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Giulia Tosi

Giulia Tosi, Untitle#3, 2012
Giulia Tosi

Ho incontrato Giulia Tosi (Magenta, 1992; vive a Milano) ad Ameno, sul lago d’Orta, in occasione di Studi Aperti – Arts Festival, promosso da Asilo Bianco. Solo più tardi, nel suo studio di Milano, ho scoperto che le nostre strade si erano già incrociate a Novara, per un memorabile progetto di Gian Maria Tosatti, “Tetralogia della Polvere”, a cura di Alessandro Facente e Julia Draganovic.

C’è un contrasto tra l’estetica e la poetica dei tuoi lavori. In “untitle#3” abbini l’elemento ludico dei palloncini al deperimento e alla caducità.
«Tendo a evitare la coincidenza formale. I palloncini sono sgonfi, appassiti, ma colorati e le persone, osservandoli, mi dicevano che mettevano loro allegria».

Il tuo fine è però tutt’altro. Rappresenti una natura morta in decomposizione, in cui il processo di degrado continua.
«Mi interessa molto il cambiamento dalla forma iniziale, non la calcificazione del processo. Gonfio i palloncini, indosso una maschera per cercare di non avvelenarmi, li immergo nella resina liquida con un catalizzatore a parte, li appendo a un filo e li lascio lì. Sto montando anche un video, frutto del caso, in cui la mia azione è anticipata dalla presenza di mio cugino, di cinque anni, che vedendo i palloncini appesi ha iniziato a giocarci e ridere da solo. Ho resinato questo momento ludico, per poi farlo appassire, trasformando completamente quanto era accaduto prima».

È come se la resina fosse la componente mortifera?
«Ciò che fissa il momento tra il palloncino gonfio e il palloncino non più utilizzabile per il gioco, rallentando il processo. Inizialmente avevo resinato dei palloni, poi ho provato con i palloncini e ho fatto delle prove con diverse mani di resina per verificare cosa succedeva: più strati garantivano la conservazione della forma, ma ho deciso che il processo di deperimento era quello che mi interessava».

Fai, quindi, degli esperimenti. È una costante nel tuo modo di lavorare?
«Sì, io gioco, mi piace divertirmi. Quando mi viene in mente qualcosa, mi metto all’opera subito, altrimenti poi non lo faccio più».

Sperimenti anche con le tecniche. Hai lavorato con il video, per esempio in “Buongiorno Esteti”, e con la fotografia.
«Nello stesso anno, il 2012, mi sono procurata un occhio nero e una serie di altri malanni, per cui ho deciso di utilizzare quello che mi stava capitando e realizzare “Buongiorno Esteti”, montando due foto che mi sono scattata, che presento su un televisore un tempo usato dagli addetti della sicurezza notturna. Ero in un periodo in cui impazzivo per Gina Pane ed è evidente nel risultato.

“Vincere = Fallire”, invece, è una foto che non ricordavo neanche di aver fatto. Solitamente, infatti, uso l’analogico però talvolta riguardo tra le immagini che scatto in digitale, per capire se ci sia qualcosa che mi possa interessare. È una fotografia rubata a Macao, nella Torre Galfa, in cui si crea una relazione all’interno della scena, che ricorda un Hopper, in cui si incrociano tante storie diverse».

Adesso a cosa stai lavorando?
«Sto facendo delle ricerche in ambito musicale: ultimamente lavoro come dj e ho collaborato a qualche produzione. Ho studiato oboe al conservatorio, poi ho scoperto Björk e, nei miei deliri di onnipotenza adolescenziali, ho pensato di poterne essere l’unica erede. Ho comprato una serie di macchinari elettronici e ho iniziato a giocarci, senza neanche leggerne le istruzioni».

Ancora l’aspetto ludico…
«Quest’anno ho scoperto anche la performance. Ho fatto un workshop con Strasse e non mi sono più fermata. Ho sviluppato un’azione con le ricetrasmittenti, che ho presentato ad Ameno. Seguivo senza farmi vedere uno spettatore a cui davo indicazioni e direttive, scattando delle polaroid che testimoniassero la mia effettiva presenza, nascosta, che consegnavo al termine del percorso».

È un progetto che vuoi proporre anche in altri contesti?
«Sì, è stato divertente e imprevedibile. Mi piace lavorare con le ricetrasmittenti, in cui c’è un burattinaio, ma lo spettatore, che diventa attore, ha comunque la possibilità di scegliere se obbedire o meno ai comandi, mentre gli altri osservatori non possono sapere quali azioni siano imposte».

Ti definisci un’artista politica. In che modo secondo te oggi si è può essere politici nell’arte?
«Al liceo lo ero in modo palese, esplicito. In seguito mi sono accorta che l’arte non ha bisogno di essere così didascalica. Si può essere politici facendo delle scelte che vadano al di fuori della massa artistica».

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