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Colosseo. Franceschini cinguetta e i luminari rispondono

Su Twitter, come va di moda adesso, il ministro Dario Franceschini  – @dariofrance – ha aperto il dibattito: è una buona idea quella di restituire al Colosseo la sua arena, di ricostruirla sopra i resti dei sotterranei portati alla luce un secolo e rotti fa. «Mi piace molto. Basta un po’ di coraggio».

Il progetto della ricostruzione dell'arena dei gladiatori
Il progetto della ricostruzione dell’arena dei gladiatori

In realtà, è qualcosa più di un’idea, visto che ci sarebbe già un progetto al vaglio della Sovrintendenza speciale per i Beni Archelogici di Roma, guidata da Mariarosaria Barbera, che prevede il rifacimento in legno del calpestìo e un museo chiuso dei sotterranei.

Franceschini-Colosseo-Twitter
Il tweet del ministro Franceschini

Da Torino, dov’era capitato per un convegno, prima di scappare via in fretta e furia, il Ministro dei beni culturali ha tenuto a precisare che non ha più niente da dire: «Ora aspetto che siano gli altri a discutere la mia proposta». Già fatto.

Lui aveva ripreso uno scritto di Daniele Manacorda, architetto e archeologo, che aveva sostenuto che la distruzione dell’Arena aveva trasformato il Colosseo «in un luogo surreale»: il sotterraneo esiste solo per stare sottoterra, come dice la parola, e non alla luce com’è adesso, e rifarci sopra l’Arena «permetterebbe al Colosseo di tornare a essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che nella sua cornice unica al mondo ospita ogni possibile evento della città contemporanea».

Qualcuno si è già allineato, come Gaetano Volpe, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, che ha subito detto di sì, entusiasta: «Basta con i feticismi. Speghiamo bene ai turisti che cosa è stato il Colosseo e quali funzioni ha svolto».

O come l’ex sovrintendente Adriano La Regina: «In fondo il Colosseo nasce proprio come un’arena. E’ giusto, ma attenzione alla spesa elevata e ai problemi di manuntenzione». Il fatto è che sono proprio questi due timori a raggruppare i no. Che non sono pochi, visto che siamo appena agli inizi.

Dallo storico d’arte Tomaso Montanari: «Idea povera culturalmente, banale e banalizzante. Con tutto quello che c’è da fare, con tutto l’enorme patrimonio d’arte in pericolo, con le tante, tantissime cose sconosciute dei nostri tesori, è giusto che il ministro si concentri sul Colosseo e sul suo uso spettacolare?».

All’ex direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis: «In un momento drammatico per la tutela patrimoniale, con lo Sblocca Italia che contiene norme devastanti, restituire l’Arena al Colosseo non è una priorità ragionevole».

Fino al consigliere di Forza Italia Ignazio Cozzoli, che non potrebbe essere più preciso: «Dico no perché se si rifarà l’Arena c’è il rischio che si faccia un concerto alla settimana. Però sono pronto a cambiare idea di fronte a un progetto serio».

Forse ha ragione lo scrittore Alessandro Robecchi quando dice che «urge correre ai ripari prima che il Colosseo diventi un derby fra conservatori e moderati. Il rischio è che la diatriba continui per decenni». Ma ci sono altre piccole cose da aggiungere per una riflessione più attenta.

Innanzitutto, il Colosseo è il monumento più visitato al mondo con 5 milioni di presenze all’anno, e in un Paese in cui i nostri musei sono per la maggior parte gestiti male e in rosso, questo non è un aspetto secondario. Ma poi chi lo sa davvero che cos’era e che cosa significa il Colosseo?

Nell’antichità l’Arena era un tavolato coperto di sabbia dove andavano a morire i prigionieri e si sfidavano i gladiatori, sotto a degli spalti così gremiti che gli spettatori preferivano non muoversi neanche durante l’intervallo di mezzogiorno per paura di perdere il posto. Per allietarli, gli organizzatori, assieme ai giocolieri, esibivano dei condannati a morte che dovevano sfidarsi fra loro, uomini inermi a mani nude contro uomini armati.

Colosseo-"Il gladiatore"
Russell Crowe in una scena del film “Il gladiatore”

Chiunque vincesse doveva continuare a combattere disarmato fino a che qualcuno non lo uccideva in una spietata catena di omicidi autorizzati (i «munera sine missione». Munera erano le offerte funebri). Dopo di loro, nel pomeriggio toccava ai gladiatori.

Ma i gladiatori, tramandati nei secoli dal nostro immaginario, erano la parte ancora meno tragica di quegli spettacoli violentissimi. Erano forti, allenatissimi, pieni di donne e anche di soldi, visto che molti di loro quando venivano liberati per ovazione dalla schiavitù, preferivano tornare dentro l’Arena a combattere, restando in fondo quello che erano, degli schiavi prigionieri del loro eroismo e del loro coraggio.

Ma lì dentro non è per tutti così. Prima di loro  nell’arena salgono quelli che devono morire, prigionieri di guerra condannati al supplizio o «ad bestias». E’ un’usanza che i romani hanno appreso dai Cartaginesi, quella di dare alle belve i militari catturati in guerra. Il condannato al supplizio entra nell’arena nudo o seminudo, con le mani legate dietro la schiena.

Alcuni venivano crocifissi o arsi vivi, o sbranati dagli animali. Ma quelli condannati ad bestias sono in genere sommariamente dotati di abiti e armi, cioè degli stracci e qualche coltello, e come i gladiatori sono stati addestrati per l’attacco e la difesa in una apposita scuola, come quella del Ludus Magnus, dove mille prigionieri dormivano in celle scure senza letti.

Alle belve comunque sono in pochi a sopravvivere. Sono state tenute affamate al buio per giorni interi proprio nei locali di quei sotterranei del Colosseo che alla luce come sono adesso non rendono molto l’idea.

Colosseo

Per renderle pazze, i guardiani le torturano e riempiono di ferite i loro cuccioli: così sono sicuri che attaccheranno con odio qualsiasi uomo vedano. Le belve sbucano d’improvviso nell’arena, arrivando da alcuni passaggi che trovano appena fuori dai montacarichi, su cui erano state portate per farle salire dagli oscuri locali dell’anfiteatro.

A volte vengono legate le une alle altre e si tormentano lottando atrocemente fra di loro. La cronaca di uno spettatore ci racconta una battaglia all’ultimo sangue fra un leone e un elefante. Vince l’elefante, che schiaccia sotto la sua mole il re della giungla.

E quando una volta devono uccidere proprio degli elefanti che si stavano ribellando a quelle torture, sono le loro urla disperate, i loro barriti che si alzano lancinanti nel cielo nero della notte, l’unica cosa che muove a pietà quel pubblico estasiato dai supplizi e dai prigionieri sbranati vivi.

Non so se c’è un modo per rendere questa storia a un ignaro pubblico di curiosi. Ma se c’è, è meglio che sia quella più vicina alla realtà di questo monumento. In fondo, è giusto così.

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