“Più siamo noi stessi, più diventiamo chiunque”
(A. Giacometti)
Un secolo: il Novecento. Un genere pittorico: il ritratto. Tre sguardi che si incrociano: quello dell’artista, quello del modello, il nostro. Un ménage à trois visivo che affonda nelle viscere del proprio Io per riemergere nelle molteplici sperimentazioni su tela del secolo breve. Risultato: “Il Volto del ‘900” a Palazzo Reale di Milano direttamente dal Centre Pompidou di Parigi. Il racconto dell’evoluzione artistica moderna del “ritratto”, praesentia in absentia che sfida la morte con la propria durata, attraverso una sessantina di opere disseminate nelle real sale del Piano Nobile fino al 9 febbraio 2014. Una miriade di volti, sguardi e occhi che riflettono altrettanti stili, codici linguistici, esiti pittorici. Volti dinamico-futuristi alla Severini, scomposti e duplicati alla Delaunay, martoriati alla Bacon. Smaterialiazzati nell’astratto o patinati nell’icona mercificata del Pop. Sguardi allucinati all’Artaud, ebeti all’Imbecille-Charles De Gaulle di Ernst o assenti, devastati e persi negli orrori di Dachau in quelli di Zoran Mušič. E ancora occhi. Occhi che commuovono, come quelli melanconici sul muso appena inclinato della “Dédie” di Modigliani, occhi onirici che stordiscono, come i seni a palla dello “Stupro” di Magritte accompagnati a un “sorriso” pubico altamente feticizzato, altri ancora che rimandano ad archetipi atavici come quelli appena socchiusi del bronzo sopito di Brancusi.
Se non son occhi poi son mondi, universi che riaffiorano dalla percezione che gli artisti hanno di sé e dell’umanità che li circonda, che li assale. Realizzare un ritratto infatti significa esprimere il proprio Sé e le proprie aspirazioni artistiche attraverso il soggetto, quell’essere umano che all’alba del secolo scorso si ritrova precariamente sospeso tra interiorità ansimante e sempre più labile apparenza mondana. La mostra parte da qui, dalle rappresentazioni della fragile soggettività dell’individuo che segna le avanguardie, quando la verità meccanica della fotografia irride la perfetta mimesis classica e la psicanalisi irrompe sulla scena liberando le infinite pulsioni dell’Io. Da qui comincia il “cammino artistico” del volto novecentesco assumendo le una, nessuna, centomila maschere diverse “calzate” nella tela, plasmate nel bronzo o impressionate su pellicola cinematografica, con l’intento di riprodurre artisticamente gli sconvolgimenti di un secolo, tanto politici quanto estetici, cercando di capire cosa veramente si cela dietro un viso, una posa, un ritratto. Uno “sguardo” d’insieme sul Novecento che si conclude (e si smarrisce) nell’ecolalia mondana dei giorni nostri, dove frenesia fotografica e bulimica consumazione dell’immagine uccidono il valore dell’immagine stessa, e del volto. Iconofagia contemporanea di una post-modernità che pare non avere mai fine.
“Il volto è senso da solo” (E. Lévinas)
“L’Io è il segreto più grande del mondo: credo all’Io nella sua forma eterna e indistruttibile. Per questo mi interesso all’individuo e cerco in tutti i modi di sondarlo e rappresentarlo” (M. Beckmann)
“Quando lei vede un naso, degli occhi, una fronte, un mento e può descriverli si rivolge all’altro come se questo fosse un oggetto. Il modo migliore di incontrare l’altro è di non notare neppure il colore dei suoi occhi! (…) La relazione con il volto può senz’altro essere dominata dalla percezione, ma il volto in quanto volto non si riduce ad essa”. (E. Lévinas)
“Questa tristezza che pervade i volti di Modigliani dà a tutti loro un’indicibile qualità patetica” (C. Zervos)
“Si capirà perchè non ammettiamo che un pittore cubista esegua un ritratto. Non bisogna confondere. Si tratta di creare un’opera, nella fattispecie un dipinto, e non una testa o un oggetto costruiti secondo leggi nuove che non giustificherebbero a sufficienza il loro aspetto finale”. (P. Reverdy)
“Ho colto la realtà e ho capito cosa significa arrivare all’essenziale!” (Z. Mušič)
“Per me la figura umana, il corpo, non ha maggior importanza di un chiodo, non si tratta d’altro che di valori plastici di cui mi servo come meglio credo” (F. Léger)
“L’avventura, la grande avventura, è di veder sorgere qualcosa di ignoto ogni giorno, nello stesso volto: è più grande di qualsiasi viaggio del mondo” (A. Giacometti)
“Io non faccio un ritratto, io faccio un dipinto” (Matisse)
“Però usai dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore. Che dirai tu essere dipingere altra cosa che simile abbracciare con arte quella ivi superficie del fonte?” (L. B. Alberti)
Le sette sezioni della mostra
1. I misteri dell’anima
Questo è il titolo usato dal regista tedesco G.W. Pabst nel 1926 per uno dei primi film che presero la psicoanalisi come soggetto. Tra la teoria psicoanalitica, per cui i sogni sono visti come un percorso nel nostro inconscio, e altre scienze o pseudo-scienze, come la fisiognomica, che cercano i dati oggettivi della personalità nell’espressione o nella morfologia del volto, c’era, all’inizio del Novecento, una certa convergenza nel tentativo di leggere quella che l’Uomo considerava la parte oscura di se stesso. Due movimenti artistici, il Fauvismo e l’Espressionismo, divennero gli echi della fragile soggettività individuale: i segni sotto gli occhi delle donne di Chabaud o Kupka sembrano simbolizzare la loro oscurità, donne fatali o angeli caduti, presi come nuovi idoli di un nuovo mondo urbano ed elettrico. La malinconia di Dédie, lo sguardo precario e deforme di una pittura inflessibilmente realista, i lineamenti non definiti di Jacques Villon o André Masson enfatizzano la magica presenza del mondo interiore del modello.
2. Autoritratti
Leon Battista Alberti nel De Pictura pubblicato nel 1435, in cui descrive le origini della pittura, scrisse di Narciso innamorato della propria immagine. L’artista diviene lo strumento, e usa un riflesso per riprodurre la sua immagine allo specchio, tratto dopo tratto. In questa ricerca di se stessi, che prende la forma di un incontro con la propria immagine, molti artisti affrontano il tema con un ritratto introspettivo, sapendo che il Sé è indubbiamente il modello più complesso e più resistente all’analisi. Beckmann usava dire: “Il Sé è il più grande segreto del mondo; credo nel mio Sé Interiore, nella sua forma eterna e indistruttibile”. Questa difficoltà, caratteristica di una ricerca introspettiva attraverso l’auto-rappresentazione legata alla questione del “doppio”, genera per ciascuna opera un manifesto metafisico e pittorico. È il caso di Van Dongen e Pougny, entrambi all’inizio della carriera, che fanno passare attraverso l’autorappresentazione una gestualità quasi sportiva da futuro campione “pronto a battersi”.
3. Il volto alla prova del Formalismo
Un nuovo uomo? Un superuomo nietzschiano? Isolare il volto dal resto del corpo, semplificare la morfologia umana per una forma con nessun tratto morfologico, allontana l’atto di scolpire l’immagine dall’involucro esterno del modello. È un’affermazione di anti-mimica che si manifesta, in Brancusi, da un concetto platonico di scultura come una Idea. Per i cubisti, è stato spesso evocato il riferimento al primitivismo della maschera rituale o a espressioni antiche del volto, e i loro dipinti hanno spesso causato il disgusto del pubblico che vedeva in essi un oltraggio all’essenza profonda dell’essere umano, o persino li considerava blasfemi verso la parte umana che Dio ha creato a sua immagine. La somiglianza, concetto per secoli connaturato al ritratto, viene definitivamente rifiutata. In ogni caso, anche se siamo lontani dall’esercizio di copiare tratto dopo tratto, il processo di analisi e sintesi della fisionomia del modello da parte dell’artista, non solo permette di produrre nuovi canoni di bellezza della plasticità umana, ma consente anche una espressività che talvolta tradisce una parte della personalità del modello.
4. Volti in sogno. Surrealismo
Secondo André Breton, il surreale permetteva di svelare il “vero volto della vita”. C’è nei surrealisti una predilezione per i volti dei dementi o dei criminali: il volto di Germaine Berton troneggiava al centro della galassia surrealista nel primo numero della rivista “La Revolution surrealiste”. Questa fascinazione arriva sino agli sguardi allucinati – quello di Antonin Artaud sarà senza alcun dubbio il più luminoso – ma anche per i volti in stato di estasi (Salvator Dalì, Le phénomène de l’exstase). I volti sono quelli di stati d’animo secondari. I surrealisti sono ugualmente affascinati dall’angoscia del potere pietrificante della Medusa, dallo sguardo seduttivo delle donne fatali, da quello di Nadja descritto da Breton nel romanzo eponimo a quello di Gala riprodotto nel frontespizio del libro La Femme visible. La questione del volto nella pittura surrealista è legata a quella del desiderio e dei fantasmi che questo desiderio è capace di produrre. I volti sono erotizzati e feticizzati. Dalì e Magritte riproducono il fenomeno del transfer nel lavoro del sogno analizzato da Freud, sostituendo un sesso a una bocca (Dalì) o il viso intero a un corpo nudo. Mirò e Ernst rappresentano delle teste alla Ubu. In Mirò, l’essere mostruoso è il luogo di uno scatenamento della libido dove si mescolano eros e thanatos. Nel 1935, la questione del volto fu argomento di disaccordo tra Breton e lo scultore Giacometti. Il ritorno al volto era sentito come un tradimento tanto che Breton esclamò con incomprensione e disprezzo a proposito dei lavori recenti dello scultore: “Una testa? Sappiamo bene che cosa sia una testa!”.
5. Caos e disordine, o l’impossibile permanenza dell’essere
I lavori di questa sezione condividono una pazza gioia per l’imperfezione, l’esatto opposto degli standard di bellezza perfetta ereditati dal classicismo dell’Antica Grecia. Sia Bacon che Giacometti producono figure sempre sul punto di rompersi, fatiscenti o destrutturate. “Collasso dell’essere”, scriverà Jean Clair a proposito di Boeckl, fracasso del sé interiore in Artaud, visione della morte che si invita in permanenza ma a volte più di altri, nell’arte del ritratto. Nell’impressionante ritratto di Isaku Yanaihara di Giacometti, la miniaturizzazione della testa, che pare essere collocata sullo sfondo dell’intero corpo, trasmette l’intero potere e autorevolezza
del modello: “Un piccolo ammasso di vita, pesante come un sassolino, pieno come un uovo”, scriverà lo scrittore Jean Genet. La faccia universalmente umana di Giacometti è anche l’espressione della battaglia senza senso della vita. La moltitudine di linee in Dubuffet, eseguite come uno scarabocchio automatico che si fa telefonando, mostra un’agitazione di esseri non più individualizzati.
6. Dopo la fotografia
In contrasto con il progressivo sviluppo del ritratto accademico attraverso lunghe sedute, alla metà dell’Ottocento la fotografia offrì il miracolo, ma forse anche la dittatura, dello scatto istantaneo. Fare un ritratto significa ora rivelare il soggetto in un istante, dando una garanzia di naturalezza e obiettività. Mentre la fotografia ha imitato e riprodotto le convenzioni della pittura, specialmente nel campo del ritratto, la pittura ha seguito un sentiero identico ma simmetrico, adottando il principio di posa con scatti istantanei e improvvisati (Cassandre, Baltus), con prospettive abbassate o sommerse (Beckmann, Derain), affermando nello stesso tempo le qualità del dipingere, sia nei materiali che nel soggetto (Marquet o Derain). La pittura del XX secolo ha superato la fotografia e rifiutato il principio di obiettività a favore dell’affermazione di una situazione pittorica. Infine, la pop art e la figurazione narrativa hanno abbandonato il principio del modello per la sua riproduzione fotografica, inabissando la rappresentazione.
7. La disintegrazione del soggetto
Gli anni Sessanta, dove domina l’arte minimale, sono marcati da un riflusso del principio della soggettività in arte, mentre al contrario i mass media (cinema, televisione, video, fotografia) intensificano il principio inerente al ritratto, con una messa in scena. Il Sé sparisce a beneficio dell’icona, dell’immagine. I film di Kurt Kren e Paul Sharits hanno in comune l’interesse per questa questione di un secondo grado della rappresentazione. Kren ritorna sulla fisiognomica e altre scienze dei volti con il testo del professor Léopold Szondi. Psico-patologista ungherese, Szondi aveva definito un insieme di 48 teste rimarchevoli, censite secondo le otto psico-patologie che egli aveva studiato. Kren riproduce cinematograficamente il lavoro selettivo, appropriativo della memoria vis-à-vis dei volti. In Sharits, lo stesso volto declinato serialmente da una serie di gesti molto semplici, di colori primari e di positivo/negativo, è il modo che ha trovato l’autore per rendere conto del proprio stato psicologico, utilizzando ritmi visivi spinti alle soglie della percezione. I due film di Kren e Sharits chiudono il percorso della mostra con immagini inquietanti che restano impresse nella memoria.
Foto e testo: Luca Zuccala © ArtsLife
INFORMAZIONI UTILI
Il Volto del ‘900. Da Matisse a Bacon. Capolavori dal Centre Pompidou
Dal 25 settembre 2013 al 9 febbraio 2014
Palazzo Reale: piazza Duomo, 12 – 20121 Milano
A cura di Flaminio Gualdoni e Jean-Michel Bouhours
La mostra è prodotta e promossa dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, MondoMostre e Skira editore.
Catalogo Skira
Ufficio stampa
Lucia Crespi
Federica Mariani
INFOLINE: +39 0292800375
(dal lunedì al sabato dalle 8.00 alle 18.30)
ORARI
Lunedì 14.30-19.30
Martedì, Mercoledì, Venerdì e Domenica 9.30-19.30
Giovedì e Sabato 9.30-22.30
La biglietteria chiude un’ora prima
ORARI FESTIVITÀ
Martedì 24 e martedì 31 dicembre: 9.30-14.30
Mercoledì 25 dicembre e mercoledì 1 gennaio: 14.30-19.30
PREZZI DEI BIGLIETTI
Intero singolo: € 11,00
Ridotto singolo: € 9,50
Ridotto gruppi: € 9,50
Ridotto scuole: € 5,50
Biglietto famiglia: € 15,00
(1 o 2 adulti + bambini (da 6 a 14 anni) = adulto € 9,50 – bambino € 5,50)