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Filippo Armellin

Filippo Armellin

Sul pavimento dello studio di Filippo Armellin (Montebelluna, 1982; vive a Milano) ci sono tracce di colori ad acrilico. Mi assicura se ne andranno, il proprietario dell’immobile non si deve preoccupare. Sono le testimonianze di “Land Cycles”, una serie di fotografie di quelli che sembrano essere paesaggi incontaminati. Di carta, però.

«Questo lavoro è nato coagulando scenografia, scultura, pittura, una serie di possibilità che si possono utilizzare e che sono ricchezze, se si riesce a dominarle».

Prima delle fotografie c’è, infatti, un manufatto.
«C’è una prima fase di pittura dei due fondi, uno per il cielo e uno per la terra, che devono rendere le quinte e il cui effetto cambia a seconda del punto di vista: in alcune immagini lo sguardo si perde in lontananza e sono quelle che preferisco, perché lasciano aperta l’immaginazione».

Nella serie permane l’ambiguità, il processo che origina i lavori non è manifesto.
«Le immagini non lasciano indifferenti, spingono a domandarsi cosa ci sia oltre. Non voglio fare una ricostruzione verosimile».

Non c’è nessun intervento di post produzione?
«La post produzione è minima, quella che si farebbe in una camera oscura. Non c’è alcun fotomontaggio».

La scelta della fotografia amplifica l’ambiguità, per il legame con la documentazione.
«Il fotografico viene equivocato come traccia della realtà ed essendo un trasferimento esatto causa uno scivolamento mentale per cui viene considerato come vero. Non è affatto così e ciò può essere molto pericoloso: molte fotografie a seconda del contesto in cui vengono collocate assumono un significato completamente diverso».

Viene estrapolata una porzione di realtà. Allargando lo sguardo si vedrebbe il set.
«Molti artisti hanno fatto questa scelta, lasciando intravedere il set fotografico. Io ho preferito evitare, pur avendo preso in considerazione questa possibilità, perché volevo produrre un’immagine  e credo che osservandola si riesca a capire che si tratta di un’installazione. Mi piace l’idea di ingannare o sedurre, di permettere di fruire dell’immagine senza leggerla necessariamente come un ragionamento linguistico, teorico. Non voglio rinunciare alla funzione estetica, alla qualità pittorica dell’immagine».

La fotografia è, quindi, solo un mezzo, uno strumento?
«È il passaggio attraverso cui concretizzo l’immagine. La stampa è solo il prodotto di un’opera che contiene tutti i passaggi: prima ci sono la pittura e la scenografia».

La tua formazione è stata influenzata da due anni trascorsi a Roma come assistente di Joseph Kosuth.
«Durante gli anni trascorsi a Venezia allo IUAV ho seguito un corso progettuale con Kosuth e sono diventato suo assistente. Abbiamo organizzato diverse mostre, mi è servito per capire come lavora un artista del suo calibro, però a un certo punto mi sono chiesto cosa volessi fare della mia vita. Sono tornato indietro – l’esperienza romana non era stata programmata – e mi sono iscritto alla Bauer di Milano, cercando di affermarmi come fotografo».

“Land Cycles” è il progetto con cui hai deciso di far conoscere il tuo lavoro?
«Sì, “Land Cycles” è il primo progetto che presento al pubblico. Prima mi sono dedicato ad approfondire alcuni aspetti, sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista tecnico, della mia formazione e ho fatto solo qualche piccola esperienza collettiva. Ho desiderato aspettare di avere qualcosa che fosse convincente, almeno per me, prima di presentarlo al pubblico. Precedentemente, per esempio, avevo sviluppato un altro progetto sull’integrazione della comunità cinese in via Paolo Sarpi a Milano. Si trattava di ritratti realizzati in strada. Fermavo i passanti per fotografarli e poi montavo digitalmente le varie parti, per ottenere l’immagine di un possibile volto del futuro con una predominanza somatica cinese. Il risultato erano ritratti credibili di persone che non esistevano. Anche in questo lavoro è presente la questione della riconoscibilità, della falsa distinzione tra reale e fittizio, perché fotograficamente questi uomini esistono, così come i paesaggi».

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