La verità è che non riusciremo mai a capire perché mancano i soldi per la cultura e per l’arte. Forse perché quando ci sono non servono?
Il ministro dell’economia Tremonti, con la sua erre moscia da lombardo chic, che piaceva tanto al circolo magico di Bossi, diceva quelle cose che si bestemmiano in qualche bar fumoso della Val Brembana: «Con la cultura non si mangia».
Poteva ben dirlo visto che lui di mangiare evidentemente ne ha sempre capito molto. Ma Marcello Fiori, quando era ancora capo gabinetto di Rutelli, diceva: «E’ uno scandalo che l’insieme dei siti archeologici italiani incassi appena il dieci per cento di quanto da solo incassi il Louvre».
Verissimo. Solo che da commissario delegato per l’emergenza degli scavi archeologici di Pompei, la Corte dei Conti e la Guardia di Finanza gli hanno contestato «costi esorbitanti rispetto all’obiettivo, messa in sicurezza, conservazione e restauro del patrimonio del sito», al punto da disporre un sequestro di 5,7 milioni di euro.
Detto che a lui, onestamente, non sappiamo cosa possano prendergli, visto che non sembra proprio uno di quelli che s’è arricchito, come dimostra il fatto che non ha poi mai cambiato molto la sua vita.
Ha cambiato solo le idee, quelle sì. Di sè raccontava: «sono figlio di un muratore e di una mondina». Ma erano i tempi in cui lavorava a Legambiente, preciso e stimato collaboratore della Dire, l’agenzia fondata da Antonio Tatò, il segretario di Berlinguer.
Pensate come cambia il mondo: poco tempo fa, intervistato da Gianni Minoli su Radio24, ha detto che «l’unico difetto di Berlusconi è che è troppo buono».
Cerchiamo sempre di capire. Lui i soldi per Pompei li ha spesi davvero, non li ha intascati come fanno tanti. Il problema sarebbe come li ha spesi.
Andando a spulciare tra le carte si scopre che sono stati tirati fuori 10 milioni per gli impianti telefonici (sic), centomila per 19 pali della luce, 90mila per accogliere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che nemmeno si fece vedere, 100mila euro per cacciare 55 cani randagi «che erano diventati rabbiosi».
E 10mila infine per celebrare anche il suo lavoro in un libro, a tiratura limitata per fortuna. Il problema – come si capisce bene – non è se ce ne fosse o meno bisogno, che già questo ha una sua valenza, ma come sta Pompei. Malissimo.
E di che cosa ha bisogno Pompei? Di tutto.
Adesso non vogliamo dirla come il sostituto procuratore della Corte dei Conti Donato Luciano che ha definito quelle spese decise da Fiori come «interventi destinati a finalità stravaganti e esorbitanti rispetto ai compiti aassegnati», e il suo «modus operandi assolutamente irriverente per la sua protervia e significativo di un assoluto senso di disprezzo delle regole», però c’è effettivamente qualcosa che non quadra in tutto questo.
La Finanza ora gli vorrebbe sequestrare la casa (intestata al figlio), oltre ai conti correnti e la macchina, ma è quasi impossibile che possa recuperare da lui quei 5,7 milioni che chiede.
Non tanto perché, come dice lui stesso, sembrerebbe «abnorme un provvedimento del genere non in presenza di una condanna», ma proprio perché non crediamo proprio che li abbia.
Fiori ha un figlio di 17 anni, una famiglia normale e una vita modesta, anche se da qualche tempo è diventato uno dei responsabili dei club Forza Silvio e lui si sarebbe messo in testa l’idea un po’ astrusa di «rifondare il berlusconismo in nome di Einaudi, Benedetto Croce e John Stuart Mill», come dice Francesco Merlo.
D’altro canto è il percorso del ragazzino belloccio e ricciuto che si dannava l’anima con Legambiente, che è travagliato e martoriato come la sua Pompei, visto che già da Tatò era riuscito a finire con Rutelli: da lì è stato più semplice passare a Berlusconi, prima folgorato da Bertolaso, che lui ha sempre ritenuto «il modello della mia vita» e «il più grande manager che l’Italia abbia mai avuto», e poi inglobato nel cerchio magico di Gianni Letta.
Ora è ovvio che non è il giudizio sulle idee di un uomo a denunciare uno sperpero.
Il giudizio è su Pompei che sta morendo, e basta, e sui soldi che continuiamo a buttare dalla finestra, mentre il nostro patrimonio artistico e archeologico, che potrebbe essere la nostra fortuna, continua a essere abbandonato a se stesso.
Vittorio Sgarbi, ad esempio, s’è inalberato un mucchio per le interrogazioni dei consiglieri regionali del Pd sul milione e 900 mila euro di contributo stanziati dalla giunta Maroni per la sua collaborazione in vista dell’Expo, quando la Regione investirà su percorsi artistici e spirituali
«che condurranno i visitatori dinanzi a capolavori universali troppo spesso nascosti», come ha spiegato lui stesso. «Sì la cifra è oscena», ha detto. Precisando però subito dopo: «Modestamente oscena. Perché io voglio ben sperare che i soldi alla fine saranno di più, molti di più».
Insomma, vanno bene solo se li spendono per me?
Eppure pochi giorni prima, Sgarbi aveva appena denunciato giustamente una delle solite assurdità all’italiana di sprechi e brutture sulla pelle della cultura: la Spa dell’Eur, società per azioni detenuta da due referenti pubblici, il Ministero del Tesoro e il Comune di Roma, dopo aver «promosso una folle campagna edilizia che contemplava, fra l’altro, un acquario virtuale nel lago artificiale (sic), la costruzione di non si sa cosa al posto del Velodromo Olimpico, abbattuto, torri di Renzo Piano al posto di quelle di Cesare Ligini, un hotel invenduto e la costosissima Nuvola di Fuksas», adesso è costretta a vendere per rientrare delle spese.
«Non i musei e l’archivio, bensì i loro storici contenitori», precisa Sgarbi. «E’ lo Stato che deve rimediare?».
Già, è sempre lo Stato che deve rimetterci e la cultura che deve pagare? Ma se è così, allora non è vero che con la cultura non si mangia, come diceva Tremonti erre moscia. Qualcuno che ci mangia c’è sempre. Eccome se c’è.
Perciò Milano abbandona al degrado il terreno destinato alla Biblioteca Europea, ma insiste col progetto demenziale di riaprire i navigli, degno compare della >Roma imperiale mussoliniana