Abbiamo incontrato Alessandro Papetti in occasione della mostra in corso a Perugia “La pelle attraverso”. Ci ha accolti nel suo studio a Milano in una piovosa e stranamente fredda giornata di luglio.
Alessandro, cosa puoi raccontare ai lettori di ArtsLife dell’esposizione in corso a Perugia? Come è nato questo progetto?
È una mostra alla quale ho dedicato circa nove mesi, un anno di lavoro. È in corso fino al 7 settembre a Palazzo della Penna, uno spazio espositivo piuttosto grande, che mi ha dato la possibilità di allestirla come desideravo. Avevo già chiaro il mio progetto e grazie alla presenza di molte sale ho potuto disporre le opere proprio come avevo in mente.
Per questa mostra ho usato una tecnica diversa da quella che utilizzo solitamente. Molti lavori sono su carta. Non che non abbia mai usato la carta, però abitualmente lavoro con oli su tela. La fragilità della carta in questi lavori, riporta alla fragilità della pelle, in quanto fragilità di un confine ultimo tra noi e quello che c’è fuori da noi. Noi siamo come un contenitore e ci portiamo in giro in un ambiente. Lo spazio che è dentro di noi è delimitato nel nostro confine dalla pelle, che diventa dunque un simbolo che parla di questo rapporto, fra quello che c’è dentro di noi e fuori da noi. Un tema che credo sia affrontato nella vita di tutti gli artisti, ma anche in quella dei non-artisti. È un rapporto che quotidianamente siamo portati a condividere. Questa pelle, questo confine da una parte segna un baratro, un precipizio oltre il quale c’è l’altrove. Dall’altra parte, però, è anche un ponte che congiunge questi due aspetti.
Per realizzare una mostra, parto sempre da un qualche cosa che è istintivo, di pancia. Sorge il bisogno di realizzare un certo ciclo di lavori, magari che non ho mai affrontato in quel modo, perché c’è qualcosa che “macina” dentro di me. Come per i nudi: ne ho realizzati tantissimi nella mia vita, ma non in questo modo, come per questa mostra. Perché quel qualcosa che lavora “silenziosamente”, magari rimane in gestazione anni e non ci si rende neanche conto, ma prima o poi esce. E questo uscire molto spesso ha a che fare con un accadimento o un qualcosa che è capitato nella vita che ha dato una spinta.
Qualche volta la vita anticipa il lavoro che si fa -se quello che ti è capitato è molto forte. Per contro invece, altre volte, è la pittura – come nel mio caso – che anticipa certe cose che poi razionalmente si capiscono successivamente. A volte la spinta è stimolata da un fattore apparentemente esterno, come ad esempio, un film che ha mosso qualcosa. Nel caso dell’esposizione di Perugia sicuramente lo spunto per questi corpi nudi è arrivato da un dato di realtà: spesso d’estate mi reco in Grecia, dove si possono trovare delle spiagge molto libere, nelle quali chi vuole fare nudismo può. In questi luoghi, paradossalmente, le persone che fanno nudismo spesso sono persone anziane.
Sì anche in Croazia, in Istria, ci sono spiagge naturiste dove spesso a praticare il nudismo sono persone anziane, completamente a loro agio nei lori corpi non più giovani e atletici
Ah, anche in Croazia! Per me, pittoricamente, è straordinaria questa occasione perché ci si trova di fronte a un soggetto “raro”. Difficilmente un anziano è disposto a spogliarsi per posare per un artista. E io non lo chiederei neanche, per una questione di rispetto. Ma in queste spiagge si presenta l’occasione perfetta: si riescono a realizzare scatti rubati, in foto d’insieme, che poi si possono riutilizzare, studiare, modificare e reinventare. Per la mostra lo spunto è stato proprio quello. Mi ha sempre colpito non solo la naturalezza e la disinvoltura con cui queste persone si portano in giro il loro corpo, che non è più “bello” nell’accezione comune, ma è “bellissimo”, affascinante.
Quando ero in spiaggia vedevo queste persone e qualsiasi fosse la loro età, il corpo era portato con una enorme potenza. I vecchi non erano più vecchi, ma antichi. Senza tempo. Avevano corpi meravigliosi.
È come se si perdesse un po’ l’idea del brutto e del bello. Chiaramente li si vede anche nella loro vecchiaia e quindi nella loro fragilità (di corpo e di pelle) che tradotta in pittura diventa un lavoro su carta.
Quando ho bisogno di sperimentare qualcosa, lavoro su carta ma non perché ho bisogno di fare degli studi. La mia pittura è molto gestuale e veloce: non potrei mai fare uno studio preparatorio. Cambierebbe tutto. Se ho una idea, non posso ripeterla successivamente “in bella copia”. Dunque utilizzo lo stesso la carta, che mi piace molto come materiale, ma come una sorta di autoinganno: è come se psicologicamente la carta mi desse la sensazione di qualcosa di più precario. Quindi mi sento più libero.
Bé, effettivamente è più precaria. Rispetto alla tela, la carta si può strappare con facilità, anche involontariamente. Mentre per strappare una tela serve qualcosa in più, un oggetto/fattore esterno che interviene su di essa. Mentre la carta si deteriora anche con una minima influenza dell’esterno.
Esatto. In questi lavori, le carte sono state preparate. Non per irrobustirle, ma perché volevo che il colore scorresse con maggiore fluidità. Così ho steso un fondo (reale e metaforico) che poi rappresentava la sabbia su cui erano appoggiati questi corpi quando li osservavo in spiaggia in Grecia. Tant’è vero che ho dipinto soltanto il corpo e laddove era affossato nella sabbia, quella parte nel dipinto non c’è. I corpi sembrano volare, alcune parti mancano. Sono presenti solo delle colature di colore, un po’ come delle radici che affondano in questa sabbia. Sicuramente queste persone sono state lo spunto. Anche se sicuramente tutto questo lavorava dentro di me già da molto tempo. Penso che facendo un lavoro come quello dell’artista, si parte da qualcosa per andare a scovare un concetto dentro se stessi. Non si parte dal concetto per dimostrare qualcosa, ma dalla pittura per arrivare a un concetto.
Lavorando in questo modo ci si rende conto che se si può fare una riflessione su quello è stato fatto, si può fare solo a posteriori. Per fare una indagine su se stessi, bisogna storicizzare minimante la propria micro storia personale. Ed è più facile farlo successivamente. Posso capire adesso perché dieci anni fa ho dipinto una certa cosa. È più facile fare un ragionamento a posteriori per capire un percorso.
Questo per dire che non ho ancora individuato il motivo per cui adesso sto realizzando questo ciclo. Lo capirò fra qualche anno. Però ho individuato in modo molto veloce il passaggio che mi ha portato qui. Inizialmente ho dipinto dsoggetti molto solidi, come i cantieri industriali, o gli interni, sia di appartamenti che di fabbriche dismesse. Poi invece c’è stato il ciclo dell’acqua. Con il relativo stacco mentale. Successivamente il ciclo del vento (nell’installazione dell’estate del 2009 a Palazzo Reale a Milano). Ogni ciclo nuovo può essere stato in gestazione dentro di me per 10 anni. Ma poi si sviluppava all’improvviso grazie a una scintilla che provocava l’accensione.
Allora in questa occasione mi sono posto la domanda “Perché sto facendo questo?” E soprattutto, “Perché lo sto facendo in questo modo?”. Per questa mostra ho realizzato dei ritratti di corpi dove ho tolto tutto il contesto, mentre i nudi che ho dipinto precedentemente erano ambientati.
Sì, i primi ritratti erano spesso ripresi dall’alto, in ambientazioni ed erano corpi diversi da questi, di persone giovani.
Sì, lo spazio interagiva con loro. Mentre in questa mostra lo spazio è un grande amplificatore apparentemente vuoto. È una cassa di risonanza sul soggetto e lo amplifica ancora di più. In molti di questi ritratti, ho addirittura tolto anche il viso. Sono proprio dei “corpi”. Il senso è andare a indagare sul nostro confine ultimo con quello che c’è fuori. Poi a un certo punto ci si domanda, tutto questo su cosa va ad agire? Sempre su quello che c’è in me e fuori di me. Ma è inevitabile, no? Abbiamo dei paletti oltre ai quali non possiamo andare oltre. Se chiedi a chiunque che cos’è il vuoto. Non riesce a immaginarlo. Potrebbe rispondere “È uno spazio nero”. Ma non è così. Vengono utilizzati due concetti: quello di spazio e quello di colore nero. Non possiamo concepire certe cose perché non possiamo andare oltre. Quindi si esamina sempre questo rapporto in qualche modo. E tutto ciò che va a interagire alla fine è andato a concentrarsi sul confine estremo, fragilissimo e impercettibile che c’è tra noi e quello che c’è fuori, che simbolicamente ho chiamato “la pelle”.
Un confine tra interiorità e mondo esterno, e come questo agisce su di noi. Una barriera che ci permette di vedere al di là ma che però può anche proteggerci?
Sì, proteggerci ma anche ferire. O trapassare come il vento. Adoro il vento perché passa attraverso, porta cose e contemporaneamente anche tu porti altrove le tue cose, c’è una sorta di scambio. Se dovessi spiegare a un alieno cos’è l’acqua, cosa diresti? Come fai a spiegare cos’è l’acqua?
Io direi che l’acqua è vita. Quello che mi è sembrato di vedere nel ciclo dell’acqua anche se indagato in maniera diversa e in questo ciclo è proprio il filo rosso di acqua come principio vitale: in quelle colature di colore che prima hai definito come una sorta di radici, il cui ruolo è proprio assorbire il nutrimento. Gli stessi corpi sono fatti in gran parte di acqua.
Si senza acqua moriamo. L’acqua è fondamentale. La sensazione che proviamo a galleggiare nell’acqua ad esempio, come la si può spiegare?
Non si può, come prima quando parlavamo del vuoto.
Esatto. Diamo per scontate un sacco di cose che in realtà sono straordinarie. La realtà è di per sé straordinaria. È inutile andare a indagare altrove, non basterebbero duemila vite. Sicuramente il senso della mostra e nasce in questo modo.
Sì infatti, vivere in una casa studio sembra quasi un’esasperazione del ruolo dell’artista che non stacca mai, che è sempre all’opera.Ora che ci hai spiegato a fondo della mostra a Perugia, parliamo un po’ di te in generale. Ci troviamo nel tuo studio, diventato tale da quattro anni. Precedentemente invece lavoravi e vivevi in una casa–studio. Come mai hai scelto di separare gli ambienti? Com’è il tuo rapporto con il tuo studio?
Ho cambiato ambienti 3 o 4 volte. Per più di dieci anni sono stato in una casa-studio (che poi è dove vivo adesso: ho liberato la parte di laboratorio). Il rapporto con lo studio è diverso quando ci abiti. Forse più che una casa, consideravo quell’ambiente più il mio studio: non mi sembrava di lavorare a casa, ma di dormire in laboratorio. È più coinvolgente, tant’è che con il tempo, lo spazio adibito a studio aveva invaso lo spazio della casa. Così si finisce per vivere perennemente con l’odore del colore e del diluente nel naso. Non si stacca mai. Ma a un certo punto ho iniziato a sentire l’esigenza di separare gli spazi, anche mentalmente. In un lavoro come quello del pittore, ci si porta dietro la vita. Sicuramente trovarsi già nello studio, è utile perché se viene in mente un qualcosa, si è lì, pronti. Però prendere le distanze a volte, permette di rivedere anche il proprio lavoro con un po’ di distacco e obiettività.
Sì , diventa una sorta di “fatto fisico”. Mentalmente non si stacca mai, ma in quel periodo non staccavo mai neanche fisicamente. Adesso invece ho una interruzione fisica che è utile. Torno in studio, vedo qualcosa su cui ho lavorato il giorno prima, la osservo e capisco cosa non va o se mi piace così.
La separazione quindi ti permette di sedimentare le idee?
Sì. Poi a volte ho bisogno di capire i miei lavori, di leggerli dopo averli abbandonati per un po’. A volte infatti arrotolo un dipinto e poi lo dimentico. Viene fuori dopo anni.
E quando ritrovi una tela dopo anni cosa ne fai? La tieni? La riprendi?
No. O la tengo o la distruggo.
Ti è capitato più volte?
Quando ho fatto il trasloco dallo studio-casa a qui, ho trovato e riaperto tantissime tele arrotolate da tanto tempo.
Che sensazioni ti hanno dato quando le hai srotolate?
A volte positive. Altre volte invece capivo perché le avevo tenute. Altre volte ancora, dopo due o tre anni che le riscoprivo, continuavano a non convincermi del tutto. E quindi le distruggevo. Quando sono arrivato in questo studio, ne ho distrutte più di 50. Alcune anche grandi. Non riesco a correggere le mie cose. O sono venute o non sono venute. Distruggerle era l’unica soluzione. Ma va bene così. Ho fatto una sorta di pulizia anche dentro me, ho fatto spazio.
Qui in studio sono presenti dei lavori ancora freschi di colore. Vedo un cantiere navale, degli interni. Non hai mai smesso dunque di portare avanti dei cicli che hai iniziato anche molto tempo fa. Alcuni soggetti non hanno mai smesso di interessarti?
Sì, ogni tanto ho aggiunto qualcosa di nuovo. L’acqua, il vento, le figure smarrite, il bosco… Però molto spesso c’è la rivisitazione di cicli passati. Evidentemente sono delle parti di me e non le ho ancora risolte. C’è ancora da indagare. Passa il tempo e vedo le cose con un occhio leggermente diverso. Viene voglia di tornarci sopra
La figura umana in queste rappresentazioni non c’è mai. Anche nelle città. Non c’è fisicamente, ma in realtà è presente, è la sua assenza che conferma della sua presenza?
Sì, vado a indagare dentro me. Quindi sono io che in quel momento sono in quella città, sono io che entro in quel capannone industriale o in quel cantiere navale. Ed è l’osservatore che guarda il quadro che è presente in quel momento. La fabbrica abbandonata: è pienissima di presenza. Si sente, si coglie.
Nei cantieri navali non si vede la figura umana, ma la si coglie, piccola piccola a fianco dei giganti del mare. L’uomo è piccolo e grande allo stesso tempo. Grande perché quel gigante l’ha costruito lui.
Sì, quando si vedono le navi nei bacini di carenaggio, gigantesche come se fossero chiuse in una scatola sembrano un giocattolo e fanno ancora più impressione. Si vedono nella loro enormità, sembrano balene piaggiate. Sono in qualche modo dei corpi. Quando a Rotterdam sono entrato nei bacini di carenaggio ho camminato sotto una nave e faceva impressione sapere di avere 40.000 tonnellate sulla testa, ma allo stesso tempo la nave mi faceva quasi tenerezza. Mi dava una idea di fragilità con questo enorme copro pesantissimo.
Dopo averci raccontato dei soggetti, parlaci un po’ della tua pittura. È molto gestuale dicevi…
Sì, nel mio studio si vede anche dal muro stesso dove dipingo. C’è moltissimo colore sul muro! Questo tipo di pennellata impone velocità di gesto che è la cosa più naturale per me. Non lavoro tutti i giorni, ma quando lo faccio è molto veloce. È il mio modo di procedere. Quasi sempre le mie opere sono oli su tela. Invece in questa mostra di Perugia sono presenti molte opere su carta. Una carta lavorata, acrilici su carta o tecniche miste con interventi a olio.
L’acrilico non lo usi mai sulla tela vero? Credo che risulti troppo piatto per la tela, mentre l’olio è materico e luminoso.
Sì, la tela opacizza tantissimo l’acrilico. Mentre la carta gli restituisce un po’ di quella forza che ha. L’acrilico su tela, diventa piatto. Si smorza di toni. L’olio no, è brillante.
E come mai hai usato dei colori caldi in questo ciclo? Solitamente mi sembra che usi più colori freddi
Sì sono molto caldi. Un po’ perché c’è la suggestione della sabbia di cui parlavamo prima, un po’ perché anche il tipo di colore che ho usato ha una resa differente rispetto all’olio. Quando lavoro uso tutti i colori. Nella mia tavolozza ci sono anche i rossi e i gialli, ma non si trovano mai puri. Mi serve magari a scaldare un tono. Sono colori molto mischiati. Però le tinte le uso quasi tutte. Lavoro molto sulle sfumature di tutti i mezzi toni. In una pittura che vuole essere molto intima, se usassi dei colori puri, tutta l’attenzione andrebbe su quell’oggetto di colore puro.
Tu sei di Milano e, anche se ti sei spostato in altre città, adesso vivi qui. Quanta Milano c’è nelle tue vedute di città? Quanto del noto e un po’ bistrattato “grigiore meneghino” c’è nei tuoi dipinti?
Sicuramente Milano mi ha influenzato cromaticamente; é una città dove il grigio prevale, ma questo ti spinge a cercare nei mezzitoni, nelle sfumature, nelle “sfilacciature”, nella sottile differenza all’interno dello stesso colore, tra toni caldi e freddi, il corrispondente della gamma cromatica. E’ un esercizio. Impari, così, a scoprire la non-evidenza delle cose…a leggere tra le righe.
Dal momento che ArtsLife è una rivista che si occupa di mercato dell’arte, cosa pensi del panorama artistico internazionale in questa prospettiva?
Difficile rispondere; domanda molto complessa. Il mercato, lo dice la parola stessa, rappresenta ciò che riguarda l’aspetto economico dell’arte, e spesso al di là dell’opera stessa. Quando rappresenta solo questo, quando c’è evidente distonia tra prezzo e valore, quando l’attenzione del collezionista è fredda e solo calcolo, quando insomma non c’è passione per l’opera ma solo per l’operazione, ecco, allora provo non senso, pur comprendendo le ragioni “materiali”. Intendiamoci… Non metto assolutamente in discussione il ruolo fondamentale del mercato, anzi… Ma sono contento quando incontro un collezionista che non si comporta solo come un operatore borsistico ma è mosso dalla passione e ha una sua visione personale dell’arte, del collezionismo e perchè no, del mercato stesso.
Ultimissima domanda. Anche se sei pittore, sei mai stato nei panni opposti, ovvero in quelli del collezionista? Hai mai acquistato un’opera? O se potessi farlo, quale autore o quale lavoro compreresti?
Sì, certo. Acquisto e faccio scambi, per passione. Gli “artisti” dovrebbero essere potenzialmente i primi collezionisti in assoluto… Per passione, appunto. Poi, riguardo a quale lavoro acquistare, possedere, non so rispondere. Ci sono opere (non tante, ma ci sono) capaci di trascendere l’immagine attraverso l’immagine… Ecco, quelle.