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Il male nello sguardo incandescente di Diane Arbus

Diane-Arbus-foto Diane Arbus, 1965 Coppia nel Washington Square Park

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«Non mi piace mettere ordine alle cose. Se una cosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io».

Dev’essere per questo che mi è venuta in mente Diane Arbus, che rispondeva così a chi le chiedeva i segreti delle sue splendide foto di mostri ed emarginati, perché in questi giorni di orrori, dalla morte di Loris alla disperata e tragica storia di sua mamma, da tutte le donne e i bambini che continuano a venire uccisi, dalle vittime più deboli ai loro carnefici, nessuno di noi riesce a immaginare le vere facce di questi abissi.

La malvagità e la crudeltà hanno la stessa luce della sofferenza, la sua stessa evidenza? Quelle che ritraeva Diane Arbus erano più che altro emarginazioni fisiche, e non morali.

Ma il suo occhio «spesso rivolto al grottesco e all’audace era un occhio coltivato per mostrarti la paura perfino in una manciata di polvere», come diceva Walker Evans. E invece qual è la paura che provoca l’orrore?

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Diane Arbus, 1966 „Un giovane uomo a casa con i bigodini in west 20th street“

Dicono che Diane Arbus abbia aggravato i suoi già seri problemi di depressione continuando a immergersi anima e corpo in quel mondo di emarginazione e di dolore che le offriva la materia prima del suo lavoro.

  • Si uccise nel 1971, a 48 anni, ingerendo una scatola di barbiturici e tagliandosi pure le vene dei polsi.

Può darsi che sia come diceva Nietsche, che a forza di guardare nell’abisso ci si finisce dentro. Lei diceva: «Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione. I mostri sono nati insieme al loro trauma».

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Diane Arbus, autoritratto – New York, 1967

La verità era che lei era nata molto distante da questo mondo, in una famiglia polacca di origine ebrea, i Nemerov, proprietaria di una catena di negozi di pellicce, fra soldi e lustrini, sempre sul velluto, dalla villa con i maggiordomi agli studi giovanili nelle scuole esclusive. Arbus era il nome di suo marito, Allan Arbus, che sposò disobbedendo ai suoi genitori, che volevano per lei un matrimonio «al loro livello».

Con Allan, lei diventa una fotografa di moda. La sua parabola artistica comincia solo alla fine degli Anni 50 e dura undici anni, dal 1960 al ‘71, dopo il divorzio.

Nel racconto che fa la docente di fotografia Rosa Maria Puglisi, lei reagisce al rigore formale e alla perfezione tecnica che richiedeva il suo precedente lavoro, «sentendola come una sistematica falsificazione cosmetica del reale e andando a inseguire, come le aveva insegnato Lisetta Model, ciò che le fa paura».

Culturalmente è il momento giusto, perché sta esplodendo la beat generation che rifiuta i modelli di vita precostituiti, mentre Andy Wahrol esaspera i meccanismi della pubblicità, per sovvertire l’immagine della nuova società dei consumi dal suo interno.

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Diane insegue la paura, come facciamo noi quando ci addentriamo nella cronaca scoprendo la malvagità dei cuori, la sua brutalità e la sua violenza espressa persino con incredibile piacere sui più deboli. Quello che cerca lei è soprattutto l’orrore estetico. Quello che troviamo noi è l’orrore dell’anima.

Ma quando Diane parla del suo lavoro c’è una cosa che ci colpisce, perché racconta una verità che accomuna i due mestieri, con tutte le dovute differenze: «la fotografia», dice, «è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere».

L’istantanea è una parte infinitesimale dell’insieme, proprio come la cronaca concentra il suo obiettivo sulla notizia. Dietro, c’è tutto un mondo. Ma qual è il mondo del male? Veronica Panarello, la mamma accusata di aver ucciso Loris, il suo figlioletto di 8 anni, aveva vissuto un’infanzia terribile in cui era stata rifiutata brutalmente da sua madre («tu sei nata solo per sfortuna», le aveva gridato) fino ad arrivare al punto di tentare il suicidio due volte, a 14 anni e 15.

Se è stata davvero lei, questo non la salva di certo né la giustifica. Ma qual è la profondità del male? Fino a dove arriva e dove si perde?

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Diane Arbus, 1965 Coppia nel Washington Square Park

Anche a noi, come a Diane Arbus, fa paura questa lontananza da noi, questa diversità incolmabile, che ci rende fragili, e inermi, in fondo.

Diane esplorava i sobborghi, gli spettacoli di quart’ordine con i travestiti, scoprendo povertà e miseria morale. Ha ritratto nani, giganti, ritardati mentali, donne barbute, figure enormi e deformi, tutti quelli che chiamavano i freak, i mostri, gli scherzi della natura, e ancora oggi nelle sue fotografie si respira la polvere delle stanze chiuse, la magia cupa di un mondo ai margini, invisibile.

Ma in quelle persone, il suo occhio vedeva la più alta rappresentazione della vita, non la sua malvagità, vedeva solo il frutto del dolore, l’espressione del male, non il male stesso.

Chi nasce con un dolore, diceva, non ha paura del dolore.

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Diane Arbus, foto bambini

Per questo, alla fine, restiamo senza risposta. Il male non dà immagine di sé se non in quello che fa e in quello che lascia. E quando lo vedi non puoi isolarlo dagli altri, come in una foto di Diane Arbus, non puoi farne un mondo a parte.

Come Hannah Arendt di fronte ad Adolf Eichmann, tutte le volte non possiamo far altro che riconoscere la banalità del male, la sua spaventosa normalità. Non c’è grandezza che riesca a rappresentarla.

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