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Il nostro stupro quotidiano

foto: ilchiacchierario.blogspot.it
foto: ilchiacchierario.blogspot.it

È unicamente l’arte a rappresentare la bellezza? Naturalmente no. Una constatazione banale, ma che si rende necessaria per comprendere le origini e le meccaniche di un crimine seriale. È una violenza continuata, insistita, resa beffarda dall’impotenza di chi la subisce. Una violenza che ha il carattere tipico dello stupro, con tutte le conseguenti ricadute psicologiche per chi tale stupro subisce.

Proprio come in un un’aula in cui debba essere giudicato un caso di violenza, persino la denuncia è penosa. La vittima ha la sensazione di non essere creduta, di poter venire a propria volta accusata di avere lei stessa provocato la violenza. O, peggio, che di violenza non si tratti nemmeno e che la si liquidi da simulatrice.

La vittima è la città, ogni città del nostro paese. I violentatori, più o meno consapevoli come sempre possono essere dei violentatori, sono decine di migliaia di ragazzi (e non pochi adulti) che ogni notte ne feriscono i muri, i portoni, le case, le pensiline degli autobus, i monumenti, i vetri. Da qualche tempo persino gli alberi. Ogni santa notte si riuniscono in branchi e vanno a caccia di armonia da violare. Nel nome dell’arte. L’arte concepita secondo i principi che sono stati loro insegnati, vale a dire come espressione di ciascun individuo, che è ingiudicabile perché democratica, è libera da qualsiasi vincolo formale, è per natura trasgressiva e provocatoria.

È evidente che la stragrande maggioranza di costoro non ponderano affatto sulla legittimazione delle proprie azioni. Ma è altresì chiaro che sono imbevuti da un diffuso clima educativo-interpretativo, tanto elementare quanto efficace. Da un lato esso idolatra l’arte come suprema creatrice di bellezza, libertà, pienezza d’espressione personale e veicolo di denuncia sociale, dall’altra la svuota di qualsiasi carattere limitativo. Se a ogni edizione della Biennale di Venezia, nessuna esclusa, l’artista di cui più si parla è quello capace di raccapricciare e scandalizzare con maggiore spregiudicatezza, è chiaro che la firma sui marmi del Duomo acquista un valore artistico maggiore di quella sui muri di una fabbrica dismessa. Viene anzi perfettamente legittimata ed è difficile per la vittima parlare di reato, di violenza. Di stupro.

I caratteri psicologici e sociali che distinguono lo stupro di gruppo sono stati perfettamente indagati. Le analogie con le strutture in cui s’inquadrano gli imbrattatori sono numerose e inequivocabili. Anzitutto il carattere collettivo, la prevalenza maschile e l’età adolescenziale o post-adolescenziale, i quali riconducono al rituale d’iniziazione. Sarebbe interessante, ma non è questo il luogo adatto, discettare sui danni procurati dalla cancellazione di ogni percorso istituzionale d’iniziazione nella società contemporanea, la quale ha favorito, anzi costretto i ragazzi alla creazione di surrogati autoprodotti. È sufficiente, qui, evidenziare il fatto che i “crew” raggruppano tipicamente un numero di soggetti maschili tra la mezza dozzina e la dozzina, all’interno dei quali può esservi qualche elemento femminile. Si tratta dell’identica composizione dei gruppi di stupro, nei quali una o più spalleggiatrici, spesso attive, non rappresentano un’anomalia. L’azione è notturna, rapida, fugace. Non solo per cautela verso il reato che si commette, quanto per esigenza di mistero, di ricerca del pericolo. Soprattutto, della necessità di una cornice “magica” in cui celebrare il rito. Inutile sottolineare che le firme a bomboletta equivalgono all’orgasmo spermatico.

Non stiamo dunque parlando tanto dei murales, i quali rappresentano una porzione minima dell’incommensurabile campionario di “arte di strada”, ma più che altro dell’opera dei “writers”, che sotto copertura dell’equivoca parentela con forme più compiute e accettate di espressione aggredisce qualunque contesto urbano italiano.

Un altro carattere interessante è quello della reiterazione dell’atto. Gli stupratori di gruppo tendono a ripetere il reato, che proprio nel suo rinnovamento assume un carattere sacrale, sacrificale. Nelle società in cui questo tipo di crimine è più diffuso e difficile da contrastare i gruppi si creano un territorio d’operazione, delineato non solo da confini geografici, ma anche sociali. Le squadre d’imbrattatori ricalcano spesso il modello, con incursioni in territori altrui che sublimano l’atteggiamento aggressivo e invasivo, ma al contempo di rispetto e riconoscibilità reciproca, che è tipico delle società adolescenziali maschili.

Si potrebbe continuare, ma ciò che qui ci preme non è la disamina di un fenomeno sociale, quanto le sue conseguenze per la salute, diremmo per la dignità della collettività. Il fatto più sbalorditivo è che non siamo in grado di tener testa al fenomeno .L’impotenza non deriva tanto dalle lacune legislative o dalle risibili ammende irrogate a chi pure venga colto in flagranza di reato, tanto che l’Italia è meta di vere calate di gruppi dall’estero. Origina invece da un’oggettiva contraddittorietà: lo scempio matura secondo schemi e principi che lo giustificano perfettamente. Chi pulisce i muri cittadini è un bigotto piccolo borghese che non sa riconoscere le istanze di un fenomeno sociale innovativo, d’avanguardia, dagli importanti risvolti generazionali, scaturito (e per questo legittimato) da precisi segni di disagio sociale. Le amministrazioni  intervengono in silenzio, o in molti casi s’illudono di arginare il fenomeno concedendo spazi appositi (prima erano i muri più degradati della periferia, oggi sono le serrande del centro storico). Non capiscono che lo stupratore viene reso impotente dalla luce del giorno, dalla liceità del gesto, dal consenso esplicito dell’opinione pubblica. Gli stupri avvengono sempre in anfratti bui e le lacrime della vittima sono necessarie affinché un sacrificio sia davvero tale. Una certa dose di pericolo (non troppo, per carità) risulta indispensabile.

Ma il più grave ostacolo all’arginamento del fenomeno è creato dal fatto che non si riconoscono più i diritti di altra bellezza che non sia quella dell’arte intesa come espressione personale, insindacabile, dissacratoria. La semplice armonia, che per secoli ha rappresentato una delle incarnazioni condivise della bellezza, non è più riconosciuta. Così, se lo stupro verso l’opera d’arte propriamente detta, diciamo il monumento, riesce ancora a suscitare reazioni di rigetto, la devastazione dei caseggiati, delle strade, di qualunque altra opera dell’uomo innesca meccanismi d’inibizione che di fatto inficiano ogni tentativo di contrasto. L’imbrattamento, purché preservi alcune limitatissime aree di assoluto rispetto artistico, è di fatto accettato e legittimato. L’armonia e il decoro devono retrocedere, vittime disconosciute dello stupro. Se provano ad affacciarsi al tribunale dell’opinione pubblica vengono derisi, additati come residui di un ordine remoto che perde ogni valore di fronte al dinamismo aggressivo, competitivo, giovanilistico dell’arte di strada, perfettamente in linea con i principi che regolano la contemporaneità. Nemmeno la natura è al sicuro. A iniziare dalla devastazione dei parchi pubblici (i giochi per i bambini sono tra i bersagli più colpiti, e questo getta ombre ancora più inquietanti nel parallelo con lo stupro di gruppo) per finire con quella vera apoteosi dionisiaca che è il rave-party, il quale trova nel sovvertimento dell’armonia naturale, nella distruzione di un ambiente vergine e silenzioso violato da sonorità tracotanti e dalla riduzione in stato di discarica, un risultato irrinunciabile.

L’armonia, divinità lieve e ineffabile, ma onnipresente in tutte le stagioni della storia, si è fatta vittima sull’altare della strada.

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