Fa freddo, una stufa riscalda una grande stanza luminosa, con l’edera che entra dalla finestra. A pochi chilometri da Bergamo, una casa di cortile è stata scelta da Emma Ciceri (Bergamo, 1983) come proprio studio, in condivisione con altri due artisti.
«Sono dinamiche più arricchenti che stare da sola in uno spazio, sia per la condivisione che si crea quando siamo tutti insieme sia per le persone che ci vengono a trovare. Essendo fuori Milano e Bergamo, l’idea è di non bastare a se stessi e a questa realtà, di uscire, ma il punto di partenza resta un luogo condiviso da generazioni diverse. Avere delle persone con cui nasce un rapporto forte e si mantiene, una relazione che viene costantemente alimentata è fondamentale per la ricerca artistica. Il mio lavoro è principalmente in solitaria, quindi avere dei momenti in gruppo mi piace molto, credo che aiuti a mantenere l’equilibrio. Questo vale anche per l’attività di insegnante: lavoro come assistente e tutor alla NABA a Milano e all’Accademia Carrara a Bergamo. Mi piace moltissimo avere la possibilità di raccogliere le storie degli studenti. Ho sempre fatto esperienze che hanno arricchito la ricerca e messo le distanze giuste, anche perché la maggior parte del mio lavoro ruota intorno all’osservazione dell’essere umano, quindi di tutte le situazioni nelle quali c’è la possibilità di relazionarsi con qualcuno».
La componente fondamentale del tuo lavoro è l’osservazione dell’umanità, quindi parteciparvi è irrinunciabile.
«Con tutti i timori, perché sono un po’ timida. Ho bisogno di solitudine, di silenzio, amo andare in montagna dove non si incontra anima viva, però anche quando sono sola ho il desiderio di analizzare tutti gli incontri, facendo una specie di viaggio interminabile per avvicinarmi a qualcosa che non so neanche io cosa sia, magari sono io. C’è sempre questa dialettica tra l’isolamento e la relazione».
Questa ambivalenza ti permette di avere uno sguardo distaccato, pur essendo immersa nelle situazioni che osservi, di porre l’attenzione sull’individuo immerso nella massa?
«Non so se sia uno sguardo oggettivo, sicuramente ho bisogno di entrambi i punti di vista. È una dinamica che applico anche nella vita privata, guardare da dentro e da fuori. Sono processi naturali, non pilotati. Anche nel lavoro sulle folle – che poi non è sulla folla ma sul singolo all’interno di essa – non c’è una progettazione antecedente, cerco l’esperienza da vivere, affrontandola con questa specie di filtro che è il linguaggio, la potenzialità enorme del linguaggio dell’arte. In questo caso uso la videocamera perché è il mezzo che mi sembra più immediato, che meglio risponde a questa esigenza di osservare e catturare. Si mette in gioco questa dinamica che non è mai calcolata, è vissuta».
La tua partecipazione è mediata dallo sguardo della telecamera, attraverso la quale ti concentri sul singolo.
«Seleziono anche in fase di ripresa, ma il lavoro diventa più freddo nel montaggio, in cui reinterpreto la storia, creando ciò che non è realtà. Questo avviene anche con strumenti diversi e in situazioni in cui non c’è la folla ma ci sono dei nuclei di persone, come in “Isolamenti”, con il disegno. Il progetto è nato dal coinvolgimento all’interno di un carcere. Ero stata chiamata a documentare la giornata di festa che si tiene una volta all’anno, in cui i detenuti possono incontrare mogli, compagne, figli, tutti insieme.
Dovevo solo documentare la situazione, ma si sono creati in maniera istintiva dei rapporti con le varie famiglie, che mi hanno chiesto di realizzare foto ricordo, in posa con i figli vestiti a festa e le mogli truccate. A casa, guardando il materiale, che non potevo usare direttamente, mi sono resa conto che si era caricato dell’esperienza fatta e quelle foto in posa – ancora una volta un gruppo – per me erano dense dal punto di vista psicologico ed emotivo, per storie sentite e immaginate. Ho scelto di lavorare con il disegno, perché più istintivo, realizzando silhouette o figure stilizzate in cui è entrato il mio immaginario.
Ho scoperto da un’amica psichiatra che l’immagine in posa, che fino ad allora non mi aveva mai interessato, è un metodo usato in psicanalisi, in cui talvolta si parte da foto della famiglia e dalla postura, dalle distanze, per ricostruire percorsi e storie.
Credo che tornerò a lavorare sul nucleo famigliare, la stessa esperienza all’interno del carcere non si è esaurita, ha avuto bisogno di tempo per raffreddarsi, perché è stata per certi aspetti straziante».
Anche da un’esperienza che non avevi previsto è emerso un lavoro.
«Ciò è stato reso possibile dal fatto di rimanere sempre in tensione…»
In attesa, con i sensi all’erta.
«Come gli animali, che hanno tantissimo da insegnarci e su cui sto lavorando proprio studiando la fase in cui questa tensione fortissima si tramuta in un’assoluta immobilità. Voglio mantener viva la componente più incosciente, vivendo le situazioni senza aspettarmi nulla e poi stupirmene».
Le tue opere possono avere anche una componente politico-sociale che non è mai esplicitata.
«Sì, non è mai esplicita, ma spesso genera questa lettura. La folla è già un aspetto politico e sociale, a prescindere dalla motivazione per la quale si crea, il fatto che delle persone si mobilitino e occupino uno spazio e un tempo indica una dimensione collettiva. Il mio punto di vista, però, non si concentra mai sulle motivazioni o sulle ideologie che ne sono motore».
Astrai dalle cause.
«Le motivazioni emergono, per esempio, attraverso una certa gestualità e ritualità. In “Zone”, nel secondo video l’immagine viene erosa progressivamente, finché non rimane solo un braccio destro alzato, così come nel primo, con la ripresa della folla di un comizio politico di sinistra negli anni Settanta, in cui rimane solo un uomo con una bandiera. Sono sempre riflessioni generali ed esterne. Quello che mi interessa, anche quando non posso farlo direttamente ma attraverso materiale d’archivio, è osservare come queste persone si sono radunate, cosa succedeva dentro quella folla, non perché. La stessa cosa accade quando sono io a girare con la videocamera, pur essendo partita dalle situazioni che conoscevo di più: il movimento studentesco, i treni che si spostavano da Milano a Roma, i concerti».
Rimane un discorso formale, così come in “Madre di monumenti”, presentato da NCTM , a cura di Gabi Scardi, e da Careof, a cura di Alessandra Pioselli.
«Sì, non c’è mai una presa di posizione politica, preferisco offrire piccole visioni, io sto osservando l’essere umano, non il processo storico.
Dall’abitudine di collezionare giornali e ritagliare alcune immagini che mi interessano, su cui intervengo cancellando, ha avuto origine il lavoro sui monumenti, in cui, però, ho usato foto trovate in rete. Da questa pratica si era generata una serie in cui avevo isolato il nucleo, eliminando ciò che non era indispensabile, non per distruggere l’immagine ma per creare un vuoto. In “Madre di monumenti”, invece, le folle diventano un nuovo monumento e mi piace immaginare la statua come generatrice di questi nuovi monumenti contemporanei. Non voglio dichiarare, voglio osservare».
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