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Francesco Locatelli

Francesco Locatelli nel suo studio

Un’edizione dattiloscritta e consumata è aperta sul tavolo. Sono i “Frammenti” di Novalis, che sta leggendo Francesco Locatelli (Milano, 1985; vive ad Abbiategrasso, Milano).

«È una fonte inesauribile di ispirazione, pare che Novalis sia riuscito a coniugare la spiritualità della Bibbia con la logica dell’enciclopedia, trasformando in massime e istruzioni tutto lo scibile umano. Non solo in questo volume, mi capita di leggere frasi che mi colpiscono senza afferrarne esattamente la ragione. È quanto è successo con “La mia vita mai nei tuoi occhi”, opera tratta da una scritta su un muro ad Abbiategrasso, che però terminava con “No alla videosorveglianza”. Ho eliminato questa seconda parte, concentrandomi sulla frase che a prima vista mi pareva incomprensibile. Individuavo in essa qualcosa di profondamente importante, senza riuscire a catturarne il senso. L’ho presentata a “Stracrepaccio Paradise” organizzato da Marcello Maloberti nel 2012, scrivendola su un cellophane, allestendola su diversi elementi, dal pannello di legno su cui venivano presentati i lavori durante la serata a una macchina parcheggiata, facendola indossare a un gruppo di persone. Mi è servito per capirla meglio.

Adesso sto pensando di utilizzarla per realizzare delle vele in un paesaggio e scrivervi delle frasi che, secondo me, dovrebbero far pensare alla difficoltà di dire ciò che si vuole dire. “La mia vita mai nei tuoi occhi” sembra una frase di amore e di odio, contemporaneamente, che comunica questa fatica. Novalis è molto vicino a quest’idea romantica di difficoltà e sono sicuro di trovare nei suoi “Frammenti” spunti utili».

Nel tuo lavoro c’è spesso un ideale romantico: il tentativo di rappresentare un limite, il rapporto tra artificio e natura.

«Sono temi che mi interessano molto e che reputo non siano ancora stati risolti completamente. Il sentimento romantico parla di una inefficienza di base dell’arte: l’arte non porta a soluzioni e non fornisce risposte. Implica un bellissimo fallimento. Credo che, però, quest’idea si sia un po’ persa, in generale. Mi riferisco a quel genere di opere che hanno bisogno di realizzarsi in uno scopo, come alcuni progetti di arte pubblica che finiscono per diventare espressioni di design. Io, invece, mi sento più vicino a quel tipo di arte che non pretende di rappresentare una risposta o una soluzione a un problema. È un dibattito che credo bisognerebbe approfondire: spesso sono abbastanza scettico di fronte a quelle opere che si appoggiano alle stampelle delle categorie, chiudendosi, diventano, in un certo senso, ideologiche e didattiche.

L’uso dell’aneddoto, per esempio, viene frequentemente interpretato come il fine, la giustificazione del lavoro. Mi piace pensare, invece, che il frammento sia una finestra, una domanda gettata. Non voglio sentire solo storie, voglio vedere e godere, in qualche istante, come se ci trovasse di fronte alla convergenza tra la propria sensibiltà e la logica che sta alla base del mondo».

È quanto accade nelle tue serie “A sphere in the heart of silence”, che hai presentato da Studio Apeiron nel 2012 con la curatela di Francesco Fossati, e “En plein air”?

«Questi lavori sono nati insieme, in un periodo in cui ero interessato al disegno a china, con cui ho realizzato sia le montagne di “A sphere in the heart of silence”, sia alcune delle nubi di “En plein air”. L’idea era di realizzare degli sbuffi di vapore, da lasciare leggeri e immateriali. Ho in mente quest’immagine da diversi anni e mi ostino nel tentativo di riprodurla, di catturarla. Parto sempre dal disegno, per la pittura ci vuole un altro tipo di atteggiamento, più pazienza forse. Sono esperimenti, perché non so come definirne la forma, che quindi risulta sempre diversa. Cerco l’ispirazione anche nel lavoro dei grandi maestri, in questo caso soprattutto in Giovanni Battista Piranesi e Gustave Doré, di cui sto studiando le nubi. Quando si cerca di disegnare una nuvola, inevitabilmente il tratto pare quello di un bambino. Sto cercando di capire come è stato affrontato il passaggio dal segno al vapore. È un’equazione che non si può risolvere. Mi ricorda la leggenda della sfida tra i due pittori greci Protogene e Apelle. Quest’ultimo riuscì a dimostrare la propria superiorità, disegnando una linea estremamente sottile sopra il segno delineato da Protogene. Nel disegno è sempre presente questo elemento: anche quando si tracciano i contorni di una nuvola, quel contorno ha in sé tutta questa storia della riduzione. Il disegno, al contrario della pittura, contiene questo fallimento, che è bellissimo».

Da qui deriva anche il tuo interesse per l’incisione?

«Sì, uno dei ricordi più belli dell’accademia è proprio il corso di incisione. Adesso, però, sto cercando di risolvere e tramutare gli sbuffi di vapore in scultura».

L’opposto della leggerezza dell’aria.

«Esattamente. Sto sperimentando con il gesso. Incidendolo, senza colore, lasciandolo bianco, con la superficie liscia ma ondulata come la carta, effetto che ottengo utilizzando un foglio di acetato.

L’obiettivo è riprendere la soluzione allestitiva delle montagne, realizzando delle lastre da appoggiare obliquamente alla parete. Un piano che diventa scultura, che diventa disegno, che è sempre altro».

Mi parli di “Promesse de bonheur”?

«Si tratta di un lavoro realizzato con Claudio Corfone, a San Giuliano Terme. Ho trovato una radura in mezzo a un parco, dove ho deciso di realizzare un filo d’erba alto trenta metri, a cui ho attaccato un pallone aerostatico gonfiato a elio. Nel mezzo del parco si apre uno spazio in cui si scorge, in modo inaspettato, una verticalità improvvisa, mentre da lontano si vede solo il pallone aerostatico, che sembra una luna. Il titolo è tratto da Stendhal, che sostiene che la bellezza sia una promessa di felicità. Alcune delle mie opere sono allegorie, di cui non si conosce il significato, ma che contengono in sé lo stesso presentimento».

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

«Ho in mente un nuovo lavoro fotografico: una serie di ritratti che traggono spunto da “Le paysage fantôme” di Magritte, in cui lo sguardo del ritratto contiene il pensiero».

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