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Agostino Bergamaschi

Agostino Bergamaschi
Agostino Bergamaschi

Non è la prima volta che vado a trovare Agostino Bergamaschi (Milano, 1990) nel suo studio, un grande scantinato all’interno di una bella corte nel quartiere Niguarda, a Milano. Lo trovo alle prese con una scultura di qualche anno fa, che sta collaudando per il Premio Lissone 2014, per il quale è stato selezionato.

Agostino Bergamaschi nel suo studio
Agostino Bergamaschi nel suo studio

I tuoi primi lavori erano meccanici. Prevedevano tubi, liquidi in movimento. Scambi di sostanze diverse, che difficilmente si mescolavano, come nel caso dell’olio e dell’acqua.
«Ero attratto dal fatto che una forma potesse muoversi, cambiare continuamente materia, disegno. Più che la processualità in sé, mi interessava il mutamento dell’immagine: nel caso dell’olio e dell’acqua, per esempio, era fondamentale il continuo movimento, la brevissima durata della fase di stallo in cui si distinguevano come due diverse sostanze. Diventavano un paesaggio sempre nuovo, in costante evoluzione. Mi interessava la contrapposizione tra la complessità processuale e l’elementarità del presupposto che costituisce il nucleo della forma, dove avviene una visione in cui ci si può immaginare continuamente. Da qui il titolo “Di-visione”, un gioco di parole che sottolinea il dato fisico, la divisione dei due liquidi, e l’azione del guardare, quindi una dimensione percettiva, sensibile, esperienziale».

 

Agostino Bergamaschi, Di-visione II, plexiglass, legno, acqua, olio d'oliva, 2012
Agostino Bergamaschi, Di-visione II, plexiglass, legno, acqua, olio d’oliva, 2012

Ora invece cerchi di essere più essenziale, pulito. Come mai?
«Se prima la presenza del processo era fondamentale per la riuscita di un’immagine, ora avverto il rischio che distolga l’attenzione da ciò che l’immagine deve essere. Deve essere un’opera».

Agostino Bergamaschi, Intuizione per una forma, marmo bianco, vetro, acqua, ferro, 2013
Agostino Bergamaschi, Intuizione per una forma, marmo bianco, vetro, acqua, ferro, 2013

In cosa consiste questa distinzione?
«Sono due elementi inscindibili. Concentrarmi unicamente sulla semplicità di un’azione come quella dell’olio e dell’acqua è stato un passaggio fondamentale, che mi ha consentito di inserire il dinamismo come condizione chiave di ogni visione. I paesaggi creati dai due liquidi potevano esistere anche in altro materiale: cera, marmo, ecc.

Il mio modo di lavorare prevede l’inserimento di una distanza tra me e ogni progetto, che mi consente di eliminare, cambiare, reinserire ogni elemento che non risponde all’idea originaria».

 

Agostino Bergamaschi, La distanza della luna, paraffina e acqua, 2012
Agostino Bergamaschi, La distanza della luna, paraffina e acqua, 2012

Dividi lo studio con un pittore tuo coetaneo, Andrea Bruschi. Vi influenzate a vicenda? Mi pare che nella tua ricerca più recente, una sperimentazione con rullini fotografici, ci siano delle similitudini.
«Divido lo studio con “Bobo”, mio amico da sempre. Parliamo spesso dei lavori che vorremmo realizzare e delle prime intuizioni. Il confronto è immediato. È fondamentale però evitare di dire: “Io lo avrei fatto così”, errore gravissimo. Ci si aiuta sul serio se si esaminano i lavori e ci si interroga sulle scelte, condivise o meno. Per questo più che di influenza, parlerei di confronto. Anche per quanto riguarda le mie ultime ricerche: si tratta di una sperimentazione, che non so ancora come si svilupperà e se uscirà dallo studio».

Agostino Bergamaschi, Aspettando il buio II, ferro, plexiglass, acqua e pigmenti, 2013
Agostino Bergamaschi, Aspettando il buio II, ferro, plexiglass, acqua e pigmenti, 2013

La luce sta acquistando sempre maggior importanza nei tuoi lavori, sia nelle opere fotografiche sia in quelle scultoree. Può essere considerata come un elemento in comune tra queste due sezioni della tua produzione?
«La luce è diventata un elemento che ha la stessa funzione dell’acqua, anch’essa presente nella maggior parte delle mie sculture. Generano movimento, rendono l’immagine fluida, dinamica. In “Aspettando il buio”, la luce è ciò che dà spessore all’immagine, la mette in moto, permette il replicarsi di quell’esperienza provata e riprovata centinaia di volte di fronte al tramonto consapevolmente o inconsapevolmente. Ultimamente penso alla luce proprio come a un’azione, che continua a rifrangersi, a modellare, a farsi presenza efficace nello spazio. Quando ho visto la colonna di plexiglass (“Untitled, Acrylic Column”, 1970-71) di Robert Irwin a Villa Panza, durante la mostra “Aisthesis”, mi ha fatto proprio quell’impressione: l’opera divide lo spazio, presenziando nella stanza come una forma scultorea. Quella scultura ha provocato in me una sensazione di totale leggerezza e mutevolezza, diventa da colonna una lama di luce.

Ogni dettaglio che mi colpisce – un’espressione letta in un libro, un fotogramma di un film, una luminosità particolare – diventa l’elemento fondamentale per un lavoro. Per questo dal punto di vista estetico la mia produzione artistica è multiforme, nonostante indaghi la stessa cosa: la mutevolezza, l’attesa, il tempo».

 

Agostino Bergamaschi, Prima di essere sole, stampa fotografica, 2014
Agostino Bergamaschi, Prima di essere sole, stampa fotografica, 2014

 

Agostino Bergamaschi, Aspettando il buio, marmo rosa, azul macaubas, ardesia, 2013
Agostino Bergamaschi, Aspettando il buio, marmo rosa, azul macaubas, ardesia, 2013

 

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