
Infinito Grand Tour
di Emilie Beck Saiello
Nisida vista da Posillipo… È come se il passo rapido del viaggiatore, che percorre incessantemente le strade del Grand Tour, si fosse infine fermato in questo luogo di delizie, Pausilypon, incantato dello spettacolo del golfo, con le sue acque trasparenti, la cui calma non sembra disturbata dall’attività dei pescatori che ripetono instancabilmente i loro gesti secolari.
Il golfo di Napoli costituisce uno dei luoghi comuni sia della tradizione topografica napoletana, che del paesaggismo settecentesco con le sue vedute souvenirs. Lo sa bene lo svizzero Ducros (Moudon, 1748 – Losanna, 1810), abituato, da una lunga permanenza nella Penisola, alle richieste, spesso convenzionali, del mercato del Tour. Eppure in questo strepitoso omaggio alla bellezza del luogo, l’artista non rinuncia a sfoggiare la sua inventiva. Innanzitutto nella rappresentazione del sito: non una veduta panoramica della baia con sullo sfondo un Vesuvio fumante e in primo piano qualche scorcio di città con monumenti ben riconoscibili, ma l’isolotto di Nisida, con il castello Piccolomini, e la scogliera tufacea di Posillipo, monumentalizzata dalla scelta del punto di vista ribassato della cala di Trentaremi. Il tutto reso attraverso una composizione diagonale di matrice piranesiana e un effetto di profondità di campo. Il pittore – abituato al rilievo accidentato delle sue Alpi natie – è attratto da queste ruvide rocce scoscese, che appaiono, sotto il suo pennello, quasi minacciose, preannunciando il gusto romantico per il luoghi inospitali (montagne, grotte, precipizi…) e segnando un’evoluzione rispetto all’interesse illuministico verso i siti ameni della Campania Felix della generazione precedente. Bisognerà comunque attendere l’inizio dell’Ottocento e l’avvento di una nuova sensibilità perché gli artisti – quali Bidault, Turpin de Crissé o Corot – soccombano al fascino del paesaggio più aspro e selvaggio delle isole del golfo, della penisola sorrentina o della costiera amalfitana.
Quando Ducros si stabilisce, nel 1794, nella città partenopea si era ormai conclusa la luminosa stagione del vedutismo napoletano, avviata agli inizi del secolo da Gaspar van Wittel ed i cui principali esponenti erano oramai scomparsi o tornati nel loro paese, e si era praticamente esaurito il fenomeno del Grand Tour, a causa delle vicende politiche legate alla Rivoluzione Francese. Benché essenzialmente autodidatta, l’artista possedeva già una profonda conoscenza sia della tradizione paesaggistica fiamminga e olandese (acquisita principalmente nei suoi anni di formazione ginevrina), che delle diverse correnti del vedutismo europeo: dalla linea analitica di Hackert, Labruzzi e Lusieri, alle delicate e sensibili raffigurazioni geologiche di Fabris e Hoüel, passando per le pittoresche descrizioni degli artisti del Voyage pittoresque di Saint-Non e per le romantiche visioni di Towne e Cozens. Rispetto a tutto ciò, Ducros si distingue non solo per la scelta di soggetti e angolazioni originali e audaci (con l’aggiunta, a volte, di correzioni ottiche e di fantastiche combinazioni topografiche), ma anche per l’uso sapiente di una tecnica di grande ricchezza e complessità. Ben consapevole dei vantaggi offerti dall’uso del supporto cartaceo per il mercato del Grand Tour (leggerezza, trasportabilità ed economicità), il pittore sceglie questo mezzo come il più adatto a rendere la trasparenza cristallina delle acque del golfo e la luce accecante del Mezzogiorno; ciò, tuttavia, non gli impedisce di utilizzare la tela, materiale più nobile e solido, sulla quale incolla i suoi preziosi fogli giuntati. Incisore, pittore e acquarellista di formazione, e probabilmente grande ammiratore delle sperimentali e visionarie stampe acquerellate e delle acquatinte allo zucchero realizzate su carta o tela colorata da Hercules Seghers, Ducros si dimostra capace di usare al meglio le potenzialità della gouache napoletana e dell’acquerello, in voga presso gli inglesi, e dà prova di una notevole padronanza nella pittura ad olio, che conferisce brillantezza ai suoi disegni. La tecnica complessa e raffinata dell’artista gli permette di mantenere sempre elevato il livello delle sue opere e di venire incontro alle esigenze dei suoi prestigiosi clienti: non più i frettolosi grand tourists ma dei colti mecenati quali l’ambasciatore William Hamilton e il ministro Acton. Per questi ultimi Ducros non lesina né sui tempi di esecuzione, né sui pigmenti usati, nel caso della presente opera dei preziosi lapislazzuli. In effetti, la veduta di Nisida risale presumibilmente al secondo soggiorno napoletano dell’artista (dal 1794 al 1798), come risulta dal confronto con altre opere di quel periodo, quali la Grotta di Posillipo da Palazzo Donn’Anna del Museo di San Martino o la Veduta di Villa Acton presso Castellammare di una collezione privata londinese, firmata e datata 1794. Tuttavia, quando si sfoglia il cospicuo catalogo delle opere di Ducros, risulta evidente come la presente veduta si distingua dalla produzione consueta di paesaggi napoletani dalla cromia terrosa, per la sua luce cristallina e per le sue tonalità chiare e trasparenti. Affascinato dalla bellezza dei luoghi e dall’atmosfera della serena mattinata estiva, il pittore rinuncia alle consuete manipolazioni del dato reale e alle interpretazioni fantastiche, per restituire fedelmente ciò che si presenta davanti ai propri occhi. La micrografia esasperata e insistita (Spinosa) con la quale descrive rocce e vegetazione – che lo avvicina sia al prussiano Hackert, che al francese Péquignot – viene qui temperata dalla resa degli effetti atmosferici: la luce abbagliante e la foschia di una calda giornata.
Il periodo napoletano di Ducros costituisce probabilmente, per la qualità delle opere e l’originalità delle soluzioni formali adottate, la fase più interessante e feconda della carriera del pittore. Ciò sia perché si colloca quasi al termine del suo iter artistico, sia perché si inserisce alla fine di una delle più ricche e variegate stagioni pittoriche, quella del vedutismo napoletano. Una stagione che aveva visto protagonisti i più grandi rappresentanti del paesaggismo europeo, da Van Wittel a Lusieri passando per Vernet, Joli, Wilson, Fabris, Hubert Robert, Thomas Jones, Hackert, Cozens e Wright of Derby, tutti egualmente attratti dall’incanto dei luoghi: dal Vesuvio ai Campi Flegrei, dai monumenti di Napoli alle verdi colline disposte ad anfiteatro sul golfo. Così Gaspar van Wittel (1651 ca-1736) farà di Napoli una delle capitali del vedutismo italiano – insieme a Roma e Venezia – rompendo con la tradizione del paesaggio classico di matrice poussiniana e importando la tradizione topografica del nord Europa. Antonio Joli (1700 ca – 1777), dal canto suo, darà della veduta un’interpretazione più aulica, diventando lo scenografo e il reporter di tutti gli eventi della vita della capitale. La lucidità analitica si imporrà, da Van Wittel in poi, come la caratteristica richiesta a tutti i paesaggisti di corte: Van Wittel, sotto il duca di Medinaceli, Joli, durante il regno di Carlo III, e infine Jacob Philipp Hackert (1737-1807), che all’epoca di Ferdinando IV adatterà il genere alle nuove esigenze del gusto neoclassico. Un’altra vena, più pittoresca e narrativa, ed attenta al dato emozionale, sarà invece proposta dagli artisti francesi: dal caposcuola Joseph Vernet (1714-1789) all’allievo Pierre Jacques Volaire (1729-1799), passando per i diversi collaboratori (diretti o indiretti) del Voyage pittoresque dell’abate di Saint-Non (Châtelet, Desprez o Hoüel). Gli inglesi Richard Wilson (1714-1782), Thomas Jones (1742-1803), Joseph Wright of Derby (1734-1797) e John Robert Cozens (1752-1797), benché dotati di personalità artistiche molto diverse tra loro, contribuiranno a far evolvere il genere verso il romanticismo, introducendo delle innovazioni nella tecnica (l’acquerello, successivamente tanto apprezzato dai paesaggisti ottocenteschi), nella scelta delle angolazioni, dei tagli compositivi e dei soggetti (a volte anodini, a volte sublimi).
In definitiva, il contributo di Ducros alla scuola paesaggistica napoletana consiste, come messo in rilievo da Pierre Chessex, da un lato nell’introduzione di scenografie fantastiche e singolari, a testimonianza di una personalità inquieta e di una precisa volontà di andare incontro al nuovo gusto per l’irrazionale del romanticismo nero dei suoi clienti inglesi. Dall’altro, nella realizzazione di composizioni più sagge e apparentemente convenzionali, che cercano di rivaleggiare, sia nel formato che nell’intensità cromatica, con i grandi esempi della pittura ad olio: le limpide marine di Vernet, le vedute precise e rifinite di Hackert, o le sublimi eruzioni di Volaire e di Wright of Derby. La veduta di Nisida da Posilippo costituisce, a questo titolo, la dimostrazione di come l’uso sofisticato dell’acquerello da parte di Ducros sia capace, tanto quanto la pittura ad olio, di restituire insieme la materialità degli oggetti e l’inconsistenza poetica degli effetti atmosferici.
WANNENES
Genova, Palazzo del Melograno
Piazza Campetto, 2