Presentato lo scorso dicembre al Torino Film Festival nella sezione After Hours, La Danza de La Realidad (Alejandro Jodorowsy, Cile) è l’attesissimo ritorno alla regia, dopo 23 anni dal suo ultimo film, del cineasta de La Montagna Sagra, El Topo e Santa Sangre: un’autobiografia surreale che rilegge gli anni della propria infanzia in una catena di ricordi e sogni grottesca e straniata. La scorsa settimana è stato presentato a Milano in occasione di una proiezione evento seguita da un incontro col regista.
«Essendomi separato dal mio io illusorio, ho cercato disperatamente un sentiero e un senso per la vita». Questa dichiarazione del regista ben definisce il progetto biografico del film: restituire l’ avventura e la ricerca che è stata la sua vita. Il film è un esercizio di autobiografia immaginaria. Nato in Cile nel 1929, nella cittadina di Tocopilla dove il film è stato girato, Alejandro Jodorowsky si è confrontato con un’educazione molto dura e violenta, in seno a una famiglia sradicata. Prendendo spunto da fatti reali della sua infanzia il regista li trasporta in un universo poetico, a volte dolce e a volte grottesco.
Le opere visionarie del regista cileno hanno ispirato un’intera generazione di cineasti, artisti e tecnici. Poi nel 1991 Jodorowsky resta schiacciato nel meccanismo dell’industria cinematografica: ancora oggi ricorda come terribile l’esperienza de Il Ladro dell’Arcobaleno, film con un budget miliardario e un cast stellare (Christopher Lee, Peter O’Toole e Omar Sharif). Le costrizioni della produzione e l’ego delle star male si accordarono col il suo spirito da poeta. Il suo nuovo film, La danza della realtà, è l’opera più personale: una luminoso racconto ispirato dalla propria autobiografia e interpretato da membri della sua famiglia. Sulla base dei ricordi d’infanzia a Tocopilla, nel nord del Cile, il film è apparentemente la storia del giovane Alejandro e Jaime, padre autoritario interpretato dal figlio di Jodorowsky, Brontis (solo uno dei tanti Jodorowsky che affettuosamente compaiono nei titoli di coda). La madre del piccolo Alejandro, Sara (il sopranoPamela Flores) è una signora prosperosa che invece di parlare canta in stile operistico, crede che suo figlio sia la reincarnazione del proprio padre, è morto in un’esplosione mentre accendendo una lampada sopra un barile di alcol. Tutto questo sullo sfondo dell’agitazione politica cilena a e la disuguaglianza sociale in cui Jaime, che gestisce un negozio con la moglie, è in realtà un membro tesserato del Partito Comunista, insieme a una bizzarra galleria di ideologi, travestiti e prostitute locali. E c’è un esercito belligerante di amputati, un nano che usa espedienti pubblicitari sempre più esilaranti per incoraggiare i clienti nel negozio… Spiega Jodorowsky: «La Danza della Realtà non è solamente un film, ma anche una forma di guarigione familiare, poiché tre dei miei figli ci recitano dentro. Torno alla sorgente della mia infanzia, nel luogo stesso dove sono cresciuto, per reinventarmi. È una ricostruzione che parte dalla realtà ma mi permette di cambiare il passato. Abbiamo girato il film proprio nel paese della mia infanzia, Tocopilla, che non è cambiato da 80 anni a questa parte, nella via dove si trovava la bottega dei miei genitori. È il solo negozio che era bruciato in questa strada, e l’ho ricostruito per le necessità del film. Ho fatto alcuni altri ritocchi, ridipingendo il cinema o riparando l’asfalto della strada. Quando ero bambino questa città mi ha rifiutato a causa del mio aspetto fisico: avevo la pelle bianca, il naso a punta, mi chiamavano Pinocchio, ero figlio di emigrati ebrei russi nel bel mezzo di un territorio acquisito dalla Bolivia e popolato di indios. Ero dunque un mutante, per gli abitanti. Non avevo nessun amico e ho passato la mia infanzia chiuso in biblioteca a leggere tutti i libri che c’erano. Nel film faccio vedere come i bambini si burlavano del mio sesso circonciso. Grazie alle riprese del film e ai miglioramenti che abbiamo apportato alla città, sono diventato finalmente il salvatore, il figlio ideale di Tocopilla. Mi hanno rilasciato anche un diploma. Sono l’eroe che ha portato il filtro magico per salvare il suo popolo, e questo filtro magico è il cinema».
Il regista stesso appare qui e là durante la storia, solitamente per incoraggiare o consolare il sé stesso più giovane. Ma questo non è solo un libro di memorie messo in scena in maniera surreale e bizzarra, è in realtà un atto di cura, un modo per riabilitare le figure della propria genealogia, per aggiustare quello che nel passato non era stato giusto, equo. Nel film il padre di Jodoroswky attraverso un lungo viaggio per ammazzare il dittatore Ibanez mette in gioco i propri ideali e attraverso una forte crisi riuscirà con l’aiuto della moglie a sciogliere i nodi di un profondo trauma e a riavvicinarsi alla propria famiglia. Nella realtà la madre non fu mai una donna realizzata -ma sempre succube- e Jaime non partì mai per questo viaggio, anche se era una cosa che diceva sempre avrebbe voluto fare, e in tutta la sua vita non abbracciò mai nemmeno una volta Jodorosky: «Questa parte è immaginaria, anche se lui voleva davvero farlo e non ha mai messo in atto il suo piano. E anche mia madre voleva essere una cantante lirica, ma non lo è mai diventata. Nel film realizzo i sogni di mio padre e di mia madre, e io realizzo il mio sogno di riunirli di nuovo e di creare una famiglia».
Tutta questa riscrittura è tenuta assieme dai temi cari al regista, motivi ricorrenti della sua poetica: il misticismo, la redenzione, il sacrificio messianico del sé, la presenza costante degli emarginati, dei “freaks”, il circo, le figure dei tarocchi… Jodorowsky butta tutto nel calderone e realizza un melange gioioso e assurdo di memorie surreali e umorismo grottesco: «Mia madre aveva dei seni enormi, ho dovuto cercare un’attrice con un grosso petto. Se si mostra una donna abbondante si pensa a Fellini, se si mostra un nano si pensa a Buñuel, se si mostra un “freak” si pensa a Tod Browning. Ma no, era la mia vita nel mio paese. Tutti gli elementi della mia infanzia sono lì».
Il film è stato interamente girato in digitale, tecnica che ha entusiasmato il regista per la libertà e la facilità di creazione, la ricoloritura delle immagini per esempio, fatta tutta assieme alla moglie, l’ha fatto sentire come un pittore: «Ho detto al mio direttore della fotografia, Jean-Marie Dreujou, che volevo un’immagine clinico-fotografica, non estetica. […] Una volta finito il film, ho rielaborato tutti i colori grazie al digitale. Questo film rappresenta una prodezza tecnica perché è stato realizzato in modo molto originale. Ho ucciso l’estetismo per creare un’altra estetica. Mi sono limitato all’essenziale, il montaggio e i piani sequenza devono molto al fumetto, il film avanza come un fiume».
La nuova opera del regista cileno non deluderà sicuramente i suoi fan, di nuova e vecchia data, che vi ritroveranno tutto quanto amano del grande maestro (per molti un guru, sebbene lui tenti di minimizzare), nel gusto delle nuove generazioni invece faticherà sicuramente di più a farsi strada, ma la strada più semplice non mai stata quella privilegiata dal regista.
Il film dopo esser stato distribuito negli Stati Uniti a ottobre arriverà anche nelle sale italiane, distribuito in 35 copie, in lingua originale.