Enrico Letta, meglio conosciuto come «enricostaisereno», l’hasthag amichevole di Matteo Renzi che lo stava silurando senza vaselina, dopo più di un anno di tristissimo e inconsolabile silenzio, è tornato alla ribalta con un libro che contiene tutto il suo messaggio pastorale: «Andare insieme, andare lontano». Sottotitolo tipo proverbio africano: «Se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano devi farlo insieme».
C’è da dire che l’ex premier ha avuto 12 intensi mesi di solitudine, rotta solo da qualche eroica apparizione come quella del 25 febbraio 2014 quando andò a votare la fiducia, accolto da un prolungato e affettuoso applauso della Camera che tentava invano di alleviare la sua atroce pena, per elaborare in maniera più approfondita il concetto che qualcuno ha voluto erroneamente riassumere nel vecchio detto popolare «chi va piano va sano e lontano».
Come ha spiegato benissimo in una delle numerose apparizioni che hanno annunciato fra l’altro il suo voto contrario all’Italicum, questo libro marca «la differenza che passa fra governare e comandare».
Enrico Letta – sottolineato senza ironia – è di quelli nati per fare il premier.
Tutti i bambini hanno un sogno. Un mio amico per esempio sognava di fare il camionista perché li guardava dalla finestra mentre portavano la calce per tirare su un palazzo. Da grande invece ha fatto il medico.
Un altro sognava di fare il ferroviere perché ci giocava con i modellini. Oggi è un avvocato e mi ha assicurato che è contento.
Letta probabilmente sognava di fare il premier. Già quando giocava, lo faceva e gli amichetti vestiti da cowboy e indiani dovevano innervosirsi molto.
Imparò allora l’arte dell’attesa e della condivisione. In questo, è un maestro, e non è una critica. Quando è arrivato al governo ha speso belle parole sul patrimonio culturale del Paese («dobbiamo puntare sul paesaggio, l’arte, l’architettura», l’Italia ha «un patrimonio dissipato, un giacimento inutilizzato di potenzialità»).
Solo che una volta realizzato il sogno è arrivato un amico che faceva lo scout e gliel’ha tolto da sotto il naso. Un po’ per questo, e un po’ per la sua volontà di camminare tutti insieme, piano piano, non ha fatto niente.
Logico che ci sia rimasto male. Il cambio di consegne fu addirittura clamoroso. Lasciò cadere la campanella nelle mani di Renzi senza un cenno di cortesia, volgendo ostentatamente lo sguardo ferito da un’altra parte.
Era un gesto che voleva contraccambiare la misura dell’insolenza patita. Massimo D’Alema, il primo dei grandi rottamati, fa la guerra dietro le linee rilasdciando dichiarazioni velenose, con l’aria di un maestro arrabbiato, con la bava alla bocca, che stanga inesorabilmente l’alunno che si pavoneggia troppo.
Lui no. Lui manifesta con tutta la solennità possibile l’offesa. Per un anno si è isolato come un principe, che resta superiore alle umane meschinità. Ha fatto una sola uscita pubblica polemica, quando Enrico Mentana aveva rilanciato in tv la possibilità che si trasferisse nel partito di Alfano: «Notizia inventata, come spesso capita a Mentana quando parla di me».
Per il resto, lunghe passeggiate al Testaccio, i figli accompagnati a scuola, tutto il lessico familiare di una vita normale.
Dopo la caduta, due settimane di ritiro spirituale per reprimere il peccato dell’ira, una vacanza a Cefalonia con moglie e figli, un giro tra i fiordi norvegesi. E’ tornato anche a Pisa, ma solo per ritirare un premio e una foto lo ritrae sconsolato mentre riceve il «Guerriero Pisano» con un sorriso che sembra trattenere lacrime disperate.
Poi twitta: «Bella serata nella città che amo».
Resta in silenzio anche al secondo affronto. Bersani va da Renzi e cerca di convincerlo: «Sarebbe un bel colpo per l’Italia se Enrico divenisse presidente del Consiglio europeo». Renzi gli risponde pubblicamente: «Il nome di Letta non è stato fatto né durante gli incontri ufficiali, né nei pour parler». Lui zitto.
Lo chiamavano «il giovane nato vecchio» quando era agli esordi nella politica. Dev’essere lo stimmate del bambino che sognava di fare il premier. Non parla.
Accompagna Giacomo Lorenzo e Francesco a scuola tutte le mattine. In Parlamento non ci va quasi più: 17,26 per cento di presenze in aula prima dell’Italicum.
Però scrive il libro, 144 pagine per marcare la sua lontananza da Renzi. Finalmente, forse è arrivato il momento.
Si ripresenta e critica il premier e l’Italicum, assieme a Romano Prodi, guardacaso, un altro che si era beccato lo «staisereno» prima del voto per il Presidente della Repubblica dal ragazzaccio di Pontassieve.
Non è che puntasse davvero al Quirinale. Ma a Prodi era come se fosse arrivato un treno in faccia. Con la nuova legge elettorale, ci si guarda tutti in faccia, o da una parte o dall’altra.
Niente più signori. Io non vado da solo, ammonisce «enricostaisereno». Il voto è la prova della verità. Il premier tira diritto: «Devono presentare i loro libri».
E Enrico Letta gli risponde avvelenato: «Quella di Renzi sul libro è una frase che qualifica chi la fa e applica le sue categorie mentali». Poi aggiunge: «Meglio un libro che un hasthag». Tutto chiaro, adesso. Enrico non è più sereno.