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Intervista a Blue and Joy

Fabio La Fauci e Daniele Sigalot sono gli ideatori dei personaggi di Blue & Joy, due pupazzi che incarnano pienamente il proprio nome: Blue ha un aspetto malinconico, Joy sembra pieno di vita e di felicità. Questo nome di fatto identifica da tempo gli artisti stessi, anche se nelle ultime mostre la presenza dei due personaggi si è fatta sempre più rara. Fabio e Daniele arrivano direttamente dalla loro ultima mostra, ancora in corso a Colonia (Germania), per esporre alla Triennale di Milano. Dal 10 dicembre e fino al 12 gennaio 2014 è allestita la loro personale, “Dear Design + Even the Wind Gets Lost”. Ovvero, cinque enormi missive scritte da importanti figure del design italiano aventi per destinatario il Design stesso, oltre all’installazione di trecento aeroplanini “di carta” (fatti di alluminio) multicolori. I due, ormai berlinesi d’adozione, celebrano così il rientro nella “loro” città, quella che li ha fatti incontrare e che li ha visti iniziare la loro collaborazione. Siamo andati ad incontrarli per fargli qualche domanda. Il tentativo di essere seri è naufragato quasi subito, per sfociare in un’intervista – per dirla come direbbero loro – a tratti superficialmente profonda. Ma proprio per questo particolarmente piacevole e interessante, oltre che ovviamente divertente.

Daniele e Fabio arrivano, ci sediamo al bar della Triennale, e mentre io prendo un caffè loro ordinano due calici di nebbiolo.

Nella vostra precedente mostra avevate dichiarato che chi ne capisse il titolo avrebbe capito tutto. Il titolo era talmente intriso di negazioni, contronegazioni e sensi multipli da permettere infinite chiavi di lettura. In questo caso, invece, il titolo è chiaro: Anche il vento si perde. Chiare le parole, ma mi piacerebbe capire cosa significhi per voi.
Daniele: (rivolto a Fabio): te l’ho detto, facciamo un titolo più complicato, eh eh eh. Però è molto bella la domanda: ecco, questa è la mia risposta.

Grazie!
D.: No vabbeh… “Anche il Vento si Perde”… mah. È comunque un’astrazione: come fa a perdersi il vento se non riusciamo neanche a immaginarlo? Noi cerchiamo sempre di essere vaghi, in modo da… però ecco, poi invece a volte uno si ritrova di fronte a giornaliste come te, che studiano davvero e che ti fanno domande pertinenti, e resta spiazzato. Però giuro che per la prossima mostra facciamo una cosa tipo rebus. Il prossimo titolo sarà enigmatico, su questo ci scusiamo.

In questa mostra non vedo le vostre pillole, e mi dispiace. Ma voglio chiedervelo lo stesso: per dirla con voi, nel vostro mosaico di pillole è importante l’essenza, ovvero il possibile contenuto delle pillole, o l’apparenza, cioè come esse vengano decontestualizzate e disposte?
D: Ma noi non siamo pronti a domande così profonde… In realtà l’ultimo lavoro che abbiamo fatto con le pillole risale allo scorso gennaio.

F: Però poi, sempre con la tecnica del mosaico abbiamo presentato ad un’altra mostra due rosoni: uno fatto di caramelle e l’altro di pillole.

D: Quello fatto di caramelle si intitolava: “Annuntio Vobis Gaudium Magnum”, che è la formula utilizzata dal cardinale più anziano per annunciare che è stato eletto un papa. Perché c’era stato questo boom a livello comunicativo del nuovo papa… il marketing ecclesiastico… eh sì, perché Papa Francesco piace talmente tanto a tutti, perché in realtà sembra davvero un bravo prete. Però dietro ha il governo più longevo della storia del pianeta. Quindi, come le caramelle piacciono a tutti, ci sembrava di poterle associare in qualche modo al nuovo pontefice. Analogamente, avevamo pensato che il papa precedente non piaceva a nessuno: però lavorava per la stessa azienda. E quindi l’altro rosone l’abbiamo fatto solo con medicinali, visto che tra l’altro è un papa che si è dimesso dicendo di star male… diceva. Poi, qualcuno ha male intrpretato il significato del nostro lavoro, pensando che fosse un tributo al nuovo papa. Invece è esattamente il contrario. Ma a volte è anche interessante che ognuno legga nelle nostre opere ciò che vuole. Noi pensavamo fosse evidente il senso critico del lavoro.

Chiara Guidi sottolinea l’importanza del vostro approccio con la dimensione del sogno. Qual è questo approccio?
D: Dormire! (Risate)
Questa chiudila qua perché è perfetta. Io sogno di dormire. (I ragazzi hanno allestito tre mostre in poco tempo, sono un po’ stanchi e mi fanno notare che devono ancora attaccare il manifesto della mostra salendo sul trabattello – e lo fanno proprio loro fisicamente –  entro l’apertura di stasera… non sanno se ce la faranno, NDR)

Avete compiuto la scelta di rinunciare al lavoro di creativi pubblicitari per dedicarvi all’arte. Quale è stata l’influenza della vostra ex professione nel vostro modo di esprimervi?
F: Innanzitutto, e credo di poter parlare a nome di entrambi, io me ne pento! Perché avevamo un futuro sicuro, lavoravamo a Londra, avevamo pure una paga tosta e quindi, insomma, un po’ mi manca la pubblicità. Con una punta di serietà invece, devo dirti che sicuramente quel mestiere ci ha insegnato a lavorare nel contesto di un team creativo, in particolare in coppia. E tuttora, una volta creata l’idea, si riesce davvero a realizzarla assieme al meglio, esattamente come si faceva in pubblicità. Come annuncio pubblico, tra parentesi, siamo disponibili come freelance dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18.

Saranno gli effetti del nebbiolo…?
D: Sottoscrivo pienamente che è stata una gigantesca cazzata, ora è troppo tardi per rientrarci, pazienza.

F: perché ormai siamo dei quarantenni senza esperienza, siamo i nuovi poveri di fatto. (Risate)

Allora tra le vostre letterine ci potrebbe stare un Dear Advertisement, improvvisatelo:
D+F: Cara pubblicità, scusaci: è stato un errore, e non è vero che la minestra riscaldata è meno buona. Chiamaci! Noi ti pensiamo sempre.

Secondo voi il direttore di ArtsLife mi licenzierà per aver fatto un’intervista poco seria?
D+F: Ma no, dai… e comunque, ora hai due nuovi amici. Poi non è detto che essere simpatici voglia dire essere superficiali: noi siamo profondissimi. Siamo superficialmente profondi.

Bene, mi sento rasserenata. Tornando a noi… A proposito di influenze, i Paper Planes sono un chiaro omaggio ad Alighiero Boetti. La sua influenza nella vostra opera si vede però anche altrove, perfino nelle vostre lettere, che quantomento nell’intenzione ricordano le frasi e i motti scritti e dipinti da lui; oppure nell’utilizzo di materiali inconsueti come si trattasse di pixel cromatici. Quali sono le altre vostre importanti influenze?
D: In realtà questo è un po’ un equivoco, nel senso che a Boetti abbiamo reso omaggio con una installazione di areoplanini – oltre a dei dipinti – in una nostra precedente esposizione, realizzata dopo aver visto una sua mostra che ci aveva particolarmente impressionati: per cui, capirai che ciò che dici è per noi molto lusinghiero. Riguardo al resto, in realtà non saprei cosa risponderti, perché dipende molto dai momenti, dai periodi, e anche noi come i nostri aeroplanini ci smarriamo, seppure in maniera bella, e le influenze possono essere davvero tante. Non c’è una stella polare nel buio.

Una domanda scontata, ma importante per capire bene. Cos’è Dear Design?
D: Questa è una domanda che dovremmo sicuramente condividere con Lorenzo Palmeri che ne è il curatore. Noi siamo qui grazie a lui, perché questa è una sua idea. Dopo aver letto le nostre lettere – esposte in mostre precedenti – dedicate al Destino, al Successo, e via dicendo, è rimasto incuriosito e ci ha suggerito di fare una lettera dedicata al Design. Solamente che noi riguardo al design siamo un po’ sprovvisti di background, per cui – ritenendoci impreparati – abbiamo chiesto aiuto ai migliori designer presenti in Italia. Alberto Alessi, Mario Bellini, Michele De Lucchi, Alessandro Mendini e Isao Hosoe sono quindi stati coinvolti, ed è nata questa collaborazione: noi abbiamo prestato il nostro media, ovvero il supporto di alluminio, e loro hanno scritto le lettere.

Dite la verità… sicuramente volete bene a Blue and Joy, ma è una rapporto ormai logorante, e non vedete l’ora di liberarvene. Pensate di riuscirci? E come?
F: Diciamo che anche quest’anno abbiamo fatto cose dove Blue & Joy c’erano, ma esclusivamente sotto forma di due sculture che “facevano presenza” all’interno dell’esposizione. Di fatto, a livello iconografico e stilistico erano lontani dal loro mondo, e rimanevano semplicemente lì fermi a guardare.

D: Quindi pensiamo di avere iniziato ad emanciparci da un linguaggio che avevamo intrapreso come sfogo nei confronti della pubblicità: poiché in pubblicità la tua creatività viene costantemente lesa e maltrattata, avevamo inventato questi personaggi di un fumetto ai quali andava tutto male. Era un po’ come osannare la sfiga essendo costretti invece, allo stesso tempo, a vendere la fortuna e la gloria ogni giorno e con qualunque marchio.

F: E poi comunque negli anni Blue and Joy sono diventati grandi, sono cresciuti ed è ora che si trovino un lavoro. Ma andassero a lavorare in pubblicità!

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