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Minima realia: Donald Judd e Alessandro Broggi

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1. Che cosa fanno gli stacks di Donald Judd? La domanda sarebbe mal posta, secondo i dettami minimalistici. Un’opera minimale non fa nulla, non vuole alludere a nulla, non è simbolica, o metaforica, non figurativa o figurale. È letterale. Direi anzi, e forse meglio, sintattica.

Judd inorridirebbe per l’atto di violazione cui sottopongo qui la resistenza ermeneutica che le sue opere (come quelle di Carl Andre, di Sol LeWitt e di altri) hanno strenuamente cercato di perseguire. Il fatto è che un’opera persuasiva (e quella di Judd lo è pienamente) parla e agisce anche fuori dell’istituzione, del mondo dell’arte, in qualche luogo esterno, qualche luogo della prassi: dal quale si ritorna al suo cospetto semanticamente. E a quel punto l’opera deve ascoltare il mondo, parlare con il mondo, il reale: accettare che un interlocutore intervenga nel soliloquio da cui eventualmente (e non c’è niente di male) abbia avuto origine.

Che cosa fanno dunque gli stacks? Danno un ritmo alla parete che li ospita, innanzitutto.  Non un ritmo soltanto: una struttura, una colonna vertebrale, che però non presuppone un corpo da sostenere, un peso da portare, né l’articolazione di qualche movimento.

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Vertebre di concreta presenza fisica applicate al vuoto in una serie aperta, potenzialmente infinita, e che tengono in judd 2piedi, questo sì, la sua immobile vacuità. E qualora un corpo si desse (certi allestimenti e certe illuminazioni approvate da Judd – come si può dedurre dalla foto qui accanto – proiettano sul muro quasi delle costole, qualcosa come una cassa toracica) sarebbe morto, o ibernato, data la temperatura più che bassa dei materiali ­– industriali, preferibilmente metallici e sintetici – e delle forme – esatte fino all’astrazione geometrica, metafisica – di cui Judd fa consistere i suoi elementi. Che non alludono alla vita né la presuppongono (neppure questa), e si offrono piuttosto quali oggetti ideali appena replicati e come non ancora calati nella contingenza.

 2. Sono tornato all’opera di Judd dopo aver frequentato quella di uno scrittore su cui Judd mi sembra aver agito, uno degli autori di punta dell’attuale scrittura di ricerca italiana: Alessandro Broggi. Il quale prende la vita e la riduce cinicamente in stacks (cinicamente perché indifferente ai valori formali della tradizione letteraria, così come il minimalismo lo è stato rispetto alla tradizione artistica), collocati in serie a reggere un corpo, che è, nella sua opera, un corpo sociale.

Anche l’opera di Broggi si costruisce modularmente, in molti casi esponendo alla vista, nella sua evidenza, la presenza ottusa di alcuni soggetti nella forma dell’autopresentazione (che ricorda da vicino il Godard degli stessi anni degli stacks juddiani: Paulette Cadjardis che parla di sé in Deux ou trois choses que je sais d’elle, per esempio):

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I. Ho trentun anni, sono alta 1 e 70 e peso una cinquantina di chili. Faccio nuoto, non ho mai seguito una dieta, mangio quello che voglio.

II. Ho una bella carriera in un’azienda farmaceutica, una villa con un grande giardino, un marito spesso all’estero… Corro da mattina a sera per stare dietro a tutto e a tutti e quando sono fortunata vedo mio marito per un’ora e mezza al giorno.

III.Quando, sulla soglia della porta della camera che avevamo destinato al nostro bambino, mi soffermo a pensare, piango per la mia condizione di madre mancata.

 

broggiQuesto come tutti gli altri brani di Nuovo paesaggio italiano (che con Quaderni aperti, Servizio di realtà, A fondo perduto e Abstracts forma il volume complessivo Avventure minime, uscito di recente per l’editore Transeuropa) si intitola “Nuova situazione”, all’insegna di una ripetitività di qualità disperante: vertebre di una schiena sociale piegata non da qualche tipo di sfruttamento bensì da una monotona teoria di stereotipi linguistici e ideologici assimilati e riprodotti serialmente.

Fa stridere ogni “nuova situazione” con la serialità della costruzione e delle situazioni stesse un’ironia che non è tanto nel discorso quanto nella realtà delle cose, come l’alone di unicità che sorregge il marketing di profumi e automobili prodotti in milioni di esemplari. Allo stesso modo, e con lo stesso tipo di rapporto, il linguaggio non privo di traslati di vario tipo proprio dei soggetti che di volta in volta si presentano davanti a questa sorta di telecamera che Broggi ha piazzato loro dinnanzi, quel linguaggio, quei discorsi, vengono riferiti letteralmente, senza apparentemente altra intenzione da parte dell’autore che quella dell’ostensione sintatticamente (paratatticamente) concepita di oggetti appartenenti a una determinata ontologia sociale. Stereotipi, come dicevo: al punto da assomigliare a prototipi, da illuderci di far parte di un’ontologia ideale. Immodificabile in quanto tale, che siamo costretti a replicare.

Stando così le cose, l’avventura si riduce a ben poco.

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